Pianeta di ghiaccio Hal Clement Per la famiglia Wind, i monti dell'Ovest americano sono un ambiente di vita ideale e una fonte di benessere, dopo che babbo Wind ha scoperto la sua miniera d'oro segreta. Per i Sarriani, abituati a respirare zolfo volatile, il Pianeta di Ghiaccio è uno dei tanti mondi inabitabili dell'universo. Perfino le loro navette automatiche inviate verso le pianure azzurre che formano gran parte del pianeta cessano subito le comunicazioni. Di parere diverso sono invece alcuni contrabbandieri che, dalla loro base su Mercurio, da quasi trent'anni ottengono dal Pianeta di Ghiaccio preziose quantità di una potentissima droga allucinogena in cambio di modeste quantità di metalli preziosi. Tutto potrebbe ancora filare per il meglio (secondo il metro di questa Cosa Nostra dello spazio) se un giorno le autorità di Sarr non infiltrassero un loro scienziato nella banda di spacciatori, e se finalmente le barriere di gelo che isolano due culture aliene non crollassero in qualche modo. Per la prima volta in Italia uno storico romanzo classico firmato dal maestro dell'esobiologia. Hal Clement Pianeta di ghiaccio (Iceworld, 1953) 1 Fin dall’inizio, Sallman Ken non era del tutto sicuro che la decisione di accettare la proposta di Rade fosse quella giusta. Lui non solo non era un poliziotto, ma non era neppure sicuro di saperlo fare. Non aveva mai avuto una particolare inclinazione per il rischio. Aveva sempre pensato, naturalmente, di poter sopportare la sua dose di disagi, ma lo spettacolo che gli si mostrava in quel momento dal boccaporto della Karella lo portava a dubitare anche di questo. Comunque, Rade era stato abbastanza onesto, dovette ammettere. A quanto pareva, il capo della squadra narcotici gli aveva detto tutto quello che sapeva; comunque, quanto bastava perché Ken, sforzando al massimo la sua immaginazione, potesse forse attendersi qualcosa di simile a quello che gli stava davanti agli occhi. «Non ce n’è mai stata una grande quantità sul mercato» gli aveva spiegato Rade. «Non sappiamo neppure come la chiamano gli spacciatori. Per loro è soltanto una «annusata». Ormai è in circolazione da diversi anni; ce ne siamo occupati molto tempo fa, quando fece la sua comparsa, ma poi non ce ne siamo più interessati perché abbiamo constatato che la gravità della situazione non tendeva ad aumentare.» «E allora, cos’è saltato fuori, adesso, di tanto pericoloso?» gli aveva domandato Ken. «Be, è ovvio che ogni droga capace di dare assuefazione costituisce un pericolo» aveva risposto Rade. «Come insegnante di scienze, dovreste saperlo anche voi. Il particolare pericolo di questa sostanza sembra però costituito dal fatto che si tratta di un gas, e che può quindi venire somministrata senza il consenso della vittima. Inoltre sembra così potente che basta una sola dose per dare assuefazione. Immaginate che grave pericolo pubblico potrebbe diventare.» E Ken non aveva avuto difficoltà a immaginarselo. «Sono d’accordo» aveva risposto. «Anzi, mi stupisco che non ci abbiano già contagiati tutti. Basterebbe immetterla nel sistema di condizionamento d’aria di un edificio… o a bordo di una nave. Un atto del genere potrebbe creare in un colpo solo centinaia di potenziali clienti per le persone che hanno in mano lo spaccio della droga, chiunque esse siano. Perché il suo commercio non si è mai esteso?» Rade aveva sorriso per la prima volta dall’inizio del colloquio. «Anche in questo caso» aveva risposto «i motivi sembrano essere due. Ci sono difficoltà di produzione, ammesso che ci sia un briciolo di verità nelle voci, d’altronde molto vaghe, che riusciamo a raccogliere; e la droga non resiste a normale temperatura. Occorre conservarla in un refrigeratore a temperature bassissime; quando viene portata alla temperatura ambiente si decompone in pochi istanti. Credo che il principio attivo sia in realtà uno dei prodotti della decomposizione termica, ma nessuno di noi ha mai avuto a disposizione un campione della droga per accertarsene.» «Ma la questione» aveva chiesto Ken «in che modo mi riguarda? Se non avete nessun campione, io non posso analizzarla. Anzi, probabilmente non potrei analizzarla neppure se ne avessi uno, perché sono un insegnante, e non un chimico di laboratorio. Cos’altro posso fare?» «È proprio perché siete un insegnante: una sorta di esperto tuttofare di questioni scientifiche, pur non essendo uno specialista in nessun campo particolare. Per questo pensiamo che ci possiate aiutare. Come vi ho detto prima, pare che i trafficanti di droga abbiano dei problemi di produzione. «Non c’è dubbio che i produttori vorrebbero aumentare la quantità di droga che hanno a disposizione. E non c’è dubbio che gli piacerebbe avere a portata di mano un buon direttore di produzione. Sapete benissimo anche voi, come lo so io, che non riuscirebbero mai ad averlo; nessuna persona a quel livello potrebbe prendere segretamente parte ad attività illegali del genere. Ogni buon direttore di produzione è occupatissimo col suo lavoro, dalla scoperta di Velio in poi, e per noi, in qualsiasi caso, sarebbe facile risalire a chiunque accettasse un’occupazione illegale del genere. «Voi, invece, siete una persona relativamente poco appariscente; siete in vacanza, e lo sarete ancora per un anno; nessuno si accorgerà della vostra assenza… almeno, così la penseranno i misteriosi trafficanti, secondo noi. È per questo che abbiamo adottato tante precauzioni nel preparare questo incontro.» «Ma voi dovete farmi conoscere in qualche modo» gli aveva fatto notare Ken «altrimenti i trafficanti non verranno mai a sapere della mia esistenza.» «La cosa è fattibile… anzi, abbiamo già cominciato a farla. Spero che ci perdonerete questa nostra iniziativa; ma l’impegno è molto importante. Negli ambienti di coloro che hanno dei conti in sospeso con la giustizia si è già diffusa la voce che siete stato voi a fabbricare la bomba che ha distrutto l’impianto di Storni. Possiamo darvi un’invidiabile reputazione in questo senso…» «Reputazione che in futuro mi impedirà di procurarmi un lavoro onesto, per tutto il resto della mia vita.» «Reputazione che non giungerà mai a conoscenza dei vostri attuali datori di lavoro, né di altre persone rispettabili, a eccezione delle forze di polizia.» Ken non aveva ancora capito bene il motivo che lo aveva spinto ad accettare. Forse perché il mestiere di poliziotto conservava ancora un po di fascino, almeno per il suo subcosciente, anche se al giorno d’oggi consisteva soprattutto in un lavoro di laboratorio. La missione che gli aveva proposto Rade sembrava un’eccezione… ma lo era veramente? Come Rade si aspettava, lui era stato contattato da qualcuno: un individuo di pochissime parole, che gli aveva detto di agire per conto di una società commerciale. L’intesa pareva molto semplice: lui doveva mettere a disposizione dei suoi misteriosi datori di lavoro le proprie conoscenze scientifiche. Forse si sarebbero limitati a piazzarlo in un laboratorio, a dargli tutti i dati di un problema di produzione, e a chiedergli di risolverlo. In questo caso si sarebbe trovato presto disoccupato, e sarebbe stato fortunato se fosse potuto ritornare da Rade per comunicargli il suo insuccesso. Infatti, fino a quel momento non aveva ancora saputo niente. Lo stesso capo della squadra narcotici aveva ammesso che i suoi uomini non conoscevano nessuno che fosse sicuramente collegato con l’organizzazione dei trafficanti, ed era possibile che lui fosse stato assunto da gente relativamente pulita… rispetto ai veri spacciatori, naturalmente. A quanto ne poteva sapere Ken in quel momento, l’ipotesi non era affatto da escludere. Lo avevano imbarcato a bordo della Karella, nello spazioporto dell’Isola del Nord, e per i successivi ventidue giorni non aveva più visto niente. Sapeva, naturalmente, che la droga veniva da un altro pianeta. Rade era sceso nei particolari fino a dirgli che la diffusione della droga, agli inizi del fenomeno, era stata arrestata grazie al controllo di tutti gli impianti di refrigerazione che giungevano sul pianeta. Ma non aveva immaginato che potesse giungere addirittura dall’esterno del sistema planetario sarriano, finché non aveva pensato che ventidue giorni erano un viaggio molto lungo… ammesso e non concesso che l’astronave avesse sempre viaggiato in linea retta. Ma di sicuro il mondo che in quel momento si poteva scorgere dal boccaporto non sembrava in grado di produrre alcunché. Soltanto una sottile striscia, a forma di falce, della sua superficie era visibile, giacché si trovava quasi esattamente tra la nave e un sole straordinariamente pallido. La parte rimanente, in ombra, della sfera cancellava dal cielo la Via Lattea, e dalle caratteristiche dei bordi si capiva che il pianeta era completamente privo di atmosfera. Era montagnoso, inospitale, freddissimo. Ken lo intuiva dall’aspetto del sole: quell’astro era talmente debole che lo si poteva fissare direttamente, senza bisogno di proteggersi gli occhi: appariva rossiccio e come raggrinzito. Qualsiasi mondo che si trovasse appena un po lontano da quel sole non poteva che essere freddo. Naturalmente la droga di Rade richiedeva un ambiente a temperatura molto bassa; benissimo, se era lì che veniva prodotta, Ken intendeva rassegnare le dimissioni, senza pensarci sopra un solo istante di più. Gli bastava guardare il pianeta per sentirsi i brividi. Si augurò che qualcuno si decidesse, finalmente, a spiegargli cosa stesse succedendo. Sulla porta della sua cabina c’era un altoparlante, ma finora lo avevano usato solo per comunicargli che gli avevano portato i pasti e che per il momento la porta non era chiusa a chiave. Per tutta la durata del viaggio non gli era stato permesso di lasciare la sua stanza, e questo faceva pensare a qualcosa di illegale; purtroppo le forme di illegalità possibili erano numerose, e non si limitavano a quella che lui doveva investigare. Con la corrente legislazione sul commercio, quando una nave esploratrice mercantile scopriva un sistema abitato, molto spesso l’equipaggio teneva segreta la notizia per riservarsi le possibilità di sfruttamento commerciale. In quest’ottica, la precauzione di nascondere all’ultimo arrivato la posizione reale del pianeta costituiva un’ovvia misura di sicurezza. Non foss’altro che per verificare la reazione dei suoi ignoti carcerieri, disse a voce alta le sue impressioni, pensando che, in fin dei conti, il fatto che si fossero fermati così a lungo davanti a quel pianeta dovesse pur significare qualcosa. «È qui che volete farmi lavorare? Scusatemi se vi dico che mi sembra un posto estremamente sgradevole.» Con una certa sorpresa, si sentì rispondere da qualcuno: una persona diversa da quella che gli aveva annunciato i pasti. «Sono d’accordo con voi» disse la voce. «Non sono mai sceso personalmente su quel pianeta, ma davvero ha un aspetto poco allettante. Comunque, a quanto vi posso dire al momento, il vostro lavoro non prevede che vi interessiate di quel mondo.» «E di che lavora si tratta?» domandò Ken. E aggiunse: «O non volete ancora dirmelo?» «Ormai possiamo dirvelo senza pericolo, visto che siamo arrivati al sistema planetario di destinazione.» Nell’udire queste parole, Ken diede uno sguardo allarmato al pallido sole, ma continuò ad ascoltare senza dire niente. «La porta della vostra cabina è aperta adesso» proseguì la voce all’altoparlante. «Uscite nel corridoio e voltate a destra, e proseguite fino alla fine… circa trenta metri. Arriverete alla cabina di comando, dove ci sono io. Sarà meglio per tutti e due, se ci parleremo di persona.» L’altoparlante tacque, e Ken fece come gli era stato detto. La Karella pareva un tipo normalissimo di nave interstellare, lunga probabilmente una cinquantina di metri, massimo settanta, e con diametro da quindici a venticinque. La forma consueta di quelle navi era cilindrica, con le estremità arrotondate. Un mucchio di posto, all’interno, da impiegare per il trasporto di passeggeri, di merce, o di quel che più pareva al proprietario e armatore… Nella cabina di comando non c’era niente che meritasse particolare attenzione, a parte gli individui che si trovavano al suo interno. Uno di essi era certamente il pilota: era aggrappato alla sua spalliera, davanti al quadro principale dei comandi. L’altro galleggiava in caduta libera in mezzo alla stanza, e ovviamente aspettava l’arrivo di qualcuno, visto che teneva gli occhi puntati sulla porta. All’arrivo di Ken, si rivolse subito a lui: Ken riconobbe immediatamente la voce che lo aveva invitato a raggiungere la cabina di pilotaggio. «Ero un po esitante a incontrarci di persona prima che accettaste definitivamente la mia offerta; ma in fin dei conti non vedo che rischi ci possano essere. Oggi come oggi, è molto difficile che io mi rechi ancora una volta su Sarr, e dunque la probabilità che possiate di nuovo incontrarmi è molto remota, nel caso che tra noi non si riesca a raggiungere un accordo.» «Allora» domandò Ken «devo pensare che siete implicato in qualcosa di poco legale?» Ken pensava di poter dire senza rischi una cosa che, stando alle parole dell’altro, sembrava alquanto ovvia. Dopotutto, il suo misterioso datore di lavoro non poteva pensare che lui fosse stupido. «Poco legale, certo, se vogliamo interpretare la legge nel modo più… ristretto» disse l’altro. «Tuttavia io ritengo… e sono moltissimi a pensarla come me… che se qualcuno scopre un pianeta abitato, lo esplora a proprie spese, instaura rapporti amichevoli con gli abitanti, ritengo che abbia il diritto morale di ricavare un qualche utile dalla sua scoperta. Questa, detta in poche parole, è la nostra situazione.» Ken sentì un tuffo al cuore. Cominciava a temere di essere incappato proprio nel tipo di piccola illegalità da lui temuto, quello che non rivestiva alcun interesse agli occhi di Rade. «In questo modo di vedere la cosa c’è del giusto…» cominciò Ken, senza compromettersi troppo. E aggiunse: «Ma, se la situazione è quella che dite, cosa posso fare per voi? Io non sono certamente un esperto di linguistica, e non so niente di economia, se le vostre difficoltà sono di tipo commerciale.» «Ci sono delle difficoltà» rispose l’altro «ma non del tipo che dite voi. Nascono dal fatto che il pianeta in questione è talmente diverso da Sarr da rendere impossibile la nostra presenza su di esso, di persona. Abbiamo incontrato delle enormi difficoltà, anche solo per entrare in contatto con gli indigeni, e siamo in contatto soltanto con un gruppo di loro… anzi, può darsi che addirittura si tratti di un singolo individuo; non lo sappiamo.» «Come sarebbe a dire che non lo sapete? Non potete mandare una sonda con una telecamera e una trasmittente? Mi sembra la prima cosa da fare, in casi come questo.» «Ve ne accorgerete da voi.» L’individuo, che non aveva ancora dato il suo nome, gli rivolse un sorriso alquanto sgradevole. «Comunque, in un modo o nell’altro, un po di commercio con l’indigeno, o gruppo di indigeni che sia, siamo riusciti a organizzarlo, e abbiamo scoperto che ha un prodotto che ci interessa. Lo riceviamo, come avrete già immaginato, in partite piccolissime, a pezzi e bocconi. Fondamentalmente, il problema che dovrete risolvere è questo: come procurarcene in maggiore quantità? Potete cercare il modo di scendere di persona sul pianeta, se ne avete voglia, ma so che non siete un ingegnere. Piuttosto, pensavo che potreste fare una cosa come questa: analizzare attentamente le condizioni fisiche del pianeta… atmosfera, temperatura, luce e così via… in modo che possiamo poi riprodurle in una località più comoda per noi, per coltivarci da soli il prodotto che ci interessa. In questo modo, detto per inciso, eviteremmo anche di dover pagare agli indigeni il prezzo che ci chiedono.» «Non mi pare una cosa molto difficile» commentò Ken. «Per inciso, noto che non intendete farmi sapere di che natura è il prodotto a cui vi riferite… a parte che dovrebbe essere di origine vegetale… ma la cosa non mi stupisce. Una volta avevo un amico che lavorava nel campo dei profumi, e il modo in cui cercava di nascondere certi fondamentali rudimenti di chimica che, secondo lui, costituivano dei grandi segreti, risultava leggermente patetico. Sono disposto a provare a fare ciò che mi dite… ma vi avverto, sono ben lungi dall’essere il miglior chimico della Galassia, e non mi sono portato alcuna attrezzatura di laboratorio, poiché non sapevo che cosa si desiderava da me. Avete questa attrezzatura, qui sulla nave?» «L’abbiamo, ma non sulla nave» rispose l’uomo che non si era presentato. «Abbiamo scoperto il pianeta circa vent’anni fa, e in questo periodo abbiamo costruito una base abbastanza comoda, sul pianeta più interno del sistema. Quel pianeta tiene sempre lo stesso emisfero rivolto verso il suo sole, e siamo riusciti a concentrare su una piccola valle una grossa quantità di luce solare. Laggiù la temperatura risulta adesso abbastanza sopportabile. La base dispone di un buon laboratorio e di un’officina attrezzata, di cui si occupa un bravo meccanico chiamato Feth Allmer; e se poi vi dovesse servire qualcosa che non c’è in officina, possiamo sempre andare noi a prenderla. Cosa ne dite?» «Davvero ottimo. Accetto il lavoro, e vedrò di fare il possibile.» Ormai, Ken si sentiva un po più rassicurato, in parte perché il lavoro in sé si presentava abbastanza interessante, e in parte grazie ad alcune affermazioni che l’altro si era lasciato scappare inavvertitamente. Se il prodotto che quella gente si procurava sul pianeta sconosciuto era di origine vegetale, come pareva stando a quello che aveva sentito, c’era una sia pur minima possibilità che lui si fosse imbattuto nella pista giusta. Alla necessità di refrigerare il materiale, naturalmente, non si era fatto cenno… E, in base a quanto si era detto, il pianeta poteva essere o troppo freddo o troppo caldo per scendervi di persona; ma lo spettacolo che lui aveva visto dal portello della sua cabina, quando gli era apparso il sole di quel sistema, lo faceva propendere per la prima ipotesi. Inoltre, il suo datore di lavoro aveva parlato di riscaldare il pianeta più interno… e dunque non poteva esserci nessun equivoco, il pianeta era freddo. Indubbiamente. La possibilità di essere sulla pista giusta diventava sempre più alta. Ma all’improvviso dovette distogliere la sua attenzione da questo filo di pensieri perché si accorse che il suo datore di lavoro… ammesso che si trattasse veramente del capo dell’impresa… aveva ripreso a parlare. «Ero certo che avreste accettato il lavoro. Potete ordinare tutto quello che vi occorre, a partire da questo istante. Potete usare questa nave come desiderate, a meno che non ci siano obiezioni da parte di Ordon Lee, se riterrà che la nave possa correre dei rischi.» Nel pronunciare questo nome, indicò con l’estremità di un tentacolo la figura del pilota. «Tra l’altro, io sono Laj Drai. Voi lavorate per me, e sono certo che staremo più tranquilli tutti e due tenendo bene in mente questo particolare. Che cosa ritenete che si debba fare, tanto per cominciare?» Ken decise di non dare peso alle pretese di superiorità di Drai, e rispose alla domanda con un’altra domanda. «Avete qualche campione dell’atmosfera e del terreno del pianeta?» «Dell’atmosfera, no. Non siamo mai riusciti a conservarne dei campioni; probabilmente non li abbiamo raccolti nel modo giusto. Uno dei cilindri che abbiamo usato per prelevare i campioni perdeva, e nella nostra atmosfera il contenuto è bruciato, se la cosa può avere qualche interesse per voi. Abbiamo vari campioni del terreno, ma prima o poi sono stati tutti esposti alla nostra atmosfera, e forse la loro composizione chimica è cambiata. Dovrete controllarlo voi. L’unica cosa che so con certezza è che l’atmosfera di questo pianeta ha una pressione che è circa due terzi di quella sulla superficie di Sarr, e che al livello del suolo la temperatura è tanto bassa da congelare gran parte dei gas presenti nella nostra atmosfera normale… credo che giunga addirittura a congelare il potassio. Il nostro meccanico diceva che è successo appunto questo a una delle nostre apparecchiature che ha smesso improvvisamente di funzionare quando l’abbiamo fatta scendere sul pianeta.» «E la dimensione del pianeta?» domandò Ken. «Più grande di Sarr: i dati li troverete tutti alla nostra base sul Pianeta Uno; laggiù sarà più facile consultarli. Non pretendo di ricordarmeli tutti con precisione… anzi, a dire il vero, non ne conosciamo nessuno con precisione. Lo scienziato siete voi, almeno per quello che ci riguarda; i miei uomini sono soltanto i vostri occhi e i vostri tentacoli. «Abbiamo delle sonde telecomandate, come dicevate voi prima. Ma forse sarebbe meglio avvertirmi, prima di usarle; delle prime venti che abbiamo fatto scendere sulla superficie del pianeta, ne abbiamo perse diciannove. Nel punto dove la ventesima ha toccato terra abbiamo collocato un radiofaro, e adesso ci orientiamo sempre sul suo segnale quando inviamo una sonda sul pianeta. Non sappiamo con esattezza che cosa sia successo alle altre sonde, anche se possiamo formulare delle ipotesi abbastanza convincenti. Vi riferirò tutti i particolari quando esaminerete anche il resto del materiale. C’è qualcosa che vorreste fare, prima che ci allontaniamo dalle vicinanze del pianeta e ci dirigiamo verso Uno?» «Allontaniamo dalle vicinanze? Mi pareva di avere capito che non è quello, il pianeta che ci interessa.» Ken sollevò un tentacolo in direzione della falce piena di crateri. «No, non è quello… quello è un satellite di Tre, il pianeta che interessa a noi.» Ken si sentì accapponare la pelle. Il satellite era spaventoso; il pianeta non poteva essere molto più caldo, dato che si trovava alla stessa distanza dal sole. La presenza di un’atmosfera poteva leggermente migliorare la situazione; ma… una temperatura talmente bassa da solidificare il potassio, e il piombo, e lo stagno! Quando Drai glielo aveva detto, Ken non aveva dato peso alle sue parole. Lui aveva sempre goduto di una buona immaginazione: fin troppo buona, forse, visto che adesso, da quei pochi elementi che gli aveva comunicato Drai, riusciva a costruirsi l’immagine di un mondo raggelato fino all’osso. Un mondo coperto di rocce taglienti, su cui batteva un gelido vento di tormenta, mentre sulla sua superficie, sotto una luce rossastra, niente si muoveva. Un pianeta della morte. Ma quell’immagine non poteva corrispondere alla realtà: c’erano degli indigeni. Ken cercò di immaginare che tipo di forma vivente potesse sopravvivere in quelle condizioni estreme, ma non riuscì a raffigurarselo. Forse Laj Drai si era sbagliato sulla temperatura; in fin dei conti, aveva detto che quei dati non erano sicuri. Erano solo le congetture di qualche meccanico. «Vediamo il posto, allora, visto che siamo così vicini. Tanto vale prepararsi al peggio» disse, giunto a questo punto delle sue fantasticherie. Laj Drai fece un cenno al pilota, e lo scafo della Karella cominciò lentamente a ruotare. Il satellite privo di atmosfera scivolò fuori dallo schermo visivo, e al suo posto comparve la luce delle stelle. La nave ruotò di almeno centottanta gradi, finché il Pianeta Tre non si fermò in mezzo allo schermo. La nave doveva trovarsi esattamente tra il pianeta e il satellite, pensò Ken. Cosa non molto saggia, se gli indigeni possedevano cannocchiali. Poiché adesso il sole era alle loro spalle, il disco del grande pianeta era totalmente illuminato. Diversamente dal satellite spoglio, ai bordi del pianeta era visibile un alone che rivelava la presenza di un’atmosfera, anche se Ken non riusciva a immaginare di che gas potesse essere composta. Nonostante la luce solare decisamente rossastra, la maggior parte della superficie aveva una tinta azzurrina. Era impossibile distinguere i particolari; l’atmosfera era estremamente nebbiosa. C’erano delle visibili chiazze bianche, e altre verdi, o marrone, ma non c’era modo di capire che cosa rappresentasse ciascuna di esse. Eppure, nebbioso com’era, c’era qualcosa nell’aspetto del pianeta che fece di nuovo rabbrividire lo scienziato. Forse dipendeva da quello che gli aveva detto Drai, e da quello che aveva dedotto dall’aspetto del sole; forse non era niente di reale. Ma, qualunque fosse il motivo, la sola vista di quel mondo lo faceva rabbrividire, e Ken si affrettò a distogliere lo sguardo. «Andiamo su Uno, e diamo un’occhiata a quei dati» disse, cercando di controllare il suo diaframma vocale. Il pilota obbedì senza fare commenti. Ma la Terra, in realtà, non era così brutta come se la dipingeva lui. Anzi, c’erano delle persone a cui piaceva molto. Ken, naturalmente, aveva dei pregiudizi, come capiterebbe a chiunque, quando si tratta di un mondo dove l’acqua è allo stato liquido… chiunque, beninteso, sia sempre vissuto respirando vapori di solfo, e bevendo, ma solo di tanto in tanto, cloruro di rame fuso. 2 Roger Wing, per esempio, sarebbe rimasto sorpreso dall’atteggiamento di Ken, se avesse potuto conoscerlo. Lui era decisamente a favore della Terra, o almeno della parte relativamente piccola che gli era nota. Non aveva tutti i torti, del resto, in quanto il territorio che circonda il Lago Pend’Oreille vale la pena di essere visto, soprattutto in primavera e in estate. La prima occhiata che dava al lago tutti gli anni, a giugno, era da lui attesa con ansia per tutto l’inverno. Ogni anno e per tutto il percorso, sulla strada statale che partiva dal Lago Hayden, i ragazzi scommettevano tra loro su chi sarebbe stato il primo a scorgere l’Orecchino. Quell’anno i ragazzi erano soltanto quattro, ma il baccano era uguale a quello degli anni precedenti, poiché quello che mancava, Donald, non aveva mai partecipato con molta convinzione alla cagnara dei fratelli. Roger, che per l’assenza del primogenito era diventato il più vecchio del gruppo, pareva intenzionato ad approfittare al massimo dell’occasione; tanto più in considerazione del fatto che non era destinata a durare ancora per molto: una cinquantina di chilometri o poco più. Donald si sarebbe riunito con la famiglia a Sandpoint, località che avrebbe raggiunta in aereo accompagnato da un amico. Si trattava, complessivamente, di un gruppo alquanto eccitato, e i genitori che stavano sul sedile anteriore incontravano notevoli difficoltà a mantenere l’ordine. Comunque, la strada che lascia Coeur d’Alene per dirigersi a nord è molto buona, e il disturbo proveniente dal sedile posteriore non era realmente pericoloso. L’interruzione più grave per il guidatore si verificò quando la gomma posteriore destra della giardinetta si afflosciò dalle parti di Cocolalla. John Wing tardò qualche tempo a fermare l’auto stracolma, e alle nari di Roger giunse per la prima volta l’odore di solfo della gomma bruciata. Non gli sarebbero mancate le occasioni di fare nuovamente la conoscenza di quell’odore, nel corso dell’estate. Dopo l’incidente, i bambini rimasero più tranquilli: l’espressione che compariva sulla faccia del padre indicava che forse la sua pazienza era prossima a esaurirsi; ma per tutto il viaggio non ci fu mai un vero e proprio silenzio. L’apparizione del ponte costruito sulla parte più stretta del Pend’Oreille venne accolta da ripetute salve di saluti, che s’interruppero soltanto quando il signor Wing si fermò a Sandpoint per acquistare una gomma nuova. Di lì si diressero al piccolo aeroporto ai margini della città, e il chiasso aumentò di nuovo quando i ragazzi scorsero il fratello maggiore, fermo accanto a un Cub, sull’erba dell’area di parcheggio. Era alto, e piuttosto magro, con capelli e occhi neri e faccia affilata come quella del padre. Roger, che dal settembre dell’anno precedente era assai cresciuto, scoprì con delusione che Donald lo superava ancora di metà della testa; ma questo piccolo disappunto non tolse niente al calore della sua accoglienza. Donald strinse la mano al padre e al fratello, baciò la madre e le sorelle, e si mise sulle spalle il fratellino di sei anni, Billy. «No» rispose «il volo da Missoula si era svolto senza nessun intoppo. Sì, i voti dell’ultimo trimestre erano buoni, anche se non eccezionali. No, non aveva bagaglio, a parte la piccola borsa che portava con sé: sul Cub c’erano forti limitazioni al bagaglio che si poteva trasportare. Potevano risalire in macchina, e lui poteva rispondere alle loro domande durante il viaggio.» Gettò a Roger la borsa e si diresse verso la giardinetta, con Billy sulle spalle; quando l’intero gruppo si fu sistemato, più o meno comodamente, l’auto ripartì. Da Sandpoint si diressero a nord; al bivio, presero la strada a est per Kootenai; poi la litoranea, sulla sponda settentrionale di quel lago a forma di punto interrogativo, fino a Hope, e di lì a Clark Fork. Laggiù lasciarono l’auto, in una costruzione che aveva in parte le caratteristiche di un magazzino e in parte quelle di un garage. Donald e Roger si dileguarono, e presto fecero ritorno con un imponente schieramento di cavalli da sella e da soma; le bestie vennero caricate con una velocità che rivelava come la famiglia non fosse nuova a quel tipo di manovre; e i Wing, con cenni di saluto ai vari conoscenti che si erano radunati per assistere alla loro partenza, si diressero verso il nord, verso i boschi. Donald sorrise al padre mentre la città spariva dietro di loro. «Quanti campeggiatori credi che ci saranno, quest’anno?» «Difficile a dirsi. Gran parte delle persone che ci conoscono si è finalmente decisa a badare ai fatti propri, e in città non mi pare di avere visto facce nuove; ma i cercatori minerari spuntano sempre quando meno te li aspetti. I cercatori genuini non mi danno fastidio: ci sono utili come paravento. Piuttosto mi preoccupano quelli che vorrebbero mettere le mani sul nostro «filone». Voi ragazzi dovrete sorvegliare la zona come sempre, ma questa volta vorrei che Donald venisse con me. Se i tuoi corsi di chimica all’università ti hanno veramente insegnato qualcosa, figliolo, può darsi che tu riesca a risolvermi un paio di problemi. E se Donald viene con me, a te Roger toccheranno molte più responsabilità delle altre volte.» Il ragazzo annuì, con gli occhi scintillanti. Soltanto recentemente Roger aveva intuito la grande differenza tra il modo in cui passava le vacanze la sua famiglia e quello in cui le trascorrevano le famiglie dei suoi compagni di scuola. All’inizio, i loro racconti di viaggi ai ranch, al mare, in montagna avevano destato la sua invidia; poi aveva cominciato anche lui a vantarsi delle proprie escursioni… finché non si era accorto che i suoi compagni, semplicemente, non credevano alla storia che suo padre aveva trovato una «miniera segreta nelle montagne». L’irritazione aveva poi fatto tacere le sue vanterie per qualche tempo, e in seguito, quando avrebbe avuto la possibilità di dimostrare che le sue affermazioni erano vere, aveva capito che il silenzio era la soluzione migliore, per tutti. Questo era accaduto la primavera in cui aveva compiuto dieci anni. Suo padre, in qualche maniera, era venuto a conoscenza della cosa, e per qualche misterioso motivo ne era rimasto soddisfatto; quell’estate aveva esteso anche a Roger la responsabilità che fino a quel momento era spettata soltanto a Donald, di sorvegliare il territorio intorno alla loro residenza estiva, sia prima dei suoi viaggi sulle montagne, sia durante la sua assenza. La miniera, gli aveva detto, era un segreto che apparteneva a lui solo, e per motivi che in futuro gli avrebbe spiegato, era meglio che seguitasse a essere così. Quell’estate, e ancora per i due anni seguenti, il padre aveva continuato a fare da solo i suoi viaggi nella miniera; adesso, a quanto pareva, ci sarebbe stato un cambiamento. Per quel che ne sapeva Roger, Donald era venuto a conoscenza del mistero l’autunno precedente, prima di partire per l’università; il suo piano di studi era stato fissato, almeno in parte, sulla base delle istruzioni che il padre gli aveva dato: studiare chimica, astronomia e matematica. La prima di queste materie sembrava una scelta abbastanza logica, ma Roger non riusciva a capire il perché delle altre due. Soprattutto dell’astronomia, che evidentemente ha ben poco a che fare con l’arte mineraria in genere. Comunque, l’avrebbe saputo a tempo debito; forse prima di raggiungere l’età alla quale l’aveva saputo Donald, poiché il padre sembrava intenzionato ad allentare un poco le redini. Per il momento, però, il suo problema consisteva nel trovare qualche sistema che permettesse a un ragazzo come lui di tenere sotto controllo ogni persona che si avvicinasse a meno di un paio di chilometri dalla casa in tutte le direzioni… e a più di quella distanza in talune altre. Roger, naturalmente, conosceva molto bene la topografia della zona; ma cominciò a pensare a una serie di viaggi esplorativi per controllare meglio alcuni punti. Era un giovane che, se necessario, affrontava con molta serietà le cose. Ma, come tutti i ragazzi della sua età, tendeva ancor più a lasciarsi distrarre dagli interessi del momento; e si trovava a quel punto delle sue fantasticherie quando Edith lo colpì sulla faccia con una pigna che si era gettata con noncuranza dietro le spalle. Lei si mise a ridere nel vedere che Roger si guardava attorno, alla ricerca di qualcosa con cui restituirle lo scherzo: ma non c’erano altre pigne a portata di mano, e il sentiero, in quel punto, era troppo stretto perché i cavalli potessero avanzare affiancati. Il cavallo da carico condotto per la briglia da Edith costituiva per il momento una barriera insuperabile. «Perché non ti decidi a svegliarti, per unirti anche tu alla compagnia?» gli disse infine Edith, tra una risata e l’altra. «Hai l’aria di chi si è appena ricordato di avere lasciato a casa la canna da pesca preferita!» Roger assunse un’aria di superiorità. «Naturalmente, voi ragazze non avete niente da fare fino a settembre» disse. «C’è però da sbrigare una certa quantità di lavoro da uomini, e stavo pensando a come farlo.» «Lavoro da uomini?» La ragazza sollevò le sopracciglia, fingendosi sorpresa. «So che il babbo avrà molto da fare, ma non vedo come la cosa ti riguardi.» Sapeva benissimo quali fossero le responsabilità estive di Roger, ma aveva i suoi motivi per parlare in quella maniera. «Ci vuole un uomo, per girare intorno alla casa un paio di volte al giorno per fare la sentinella?» Roger s’irrigidì. «Ci vuole qualcosa di più di una ragazzina, per farlo bene» ribatté. Non appena ebbe pronunciato queste parole, si penti di averlo fatto; ma non ebbe il tempo di uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciato con le sue stesse parole. «Dimostramelo!» lo rimbeccò infatti Edith, cogliendo al balzo l’occasione, e Roger provò il desiderio di prendersi a calci. La sorella lo aveva stuzzicato intenzionalmente, per giungere proprio a questo risultato. Le regole della famiglia dicevano che qualsiasi affermazione fatta da uno dei suoi membri doveva venire dimostrata con una prova pratica, se un altro membro della famiglia lo richiedeva: una legge istituita da Wing padre, con notevole preveggenza. Quanto a lui, era raro che si facesse cogliere in fallo, dato che era per natura un uomo che stava molto attento alle parole. «Adesso devi lasciarmi provare» disse Edith «e mi devi dare un mucchio di spiegazioni. Anzi, per essere davvero corretto, dovresti far fare la prova anche a Margie…» Queste parole erano una sorta di ripensamento, pronunciato ad alta voce soltanto per il suo potenziale terroristico. Roger per poco non cadde di sella, ma prima che riuscisse a elevare le sue proteste, gli venne un’idea. Dopotutto, perché non farsi aiutare dalle sorelle? Poteva mostrare loro ciò che lui e Donald avevano fatto in passato, e le ragazze potevano forse dare suggerimenti. Nonostante il suo orgoglio maschile, Roger sapeva bene che anche le ragazze in generale, e le sue sorelle in particolare, erano in grado di ragionare. Sia Edith che Margie sapevano andare a cavallo, nessuna di loro aveva paura del bosco, e tutto considerato potevano risultargli molto utili come assistenti. Edith aveva quasi la sua stessa età, e lui non poteva liberarsene con la scusa che fosse troppo giovane per quel lavoro, e anche l’altra, pur avendo soltanto otto anni, era abbastanza assennata da starsene tranquilla quando era necessario il silenzio e da obbedire agli ordini quando era pericoloso mettersi a discuterli. «D’accordo. Potete provare tutt’e due» disse Roger, rinunciando a ulteriori riflessioni. «A papà non importa, credo, e mamma non avrà niente da dire, se farete lo stesso il vostro lavoro. Ne parleremo questa sera.» La conversazione passò ad altri argomenti, e il gruppo continuò a risalire il fiume. Due o tre ore dopo avere lasciato Clark Fork, attraversarono il corso d’acqua e si diressero a est, verso il confine del Montana; rimanevano ancora parecchie ore di luce quando raggiunsero la loro capanna estiva. Ma non si trattava veramente di una capanna. Costruita sul fianco ripido di un monte, ma ancora entro il limite dei sempreverdi, aveva stanze a sufficienza per accogliere l’intera famiglia dei Wing senza timore di affollamento. C’erano un generatore elettrico a benzina, e anche una riserva d’acqua corrente, più o meno limitata, che giungeva con una tubazione da una fonte situata più in alto sulla montagna: nel complesso, la casa costituiva la prova dell’abilità, o della fortuna, del signor Wing nel trovare quei ricchi filoni minerari che, a quanto dicevano tutti, erano la fonte dei redditi della famiglia. Poco al di sotto della casa c’era un altro edificio che riuniva le funzioni di magazzino e di stalla. Entrambi gli edifici erano costruiti in modo robusto, e avevano sempre sopportato bene gli inverni del nordovest. Le fondamenta della casa poggiavano sulle solide rocce della montagna, e le sue pareti erano bene isolate rispetto all’esterno. La famiglia si sarebbe potuta fermare lassù per l’intero anno, e i genitori avevano una vaga intenzione di farlo, una volta che tutti i figli avessero terminato la scuola. Al piano terreno c’era una grande stanza che serviva da sala da pranzo e da salotto, con una camera da letto da una parte e la cucina dall’altra. Una scala, priva di porta, conduceva dall’ingresso della cucina fino alla cantina sottostante, in cui c’erano banconi di lavoro coperti di attrezzi da falegname e di pezzi di apparecchi radio, oltre a parti di vari giochi. All’altra estremità c’era la scala che portava al piano superiore, il quale era diviso in sei stanze molto più piccole, cinque delle quali erano le camere da letto dei ragazzi, e la sesta un ripostiglio pieno di tutte le cianfrusaglie che si accumulano in una casa nel corso degli anni: mobili vecchi, suppellettili inutilizzate. I Wing scesero di sella accanto al porticato che correva lungo la facciata della casa, e subito corsero a svolgere i loro compiti. La signora Wing e le ragazze aprirono la porta d’ingresso e scomparvero all’interno dell’edificio. Billy cominciò a sbullonare e a togliere gli scuri posti davanti alle finestre più accessibili: quelle lungo il porticato e quelle del piano terreno che si affacciavano sulla montagna. Donald e Wing padre iniziarono a scaricare gli animali da carico; Roger portò nella stalla gli altri animali, tolse le selle e diede loro dell’avena. Al tramonto del sole, la casa aveva assunto un’aria abitata. Tutti avevano mangiato, le ragazze avevano lavato i piatti, i due più piccoli, Billy e Marjorie, erano già andati a letto e gli altri membri della famiglia si concedevano qualche minuto di tranquillità in camera da pranzo. C’era stata qualche discussione sull’opportunità di accendere il fuoco, e poi coloro che volevano accendere avevano vinto per alzata di mano, non tanto perché sentissero freddo, benché sui Cabinets anche nel mese di giugno le notti potessero essere fredde, ma semplicemente perché a tutti piaceva starsene seduti accanto a un fuoco. I genitori si erano messi a sedere sulle loro panche, ai lati del focolare di pietra. Donald, Roger ed Edith erano seduti in terra, su dei tappeti; Roger aveva fatto, pochi istanti prima, la proposta di assegnare alle ragazze una parte del lavoro di sorveglianza. Suo padre rifletté per qualche attimo sulla proposta. «Conosci bene la zona» domandò infine, rivolto a Edith «non soltanto verso la città, ma anche nelle altre direzioni?» «I ragazzi la conoscono meglio di me, suppongo» rispose Edith. E aggiunse: «Ma anche loro hanno dovuto imparare, una volta o l’altra…» «Vero. Ma non voglio che tu ti perda, e tua madre, da sola, non può fare tutto il lavoro di casa. Comunque, visto che Roger si è lasciato incastrare per avere fatto un’affermazione azzardata, metteremo la cosa in questi termini. Passerà ancora una settimana, massimo dieci giorni, prima che io parta per la prima spedizione. Per quel momento, voi due, lavorando insieme, dovrete avere preparato una buona cartina del territorio compreso entro un raggio di cinque chilometri dalla casa, e dovrete mettervi d’accordo per fare dei turni che permettano a Edith di essere a disposizione di vostra madre per i lavori domestici nelle ore che vostra madre vi dirà. Margie verrà con voi, ma da sola non dovrà mai allontanarsi dalla capanna per più di un chilometro… le vecchie regole sono sempre valide per i più piccoli. Tutto questo dovrà però ancora essere approvato da vostra madre, che vi apporterà le modifiche che le sembreranno più opportune.» Con un mezzo sorriso sulle labbra, si voltò verso la moglie. Lei gli sorrise a sua volta e annuì. «Mi sembra una buona soluzione» disse. «Ma anche Roger ha delle sue incombenze, mi pare; sarà meglio includere anche quelle nell’elenco dei turni.» «Giusto. Sei d’accordo, Roger? Edith? Benissimo» concluse, nel vedere che i figli facevano un cenno d’assenso «è ora di andare a dormire. Mi pare che i prossimi giorni siano alquanto impegnativi per voi.» I ragazzi fecero una smorfia, ma obbedirono. Donald e i genitori rimasero soli accanto al fuoco. Parlarono a voce bassa, di argomenti seri, ancora per molto tempo. I quattro fratelli più giovani dormivano già da varie ore, quando Donald salì infine le scale per recarsi in camera sua; pur essendo sicuro di non svegliare nessuno, cercò ugualmente di muoversi nel massimo silenzio. Non voleva passare la notte a scansare le domande di Roger su cosa si erano detti durante la sua assenza. Anche se la giornata precedente era stata faticosa, la mattina seguente tutta la famiglia si alzò di buon mattino. Come «favore personale» nei riguardi del fratello minore, Donald si offerse di portare in città i cavalli in eccedenza: nella casa estiva ne tenevano il minimo indispensabile, perché era faticoso portare su il foraggio. Questo permise al ragazzo più giovane, dopo che ebbe staccato gli scuri anche dalle finestre del piano superiore, di dedicarsi alla preparazione della cartina topografica commissionatagli dal padre. Edith doveva però finire la pulizia delle stoviglie e delle posate, che rimanevano ancora in gran parte da lavare, poiché la sera precedente avevano sciacquato solo quelle necessarie per una rapida cena, ma Roger vinse la sua diffidenza nei riguardi dei lavori femminili e le diede una mano. Il sole non era ancora alto quando uscirono sul porticato, si consultarono rapidamente tra loro e cominciarono a esaminare la zona adiacente alla casa. Il ragazzo portava con sé una bussola da giovane esploratore e un metro snodabile, da lui rintracciato tra le cianfrusaglie della cantina; la sorella aveva un notes con la copertina di carta, residuato scolastico che possedeva ancora qualche pagina utilizzabile. Tra gli insegnamenti del padre e quelli che gli erano stati impartiti nel primo anno passato tra i giovani esploratori, Roger era certo di poter disegnare una cartina della zona, senza necessità di altre attrezzature. Non aveva pensato al problema dell’altitudine e di come determinarla. La casa dei Wing era situata assai in alto, ma al di sopra di essa c’era ancora molta strada da fare, prima di arrivare alla cima: quando alla fine la raggiunsero, i due ragazzi sentirono il bisogno di riposare. E di sedersi a guardare il panorama sottostante, anche se entrambi l’avevano già visto molte volte. Le cime dei Cabinets si stendevano intorno a loro in tutte le direzioni, eccetto che a ovest. Il livello a cui si trovavano non era abbastanza alto per permettere loro di vedere molto lontano; ma a sudovest si scorgevano pezzi del Pend’Oreille e tra il sud e l’est compariva la sagoma facilmente riconoscibile del Picco Racchetta da Neve. Rigorosamente parlando, non c’era una linea di demarcazione netta tra la zona della foresta perenne e quella brulla; ma la maggior parte delle cime riusciva a cacciar fuori dal terreno, per qualche decina di metri almeno, uno spuntone di roccia. Le cime più basse erano coperte di foreste, composte soprattutto di abeti Douglas, gli alberi più diffusi nel nordovest, sulla costa del Pacifico. Dal punto prospettico in cui si trovavano i due giovani si scorgeva un paio di zone relativamente spoglie, probabilmente resto di incendi boschivi degli anni precedenti. Entro il raggio assegnato loro dal padre, c’erano diversi punti che potevano servire come riferimento, e dopo qualche tempo Roger prese la bussola e cominciò a misurare la direzione del maggior numero possibile di essi. Edith stava già eseguendo uno schizzo a mano libera della zona circostante, e Roger se ne servì per segnarvi le direzioni dei punti di riferimento. Le distanze potevano essere aggiunte in un secondo tempo; Roger non conosceva né la propria altitudine né quella dei punti da lui misurati, ma anche se le avesse conosciute non avrebbe saputo cosa farsene. Non conosceva la trigonometria e non aveva nessuno strumento per misurare gli angoli sul piano verticale. La cartina cominciò ad affollarsi di particolari ancor prima che lasciassero la cima della collina; e in breve i due giovani furono completamente presi dal loro lavoro. Quella sera, la signora Wing non si stupì affatto nel vederli arrivare a cena in ritardo. 3 La stazione sul Pianeta Uno era un’installazione decisamente primitiva, anche se certamente era stato necessario un grosso impegno lavorativo per renderla abitabile. Era collocata in fondo a una profonda valle, posta approssimativamente nel centro dell’emisfero meridionale del pianeta, dove la temperatura si aggirava normalmente intorno ai quattrocento gradi centigradi. Una temperatura ancora talmente bassa da liquefare i vapori di solfo che erano il principale componente dell’atmosfera adatta alla razza d’appartenenza di Ken; ma i cento gradi che ancora mancavano per raggiungere la temperatura del suo pianeta d’origine erano stati ottenuti scavando una serie di terrazze sulle pareti di roccia, tagliando secondo la giusta inclinazione i fianchi delle terrazze e coprendoli poi di lastre di ferro. La scura cupola metallica della stazione si trovava, a tutti gli effetti, nel fuoco di un gigantesco specchio concavo; e grazie alla dimensione angolare del sole e alla dimensione lineare della cupola, la librazione solare non spostava mai il fuoco in misura sensibile. La nave interstellare si posò su una distesa di roccia nuda e liscia, accanto alla cupola. Non c’erano attrezzature per lo sbarco dei passeggeri, e Ken dovette indossare la tuta spaziale per uscire. Varie altre sagome in tuta si radunarono nel portello stagno dietro di lui, e Ken pensò che quasi tutti, se non tutti, i membri dell’equipaggio «scendessero a terra» allo stesso tempo, anche se, naturalmente, forse non erano tutti membri dell’equipaggio; bastava un solo uomo per guidare una nave della classe della Karella. Si chiese se quell’abitudine non fosse pericolosa, su un pianeta sconosciuto; ma una breve occhiata, mentre percorreva il breve tragitto dalla nave alla cupola, non gli rivelò alcun armamento difensivo, come se coloro che risiedevano nella stazione non avessero alcun timore di essere attaccati. E se, come gli avevano detto, la base del Pianeta Uno era lì da vent’anni, quelle persone sapevano cosa facevano. All’interno, la cupola era abbastanza accogliente, anche se l’accompagnatore di Ken continuava a scusarsi per la mancanza di attrezzature. Consumarono un pasto che non aveva bisogno di scuse, e Ken venne condotto nelle sue stanze personali, belle e confortevoli quanto quelle di un buon albergo sarriano. Laj Drai gli fece fare un breve giro della stazione, mostrandogli gli strumenti che avrebbe usato per il lavoro che gli era stato assegnato. Ken, che non si lasciava scappare di mente il suo «vero» lavoro, continuò a guardarsi attorno, alla ricerca di possibili tracce che indicassero la presenza del narcotico da lui cercato. Dopo il breve giro turistico della base, fu ragionevolmente certo che non ci fosse nessun complicato impianto chimico di raffinazione nelle vicinanze della cupola; ma pensò che se la droga era un prodotto naturale, forse non c’era bisogno di impianti come quello. Lui stesso conosceva varie sostanze che erano efficacissime già nella forma in cui si trovavano in natura: ad esempio un prodotto vegetale che veniva ancora usato da certe tribù primitive del suo pianeta natale per avvelenare le frecce. Le attrezzature per il «commercio», invece, parevano più promettenti: cosa del resto prevedibile, se si pensava alle condizioni fisiche del pianeta con cui si effettuava lo scambio. C’erano molte sonde telecomandate, ciascuna divisa in due sezioni principali: la prima, contenente l’apparato motore e quello di pilotaggio, era dotata di apparecchiature stabilizzatrici che mantenevano pressoché normale la temperatura; l’altra era prevalentemente costituita di un vano vuoto, per il magazzinaggio, e di dispositivi di refrigerazione. Nessuna delle parti pareva isolata in modo particolarmente efficiente, né rispetto all’altra parte né rispetto all’ambiente circostante. Ken esaminò con attenzione, per qualche tempo, una delle sonde, e poi cominciò a fare delle domande. «Non vedo il trasmettitore video» disse. «Come vi orientate visivamente, per dirigere queste sonde sul pianeta?» «Il trasmettitore non c’è» gli rispose il tecnico che aveva aiutato Drai a illustrargli i vari meccanismi. «All’inizio, naturalmente, tutte le sonde avevano l’impianto video, ma nessun teletrasmettitore è mai riuscito a sopravvivere al viaggio sul Pianeta Tre. Alla fine ci siamo decisi a toglierli… perché il tentativo cominciava a diventare troppo costoso. L’apparato ottico deve venire esposto alle condizioni del pianeta, almeno parzialmente, e questo ci obbliga a scegliere tra due alternative: o mantenere tutto l’apparato a quella temperatura, o sopportare un terribile sbalzo di temperatura tra la parte ottica e quella elettronica. Non siamo stati ancora capaci di trovare un sistema che resista a una delle due condizioni: a una temperatura così bassa, nei circuiti elettrici c’è sempre qualcosa che si mette a funzionare in modo assolutamente imprevedibile, oppure è la parte ottica a polverizzarsi per via degli sbalzi di temperatura.» «Ma come effettuate le osservazioni visive che vi permettono di pilotare le sonde?» domandò Ken. «Non le effettuiamo» rispose il tecnico. «Abbiamo montato sulle sonde un altimetro a riflessione, e sul pianeta c’è un radiofaro, che abbiamo installato molto tempo fa. Ci limitiamo a far scendere la sonda e a farla atterrare, e a lasciare che gli indigeni si avvicinino a essa.» «E non possedete dei campioni prelevati dalla superficie del pianeta?» «Non possiamo vedere il materiale che dobbiamo prelevare. La sonda, a quella temperatura, perde la tenuta ermetica, e non ci è possibile immagazzinare una sufficiente quantità dei gas atmosferici del pianeta; inoltre, non troviamo mai niente che aderisca a qualche pezzo esterno della sonda. Può darsi che atterri su una superficie metallica compatta o su una superficie rocciosa. Non sappiamo.» «Ma certo potreste riuscire a trattenere all’interno della sonda i gas del pianeta, anche se sono al di sotto del punto di congelamento del solfo?» «Sì, credo di sì. Non abbiamo mai pensato che ne valesse la pena. Se desiderate raccoglierne un campione, sarebbe più semplice inviare sul pianeta un piccolo contenitore: sarebbe il metodo più conveniente, se contate poi di analizzare i gas in un secondo tempo.» All’improvviso, Ken fu colto da un’idea. «E la merce che ricevete dagli indigeni? Non ci fornisce nessuna indicazione sulle condizioni del pianeta? Potrei lavorare con un po di quella.» A questo punto intervenne Laj Drai. «Avete detto voi stesso di non essere uno specialista. In passato abbiamo cercato di far analizzare quella merce da persone che invece lo erano, ma senza risultato. Del resto, se fosse possibile produrla mediante una sintesi chimica, pensate che ci sobbarcheremmo tutta questa fatica per procurarcela attraverso degli scambi con gli indigeni? È proprio per questo che vi chiediamo di determinare le condizioni fisiche del pianeta: una volta che lo avrete fatto, troveremo il modo di farci dare i semi dagli indigeni e di coltivarli autonomamente.» «Capisco» disse Ken. Erano asserzioni abbastanza ragionevoli, e non si faceva alcun accenno alla natura del materiale in oggetto. Però, se era solo per questo, non si escludeva alcuna ipotesi sul genere di appartenenza di quella «merce». Ken rifletté per qualche istante sull’argomento della droga, facendo correre lo sguardo sulle apparecchiature contenute nel laboratorio. Desiderava fare altre domande, ma voleva evitare quelle che avrebbero potuto dare l’impressione di una malsana curiosità da parte sua: a maggior ragione se le persone con cui si trovava erano davvero dei trafficanti di droga. «Che cosa date agli indigeni, in cambio del loro prodotto?» chiese infine. «Qualche manufatto che non sono in grado di fabbricarsi da soli, o qualche sostanza che non possiedono? Se è una sostanza che non esiste laggiù, l’informazione mi può essere utile per capire le condizioni fisiche del pianeta.» Drai agitò i tentacoli come se fossero percorsi da un’onda: un gesto che equivaleva a un’alzata di spalle da parte di un essere umano. «Minerali» spiegò. «Metalli pesanti che non formano facilmente dei composti con il solfo. Di solito gli diamo delle pepite contenenti metalli del gruppo del platino: sono quelle che troviamo più facilmente su questo pianeta; ce n’è un affioramento poco lontano dalla cupola, e si fa presto a mandare qualcuno a staccarne un pezzo. Non so cosa se ne facciano, poi, gli indigeni… per quello che mi riguarda, potrebbero benissimo adorare la nostra sonda e usare le pepite come decorazione per i sacerdoti. E confesso che non me ne importa niente, a patto che rispettino i patti dello scambio.» Ken fece un gesto per indicare che era d’accordo, e accennò a un particolare che aveva stuzzicato la sua curiosità negli ultimi istanti, mentre Drai parlava. «Per la Galassia! Che cosa ci fanno, dentro quella sonda, un altoparlante e un microfono? Non credo che funzionino alla temperatura che mi avete descritto, e non credo neppure che siate in grado di parlare con quegli indigeni!» Il tecnico rispose alla prima domanda. «No, no, funzionano benissimo. È un’apparecchiatura con componenti a stato solido, senza tubi a vuoto, ed è in grado di funzionare perfino alla temperatura dell’idrogeno liquido.» All’altra domanda rispose Drai. «Non si tratta di una comunicazione vera e propria, non parliamo realmente con loro, ma, a quanto ci risulta, quelle creature sono in grado di udire e di produrre suoni più o meno simili a quelli che usiamo nel nostro linguaggio.» «Ma come avete trovato un modo di comunicare con loro, per rudimentale che possa essere, senza vedere gli indigeni? Forse, a meno che la cosa non mi riguardi e che in qualsiasi caso non mi possa essere d’aiuto, potreste raccontarmi la storia dall’inizio.» «Probabilmente avete ragione» disse lentamente Laj Drai, avvinghiando attorno a una comoda spalliera il suo corpo flessibile. «Ho già accennato al fatto che siamo entrati in contatto con gli indigeni una ventina d’anni fa: una ventina dei nostri anni, ovviamente, perché per gli indigeni del Pianeta Tre si tratterebbe di circa trent’anni. «La Karella era semplicemente in crociera, senza particolari progetti in vista, quando il suo precedente proprietario notò il colore del Pianeta Tre, che era assai singolare. Credo che voi stesso abbiate potuto notare la sua tinta azzurrina. Collocò la nave su un’orbita fissa, a una certa distanza dall’atmosfera, e inviò sulla superficie del pianeta le prime sonde. Ovviamente, non si sognava neppure di scendervi di persona: nessuno ha mai avuto dubbi sulle spaventose condizioni di temperatura che regnano laggiù. «Comunque, perse cinque sonde, una dopo l’altra. In tutte, per prima cosa si guastarono i collegamenti video, dato che nessuno aveva pensato ai possibili effetti di quella temperatura sul vetro. E dato che era un tipo ostinato, continuò a spedirne delle altre, con un telecomando a onde lunghe, e prima o poi si guastarono tutte; non riuscì mai a determinare se fossero riuscite a toccare la superficie. Aveva dei buoni ingegneri, però, e le sonde non gli mancavano, cosicché continuò a modificare le sonde e a inviarle sul pianeta, e alla fine gli divenne chiara una cosa: gran parte delle sonde riusciva a toccare la superficie del pianeta… ma solo per cessare di funzionare nell’istante stesso in cui la toccava. Laggiù c’era qualcosa che le distruggeva meccanicamente, o che faceva impazzire i loro componenti elettrici. «Fino a quel momento, i tentativi miravano a effettuare un atterraggio su una delle zone azzurre, relativamente più pianeggianti, perché toccar terra laggiù sembrava più semplice. Ma poi qualcuno cominciò a dirsi che la regolare perdita di tutte quelle sonde non potesse essere dovuta al caso; in qualche modo incomprensibile, doveva essere opera di qualche creatura intelligente. Per controllare questa ipotesi, fu inviata una sonda equipaggiata di ogni sorta di dispositivi di rilevamento e di ogni sistema di protezione che riuscimmo a infilarci dentro, compresa una rete di filo d’argento che copriva l’intera superficie, collegata ai generatori e capace di bloccare qualsiasi frequenza che fosse stata eventualmente usata per interferire con i comandi a distanza. Ci misero proprio tutto, vi dico. Niente di naturale, e ben poco di artificiale sarebbe stato in grado di guastare quella macchina; ma la sonda seguì la sorte di tutte le altre, non appena l’altimetro a riflessione riferì che aveva toccato la superficie. «A quel punto il padrone dell’astronave si dichiarò vinto. Accettò come ipotesi di lavoro che nelle zone pianeggianti del pianeta abitasse una razza intelligente: una razza che non desiderava ricevere visite. «La sonda successiva venne inviata su una delle zone più scure e più accidentate che si scorgevano esaminando il pianeta dallo spazio. Il motivo per inviarla laggiù era questo: si pensava che le creature che vivevano nelle zone pianeggianti evitassero le aree accidentate. E parve che il ragionamento fosse giusto, perché si riuscì a effettuare un atterraggio con la sonda. Sia come sia, gli strumenti dicevano che la sonda era appoggiata su una superficie, risultava impossibile farla scendere ulteriormente e rimaneva ferma al suo posto anche quando veniva spento il motore. «La novità era incoraggiante, ma nessuno, a questo punto, sapeva cosa fare. Continuavamo a non poter vedere l’ambiente circostante, e per qualche tempo non fummo neppure sicuri che il microfono funzionasse. Decidemmo di non usare l’altoparlante, almeno per quei primi tempi. Il microfono captava un debole fischio, il cui volume variava senza alcuna sistematicità; alla fine giungemmo alla conclusione che si trattasse del vento, e non di un disturbo elettromagnetico. Inoltre, udimmo un paio di volte dei suoni rochi, secchi, assolutamente indescrivibili, che non riuscimmo mai a identificare, né allora, né poi: l’ipotesi che gode di maggiore credito è che siano i versi di qualche creatura vivente. «Continuammo ad ascoltare quei suoni per quasi un’intera rotazione del pianeta, circa due dei nostri giorni, e non udimmo altro che un debole ronzio, suoni di sfregamento altrettanto deboli, e un tambureggiamento irregolare che forse poteva essere dato dai passi di una creatura dotata di zoccoli, i cui piedi battevano su una superficie dura. Se volete, potete ascoltare le registrazioni che abbiamo eseguito, ma vi consiglio di non essere solo, quando lo farete. Quei suoni che giungono dal nulla hanno in sé qualcosa di inquietante e di sovrannaturale. «Dimenticavo di dire che il portello di carico della sonda si era aperto al momento dell’atterraggio, e che il vano conteneva microfoni e bilance sensibili, capaci di avvertirci nel caso che qualche creatura si spingesse; all’interno. Ma purtroppo non entrò niente: una piccola delusione, perché se laggiù c’era qualche piccola forma di vita selvatica, l’apertura le sarebbe parsa un rifugio naturale. «Nel corso di quella prima rotazione, non udimmo niente che facesse pensare sia pure remotamente a una creatura dotata d’intelligenza, e alla fine decidemmo di mettere in azione l’altoparlante. Qualcuno studiò dei turni: si incominciava a basso volume, ripetendo un nastro continuo per un’intera rotazione del pianeta, poi lo si ripeteva per un’altra rotazione a un volume doppio, e così via, fino a raggiungere la potenza massima dell’impianto installato a bordo della sonda. Si seguì il programma a parte il fatto che il proprietario, ansioso di giungere a un risultato, ordinò di alzare il volume ogni quarto di rotazione, invece che alle scadenze previste. Uno spiritosone registrò sul nastro una poesia, e cominciammo a trasmettere. «Come primo effetto delle nostre trasmissioni, ci fu la completa cessazione di tutti i suoni che avevamo provvisoriamente attribuito alle forme viventi. A quanto pareva, erano davvero dei piccoli animali, e nell’udire l’altoparlante erano scappati via per lo spavento. Il vento, se era veramente il vento come pensavamo, continuò senza sosta. Quando aumentammo il volume per la prima volta, udimmo una debole eco. Questo indicava che il suono dell’altoparlante, se non altro, non veniva attutito nelle vicinanze della sonda, e che se qualche essere intelligente fosse giunto a una ragionevole distanza, lo avrebbe potuto udire. «Per farla breve, ottenemmo una risposta dopo il quarto aumento di volume. All’inizio pensammo che fosse un’eco distorta, ma divenne più forte anche quando non aumentammo più il volume, e alla fine notammo che anche i suoni erano diversi. Costituivano una serie di rumori molto complessa, e tutti noi che li ascoltammo fummo certi fin dall’inizio che fosse la voce di un essere intelligente. «Alla fine cominciammo a udire anche un rumore di passi tra una serie e l’altra di parole di quel linguaggio alieno, cosicché pensammo bene di cessare le nostre trasmissioni. Era evidente che la creatura era ormai in grado di scoprire la presenza della sonda con altri mezzi, diversi dall’udito, perché i passi continuarono ad avvicinarsi anche dopo la cessazione delle trasmissioni. Dapprima i passi venivano interrotti ogni pochi secondi da un forte richiamo; ma alla fine la creatura raggiunse la sonda, poiché il rumore indicava che camminava attorno a essa a una distanza quasi costante. Invece dei richiami cominciò a pronunciare delle serie di parole a voce meno alta, ma più lunghe e complesse. Probabilmente quelle creature hanno una vista simile alla nostra, anche se su quel pianeta la luce è molto più debole di quella a cui noi siamo abituati. «Dopo qualche tempo, la fotocellula posta all’interno del vano di carico indicò la presenza di un corpo che copriva gran parte della luce. Uno dei meccanici fece per chiudere il portello, ma il capo gli saltò addosso e lo cacciò fuori dalla cabina di pilotaggio. Si mise lui stesso ai comandi della sonda e cercò di imitare i suoni vocali fatti dalla creatura che non conoscevamo. E ottenne subito un risultato, non c’è che dire! A giudicare dal rumore da lui fatto, l’indigeno fu al colmo dell’eccitazione per un minuto o due; poi cominciò a emettere tutta la gamma di suoni che gli era permessa dal suo apparato vocale. Una cosa è certa: che noi non saremmo capaci di imitarli tutti. «Questo durò per qualche tempo, e non uno di noi fece dei progressi. Naturalmente, nessuno era in grado di capire che cosa significassero i suoni fatti dall’altro. Cominciavamo a pensare che non saremmo riusciti ad avere altre informazioni sul pianeta, e che le notizie che eravamo venuti a sapere fossero prive di qualsiasi valore. «Poi qualcuno si ricordò delle vecchie scatole da scambio. Non so se ne siate al corrente; mi pare che venissero usate prima che la nostra razza lasciasse il pianeta natale, allorché due persone che non erano in grado di parlare lo stesso linguaggio desideravano commerciare. Si tratta semplicemente di due piatti, collegati insieme, ciascuno dei quali è suddiviso in una serie di piccoli compartimenti. Uno dei piatti è vuoto, mentre i compartimenti dell’altro contengono i vari articoli posti in vendita. Ciascun compartimento pieno è chiuso da un coperchio trasparente, che però non si lascia sollevare finché non è stato messo qualcosa nel compartimento corrispondente dell’altro piatto. Bisogna che il selvaggio sia particolarmente stupido, per non capire immediatamente il meccanismo di un baratto come questo. «Noi, naturalmente, non avevamo un dispositivo del genere, ma fu abbastanza semplice costruirne uno. L’unica difficoltà stava nel fatto che fino al ritorno della sonda non avremmo saputo che cosa era stato messo nel vassoio vuoto. Ma poiché ci interessava più la comunicazione che il baratto, al momento questo aspetto non aveva importanza. Inviammo sul pianeta la scatola da scambio servendoci di un’altra sonda: la orientammo sul segnale emesso dalla prima e ci augurammo che gli abitanti delle pianure azzurre non la scoprissero. Poi aprimmo il portello di carico della seconda sonda e aspettammo di vedere cosa sarebbe successo. «L’indigeno si affrettò ad avvicinarsi; a quanto pareva, era abbastanza intelligente da mettere prima la curiosità e poi la paura, anche se certamente doveva avere visto la seconda sonda mentre era ancora in volo. Quanto alla scatola, l’indigeno si comportò esattamente come ci si poteva aspettare, anche se naturalmente non potemmo osservare le sue mosse: infilò qualcosa in ciascun compartimento del piatto vuoto, e presumibilmente ritirò tutto quanto era contenuto nell’altro; ma poi rimise a posto quasi tutto ciò che aveva preso. Una delle cose che ci diede in quell’occasione risultò utilizzabile: la merce che continuiamo a scambiare tuttora. Perciò, quando gli rimandammo indietro la scatola, riempimmo solo il compartimento corrispondente a quello in cui lui aveva messo la merce che ci interessava. L’indigeno afferrò l’idea, e da allora siamo sempre stati in ottimi rapporti.» «E del suo linguaggio, che cosa potete dirmi?» «Be, sappiamo come dice «sì» e «no», il nome con cui indica alcuni metalli e quello della merce che ci vende. Nient’altro. Posso darvi un nastro con la sua pronuncia, oppure anche una registrazione scritta, se volete parlare con lui.» «Grazie. L’intera situazione è molto più chiara. Mi pare di capire che non avete avuto più fastidi da parte degli abitanti delle pianure azzurre?» «Più nessun fastidio. Abbiamo attentamente evitato di stabilire contatti in altre parti del pianeta. Come ho detto, adesso abbiamo interessi commerciali anziché scientifici. Però, se volete inviare delle sonde per fare delle vostre ricerche, penso che non avremo niente in contrario. Comunque, cercate di fare attenzione; non vorremmo che i contatti s’interrompessero prima che possiamo dare inizio alla coltivazione.» Ken gli rivolse l’equivalente di un sorriso. «Vedo che evitate accuratamente di dirmi di che merce si tratta. Be, non starò a fare pressioni. La cosa non mi riguarda, e non vedo che utilità possa avere per il mio lavoro. Per il momento, mi pare che la cosa migliore sia quella di darmi tutti i dati sul pianeta di cui disponete. A questo punto potrò fare delle ipotesi sulla costituzione della sua atmosfera, e inviare una sonda per avere la conferma delle mie ipotesi. Immagino che sarà più facile che cercare di prelevare campioni da analizzare.» Drai si staccò dalla spalliera su cui si era steso e gli rivolse l’equivalente di un cenno affermativo. «Non dico che non dobbiate sapere che cosa importiamo dal pianeta» disse. «Ma mi farò un’amaca con la pelle del primo appartenente a questa organizzazione che si lascerà scappare l’informazione!» Il tecnico, che aveva continuato ad ascoltare ma si era tenuto un po in disparte, fissò ostentatamente il motore di una delle sonde, e, per la prima volta, parlò a Ken senza guardarlo in faccia. «Non sarà difficile» disse. «Non c’è molto da dire. Il pianeta ha un diametro di circa tre decimi superiore al nostro, e quindi il suo volume è circa il doppio di quello di Sarr. Anche la sua massa è circa il doppio della nostra, ma la sua densità è leggermente inferiore. Alla superficie, la gravità è del venticinque per cento superiore a quella normale di Sarr. La temperatura media è poco al di sotto del punto di solidificazione del potassio. Pressione atmosferica ignota, composizione atmosferica non determinata. Periodo di rotazione, uno virgola ottantaquattro giorni di Sarr.» «Capisco» disse Ken. «Su questo pianeta potreste riprodurre senza difficoltà la temperatura del Pianeta Tre, scegliendo un punto abbastanza lontano da qui, in direzione della zona oscura; e, se fosse necessario, non sarebbe difficile riprodurre anche la periodicità del giorno e della notte del Pianeta Tre. Il vostro problema è l’atmosfera. Perciò, cercherò per prima cosa il modo di riprodurre anche quella.» Così dicendo, Sallman Ken si allontanò lentamente in direzione dell’alloggio che gli era stato assegnato. Non era preoccupato soltanto dal problema di analizzare l’atmosfera; pensava piuttosto alla razza misteriosa che abitava nelle nude e spoglie pianure azzurre del Pianeta Tre e alla possibilità di interrompere una volta per tutte il commercio con il pianeta: naturalmente, nell’ipotesi che il prodotto misterioso fosse quello che lui temeva. E inoltre si domandava se per caso non avesse esagerato, nel proclamare il suo disinteresse nei riguardi del principale prodotto esportato dal pianeta. 4 Un cerchio di cinque chilometri di raggio ha un’area di circa ottanta chilometri quadri. Di conseguenza, la cartina preparata da Roger ed Edith Wing non era molto dettagliata. D’altra parte, come fu costretto ad ammettere il loro padre, il fianco di una montagna ricoperto di alberi non presenta molti dettagli che possano finire su una cartina, e il disegno portato dai ragazzi conteneva tutti i sentieri e i corsi d’acqua a lui noti. Inoltre, e questa era la cosa più importante, mostrava chiaramente che i due ragazzi avevano effettivamente esplorato l’area in questione. Era appunto il tipo di esperienza che mancava alla ragazza, e che lui voleva farle fare, prima di permetterle di lasciare i sentieri battuti. Infine sollevò lo sguardo dal vecchio quaderno. La famiglia era radunata accanto al fuoco e i due cartografi stavano a lato del padre. Don sedeva a terra tra le sedie, con Billy in braccio; Marjorie sedeva sulle ginocchia della madre. Tutti erano in attesa del verdetto. «Mi sembra che abbiate fatto un buon lavoro» disse alla fine Wing padre. «Con l’aiuto di una cartina come questa, chiunque sarebbe capace di orientarsi nella zona. Edie, come pensavi di poterne fare senza?» «Certo, hai ragione, papà» rispose la ragazza, in tono leggermente sorpreso. E aggiunse: «Perché, non devo usarla?» Il padre alzò le spalle. «Decidi tu, se vuoi portarti dietro il quaderno per tutto il giorno. Per quanto mi riguarda, puoi benissimo lasciarlo a casa. E per i turni di guardia, come vi siete regolati, voi due?» Rispose Roger, che si accostò al padre e, chinandosi sulla cartina, gli illustrò quanto andava dicendo. «Ci sono otto sentieri che entrano in diversi punti della zona da noi considerata. Io e Don avevamo questa abitudine: facevamo ogni giorno il giro dell’intero perimetro, percorrendo un piccolo tratto di ogni sentiero; quel tanto che bastava per assicurarci che nessuno fosse passato. In certi punti è praticamente impossibile transitare senza lasciare qualche traccia. Per andare da un sentiero all’altro usavamo scorciatoie dello stesso tipo: anche su quelle si poteva sempre capire se c’era passato qualcuno. «Questa volta ci regoliamo in maniera un po differente. Io mi occupo sempre del controllo dei sentieri, ma abbiamo cercato i punti su cui può salire una persona che desidera spiare le mosse di coloro che si allontanano dalla casa. Fortunatamente, di questi punti non ce ne sono molti: meno dei sentieri. Edie può controllarli quasi tutti in due ore e mezza di cammino, e abbiamo stabilito che farà due giri al giorno, mattina e pomeriggio. Abbiamo già fatto delle prove. Quanto a me, posso controllare gli altri durante i miei giri di sorveglianza dei sentieri. È un sistema non molto diverso da quello che hai sempre adottato tu nel lasciare la casa: facevi un tragitto a zigzag, e ci incaricavi di controllare l’eventuale presenza di qualche osservatore, in modo che uno di noi facesse sempre in tempo ad avvertirti se vedevamo qualcuno. Non abbiamo mai visto nessuno, a quanto mi ricordo, ma credo che la cosa non significhi niente.» Wing padre sorrise. «Può darsi che tutte queste precauzioni siano esagerate» disse. «Ma ho le mie buone ragioni per desiderare che il posto dove prendo il metallo rimanga sconosciuto. Una mezza dozzina delle ragioni è qui con me in questa stanza. Inoltre, credo che il lavoro di sorveglianza possa essere anche un divertimento, e vi tiene fuori di casa in un periodo dell’anno in cui vi fa bene stare all’aperto. Se due o tre di voi si dedicheranno in futuro a studi scientifici, potremo forse fare insieme del lavoro che ci porterà a superare tutti questi segreti.» La ragazza più piccola, che per tutto il discorso del fratello aveva continuato a dare segni crescenti d’irritazione, interruppe il padre quando le parve che avesse finito. «Papà, credevo di dovere aiutare anch’io a controllare il bosco. L’ho sentito dire da Roger, ieri, e l’hai detto anche tu la prima sera.» «Davvero? E come hai fatto ad ascoltarci, quella sera? A quanto ricordo, della cosa si è parlato soltanto quando tu eri già a letto. Quello che ho detto resta valido: tu puoi accompagnare Roger ed Edie nei loro giri di ispezione, ma quando sei sola non devi allontanarti dalla casa. E questo vale anche per te, Billie! Potrete girare quanto volete per i boschi, senza bisogno di staccarvi dagli altri, e nei pressi della casa c’è un mucchio di cose che vi può tenere occupati. Da cinque o sei anni mi riprometto di portare quassù un carico di cemento, a condizione che voi ragazzi raduniate le pietre occorrenti per fare una diga. Anche a me piacerebbe avere una piscina dove nuotare. Secondo Don, non c’è bisogno del cemento, ma sarà lui a dovercelo dimostrare. Naturalmente, se riuscirà a dimostrarcelo, il primo a rallegrarsene sarò io stesso.» Si appoggiò allo schienale e allungò le gambe davanti a sé. Billy si trasferì immediatamente dalle spalle del fratello alle caviglie del padre, e aggiunse la propria voce alla conversazione. Voleva prendere parte a uno dei viaggi d’esplorazione prima che il padre andasse a raccogliere minerali, e continuò a ripeterlo con fervore. Wing padre evitò accuratamente di pronunciarsi finché non venne salvato dal rintocco dell’orologio. A questo punto sollevò bruscamente le gambe, depositando il ragazzino sul pavimento. «A letto i piccoli!» proclamò con solennità. «Una storia!» esclamò Margie. «Da quando siamo arrivati, non ci hai letto nessuna storia!» Il padre aggrottò la fronte. «Quanto occorrerà, perché siano pronti per andare a letto?» domandò, parlando tra sé. Fruscio di piedi di bambini che si affrettavano ad andare a cambiarsi. Wing padre si voltò verso lo scaffale dei libri, posto accanto al focolare, e così facendo incontrò con lo sguardo la faccia sorridente del secondo figlio. «D’accordo, giovanotto, alcuni di noi hanno bisogno di divertimento… ma altri hanno anche bisogno di un po di disciplina. Mi pare che tu ed Edie possiate guadagnare qualche minuto correndo nella vostra stanza a imitare il buon esempio dei vostri fratellini!» Ridendo, i due gli obbedirono. Senza nessun motivo preciso, la storia proseguì fino a tarda ora. All’inizio era molto interessante, ma poi il ritmo della narrazione cominciò a rallentare, e alla fine Billy e Margie furono portati a letto di peso… anche se l’indomani mattina si rifiutarono di ammetterlo. A colazione, Roger cercò di farsi dire dal fratellino la conclusione della storia, e rimase sorpreso nel vedere che Billy non voleva ammettere che il fatto di non saperla ripetere dimostrava che s’era addormentato prima che terminasse. Alla fine, il fratello maggiore desistette e andò a sellare i cavalli; non era costituzionalmente adatto a sostenere le proprie tesi in una discussione in cui le uniche parole dell’oppositore erano: «Non dormivo!». Era giorno d’acquisti, e toccava a Roger scendere a Clark Fork con la madre per fare la spesa per la settimana seguente. Partirono subito dopo colazione, non appena gli animali furono pronti. Edie e i bambini piccoli si allontanarono per svolgere gli incarichi loro assegnati; quando tutti furono usciti, Wing padre è Don indossarono vestiti adatti a un’escursione sui monti e si diressero a est. Roger avrebbe dato qualsiasi cosa per seguirli. Il sentiero era buono, e per le prime due ore padre e figlio fecero molta strada. Per la maggior parte del tragitto seguirono il corso dei torrenti, ma un paio di volte il padre si diresse verso spuntoni di roccia nuda che richiesero lunghe scalate. «Questa» disse il padre, a un certo punto «è la strada più breve per raggiungere il trasmettitore, Don. È molto più vicino alla casa di quanto si pensi. Neppure vostra madre sa che si trova così vicino; eppure, Dio sa che non le nasconderei l’informazione, se venisse una volta con me in una di queste spedizioni. Nei miei viaggi regolari, io seguo un percorso assai tortuoso che ho trovato molti anni fa, quando avevo davvero paura di essere seguito. Si era alla fine della prima guerra mondiale, ben prima che conoscessi vostra madre. A quell’epoca, in questa parte del paese, c’era un mucchio di persone disposte a gettarmi in un burrone senza pensarci due volte, per una piccola percentuale del valore che ho riportato indietro dal mio primo viaggio. Ti assicuro, al mio ritorno da quel primo viaggio, ho riflettuto lungamente su tutta la situazione. E tra poco ne vedrai anche tu il motivo.» Don attese qualche istante prima di rispondere. Pareva che dedicasse tutta la sua attenzione ad attraversare il pendio coperto di ciottoli su cui passavano in quel momento. Era una zona impossibile ad attraversarsi senza lasciare tracce, e all’inizio non aveva capito bene perché suo padre l’avesse scelta, finché non aveva pensato che probabilmente l’aveva fatto apposta per poter controllare, sulla strada del ritorno, se era stato seguito da qualcuno. Terminato il passaggio pericoloso, quando discesero nuovamente ai piedi del pendio, rispose al padre finalmente: «Hai detto prima, papà, che noi siamo il motivo che ti ha spinto a tenere nascosta la fonte di questi metalli. Però, mi sembra che anche queste considerazioni sarebbero dovute passare in secondo piano allo scoppio della guerra. Sarebbe stato meglio affidare la vena mineraria al governo perché la utilizzasse per le sue necessità belliche. Con questo, non voglio dire che non sia lieto di frequentare l’università, ma… ecco…» s’interruppe, leggermente a disagio. «Hai ragione, Don, e anche su questo ho riflettuto a lungo, allo scoppio della guerra, quando tu eri alle medie e Billy muoveva i primi passi. Forse avrei potuto fare come dici tu, a parte il fatto che l’unico risultato della pubblicità, probabilmente, sarebbe stato quello di fare sparire la fonte del metallo. Abbi pazienza… Tra pochi minuti arriveremo sul posto, e potrai vedere personalmente.» Donald gli rivolse un cenno d’assenso con la testa, e per qualche tempo proseguirono in silenzio. Una volta terminata la zona coperta dalla ghiaia dello smottamento, la strada seguita da Wing padre li aveva condotti in una stretta gola: adesso la risalirono, procedendo rapidamente lungo la riva del ruscello che scorreva sul fondo. Dopo dieci minuti di salita, gli alberi cominciarono a farsi sempre più radi, e presto i due escursionisti si trovarono su quella che praticamente era roccia nuda. La roccia s’innalzava ancora per qualche decina di metri sopra di loro, ma Wing padre non sembrava avere alcun desiderio di salire fino alla cima del monte. Invece di salire, tornò a scendere, e attraversò rapidamente la roccia nuda come se avesse davanti agli occhi un sentiero chiaramente segnato; in breve, padre e figlio giunsero ai bordi di una depressione che pareva avere fatto da bacino di raccolta per le pietre rotolate dai punti più alti della montagna. Facendosi strada in mezzo a esse, con Donald che lo seguiva a pochi passi di distanza, Wing padre alla fine si fermò e si fece da una parte, per permettere al figlio di vedere cosa si stendeva davanti a loro. Era una struttura di metallo pressoché priva di rilievi, di forma quasi cubica e con circa un metro di lato. Su una delle facce c’era una piccola apertura, in cui si scorgeva un oggetto sporgente che sembrava un interruttore a levetta. Su varie parti della superficie si scorgevano inoltre delle viti dall’aspetto alquanto comune. Dopo avere permesso a Donald di osservare attentamente l’oggetto per alcuni istanti, Wing padre prese di tasca un piccolo cacciavite e cominciò a svitare le viti, che si lasciarono togliere senza difficoltà. Donald non aveva un cacciavite, ma poté toglierne alcune con le dita: in due o tre minuti il padre riuscì a staccare alcune piastre di copertura e a mostrare l’interno del blocco di metallo. Don si chinò a osservare, e fece un fischio. «Che cos’è, papà? Certamente non si tratta di una radio normale!» «No» rispose il padre «ma sembra effettivamente una radio di genere sconosciuto. Non so che tipo di onde usi, e neppure la sua portata, o la sua fonte di alimentazione… anche se ho qualche mia idea sulla portata e l’alimentazione. È facilissimo usarla, comunque. Penso che chi l’ha fabbricata l’abbia fatto apposta, perché c’è soltanto l’interruttore che vedi. Non so però se intendeva che l’interno fosse così facilmente accessibile.» «Ma da dove arriva?» domandò il figlio. «Chi l’ha fabbricata? Come hai fatto a trovarla?» «È una storia un po lunga, ed è successa, come ti ho già detto, prima che tu nascessi… Avevo appena finito l’università, dove mi ero interessato a lungo di questa parte del paese; decisi dunque di venire a vederla di persona, e finii per trovarmi qui sulle montagne. Partii da Helena, e mi recai a piedi fino a Flathead, lungo il Parco del Ghiacciaio, poi a ovest lungo il confine per raggiungere Kootenai, e alla fine tornai indietro seguendo il fiume, oltre il traghetto di Bonner, fino ai Cabinets. Non è una delle più belle escursioni che si possano fare, ma vidi un mucchio di bei posti e mi divertii a camminare. «Attraversavo il ruscello che abbiamo seguito pochi minuti fa, una mattina, poco dopo essere partito, quando sentii giungere dalla montagna un indescrivibile fracasso. Non conoscevo bene la zona, e confesso di essermi un po allarmato; ma avevo il fucile e mi dissi che in fin dei conti ero andato laggiù per soddisfare la mia curiosità. Mi diressi verso l’origine del rumore. «Quando uscii dagli alberi, mi accorsi che quel rumore assomigliava a una sorta di linguaggio; perciò gridai alcune parole a mia volta, anche se non avevo la minima idea di cosa mi stessero dicendo. A tutta prima non ci fu risposta; solo quella voce fortissima che gridava le sue parole incomprensibili e stranamente regolari. Alla fine, poco al di sopra della posizione in cui ci troviamo adesso, in una zona aperta, scorsi finalmente l’origine dei rumori; e quasi allo stesso tempo il rumore cessò. «E laggiù, in un punto aperto, dove risultava visibile da tutte le direzioni, c’era un oggetto che assomigliava a un siluro per sommergibili: a quell’epoca tutti li conoscevano, perché nella prima guerra mondiale avevano avuto un ruolo dominante. In quegli anni, la fantascienza non era ancora di moda, e Dio sa che le mie conoscenze di fisica erano quasi nulle, ma fin dall’inizio trovai difficile credere che qualcuno avesse portato laggiù quell’oggetto. Poi, quando lo esaminai con attenzione, capii che la mia teoria del siluro non era molto plausibile. «Per prima cosa, non aveva le eliche, e neppure gli alettoni direzionali. Quell’oggetto era largo un metro e lungo sei, che è una misura che, a quanto ne so io, può andare bene per un siluro, ma l’unica interruzione sulla superficie era un’apertura che si vedeva sul lato, proprio sotto quella che doveva essere la punta, e che era spalancata come se si fosse trattato di un portello per sganciare le bombe. Io provai a dare un’occhiata dentro, anche se non mi fidai di infilarci il braccio o la testa, e vidi che l’interno della parte anteriore era costituito da un unico vano, che era completamente vuoto e dal quale giungeva un forte odore di solfo. «Per poco non mi venne un colpo apoplettico quando l’oggetto si mise a parlarmi, questa volta con un volume di voce molto più basso: comunque, feci un bel salto, e poi mi misi a insultarlo in tutte le lingue che conoscevo, per lo spavento che mi aveva fatto prendere. Mi occorsero un minuto o due per riprendere il controllo di me stesso, e alla fine capii che i suoni emessi dall’oggetto erano un goffo tentativo di imitare le mie parole di prima. Per accertarmene, provai a pronunciare altre parole, una alla volta; quasi tutte vennero ripetute con buona approssimazione. La creatura che mi rispondeva non era capace di pronunciare la P e la B, ma per il resto se la cavava abbastanza bene. «Ovviamente, o c’era qualcuno chiuso in fondo al siluro, o il siluro conteneva una radio, e qualcuno se ne serviva per parlare a distanza. La prima ipotesi mi pareva poco probabile, dato lo spaventoso volume sonoro emesso da quell’oggetto; e non dovetti aspettare molto perché me ne giungesse un’ulteriore conferma. «Avevo già preso la decisione di accamparmi laggiù, anche se era ancora presto. Ed ero occupato a montare la tenda, pronunciando di tanto in tanto una parola all’indirizzo del siluro, che mi rispondeva con la sua voce rimbombante, allorché vidi comparire un altro di quegli oggetti, proprio sopra di me. Cominciò a parlare, più piano dell’altro, quando era ancora a una certa distanza sopra la mia testa. Evidentemente, le ignote creature che lo comandavano a distanza non volevano che mi spaventassi e che scappassi via. Il secondo siluro si posò accanto al primo, lasciando dietro di sé una sottile nuvola di fumo azzurro che a tutta prima mi parve lo scarico dei suoi razzi di propulsione. «Vidi poi che si trattava solo di una perdita di gas, che usciva dalle fessure di un portello simile a quello del primo siluro: quando il portello si aprì, ne uscì una nube molto più spessa. Il particolare mi rese molto cauto, e fu una fortuna che mi fossi tenuto lontano, perché il metallo era talmente caldo che si sentiva sulla pelle la sua radiazione a un metro di distanza. All’origine doveva essere ancora più caldo, ma non saprei quanto. La puzza di solfo rimase fortissima ancora per qualche tempo dopo l’atterraggio del secondo siluro, ma alla fine scomparve. «Dovetti aspettare qualche tempo perché l’oggetto si raffreddasse al punto di potermi avvicinare senza pericolo. E quando mi avvicinai, scoprii che questa volta il vano anteriore non era vuoto. C’era un contenitore che assomigliava a un cestino per pescatori, suddiviso in tanti compartimenti. Quelli posti da una parte erano tutti pieni di cianfrusaglie, e quelli dalla parte opposta erano vuoti. Dopo qualche tempo mi azzardai a toccare lo strano contenitore, non appena giudicai che si fosse raffreddato a sufficienza. «Lo afferrai e lo portai fuori alla luce del sole, e a quel punto vidi un particolare che fino a quel momento non avevo notato: i compartimenti pieni erano chiusi da dei coperchietti trasparenti, di una sostanza simile a cristallo, e non si potevano aprire; tra le due parti del contenitore c’era un collegamento molto complesso, che funzionava in questo modo: occorreva mettere qualcosa in un compartimento vuoto e chiudere il suo coperchio per poter aprire il vano corrispondente posto sull’altro lato. I posti disponibili non erano molti, sei o sette, e v’infilai quello che avevo in tasca… un foglio di carta del mio quaderno d’appunti, un pezzo di granito, una sigaretta, campioni di licheni presi dalle rocce lì attorno… e prelevai l’intero contenuto dei compartimenti chiusi. Una delle cose che vi trovai era un blocco di platino e metalli analoghi, che pesava quasi un chilo. «Giunto a quel punto, mi fermai per un attimo, perché volevo riflettere bene sull’accaduto. Per prima cosa, era chiaro che il siluro proveniva da un altro pianeta. L’unica nave spaziale di cui avevo mai sentito parlare era il proiettile descritto nel romanzo di Giulio Verne, certo, ma sul nostro pianeta non c’è nessuno che manda a spasso siluri volanti, privi di visibili mezzi di propulsione e carichi di quelle che, come capivo benissimo senza bisogno di chiederlo in giro, erano pepite di metallo prezioso; ammesso poi che qualcuno lo faccia, non credo che annunci la cosa strombazzandola con l’altoparlante, in una lingua assolutamente sconosciuta, a un volume tale da sentirla a due chilometri di distanza. «Dato quindi che il siluro veniva dallo spazio interplanetario, il suo comportamento pareva indicare una cosa sola: che le creature che l’avevano inviato sulla Terra avevano intenzione di commerciare con noi. Comunque, decisi che l’unica ipotesi plausibile era questa, e di comportarmi di conseguenza. Presi tutte le cianfrusaglie che avevo prelevato dal contenitore e le rimisi al loro posto, eccetto naturalmente il blocco di platino, e tornai a infilare il tutto nel vano anteriore del siluro. «Ancora oggi non ho capito se sono in grado di vedermi, anche se dubito che possano farlo, e questo per vari motivi… comunque, il portello si è chiuso quasi immediatamente e il siluro è decollato. In verticale, fino a scomparire nel cielo. Mi spiaceva di non avere niente di interessante da mettere nella mia parte del contenitore. Per un attimo avevo pensato di mettere una cartuccia del mio fucile per mostrare che avevamo un’industria meccanica, ma poi ci ho ripensato, ricordando l’alta temperatura del siluro al momento dell’arrivo. «Il siluro impiegò due o tre ore a compiere il tragitto di andata e ritorno. Quando ritornò avevo già finito da tempo di montare la tenda ed ero andato a raccogliere acqua e legna da ardere. La mia supposizione era giusta, perché vidi che nel contenitore c’era un unico oggetto, un altro blocco di platino, e gli altri compartimenti erano vuoti. Riuscii però a ricordare cosa avevo messo, la volta prima, nello spazio corrispondente.» Wing padre sorrise al figlio. «E questo è tutto» concluse. «Da una trentina d’anni, ormai, continuo a barattare sigarette in cambio di pepite di platino e iridio. E adesso puoi anche capire perché desideravo che tu studiassi astronomia!» Don zufolò. «Penso di averlo capito.» Indicò il cubo di metallo, su cui il padre si era seduto per raccontare la sua storia, e disse: «Però, non mi hai ancora spiegato questo.» «Il cubo» spiegò il padre «è sceso qualche tempo più tardi, legato a un altro di quei siluri: quando è giunto il cubo, il primo siluro è subito ripartito. Sono convinto che lo utilizzano per trovare esattamente il punto in cui siamo adesso. Nel corso degli anni abbiamo instaurato una sorta di routine. Non vengo più durante l’inverno, e credo che lo abbiano capito, ma circa due o tre giorni dopo che sposto in su e in giù questa specie d’interruttore… così» fece vedere al figlio come si faceva «la nostra situazione finanziaria riceve una boccata d’ossigeno.» Don aggrottò la fronte, pensoso, e rimase per qualche minuto a riflettere su quanto gli aveva detto il padre. «Non capisco» disse alla fine «perché continui a tenere segreta la cosa. Se si tratta effettivamente di scambi con creature di un altro pianeta, è un avvenimento di grandissima importanza.» «Certo, è vero. Però, se queste creature avessero voluto entrare in contatto con l’umanità in generale, non avrebbero avuto difficoltà a farlo. Ho sempre pensato che se continuavano a mantenere i contatti in questo modo, era perché non volevano fare conoscere pubblicamente la loro esistenza; e che se, tanto per fare un esempio, gli esperti si fossero messi a smontare il loro trasmettitore per vedere come funzionava, o a mandare loro libri e macchine per far vedere il livello a cui è giunta la nostra civiltà, si sarebbero affrettati ad andarsene.» «Un simile timore mi sembra un po esagerato…» «Forse hai ragione; ma sai dirmi tu qualche altro motivo che impedisce loro di far atterrare uno di questi oggetti in una città? Pagano cifre altissime per avere in cambio piccole quantità di tabacco… qualsiasi tabaccheria potrebbe rifornirli per anni, vista l’esiguità dei loro consumi. «Non fraintendermi, Don; anch’io comprendo bene l’importanza di quanto succede qui, e desidero sapere tutto il possibile su queste creature e le loro macchine; ma voglio che siano studiate da persone di cui mi posso fidare: persone attente a non rovinare la situazione presente. Peccato che voi ragazzi non abbiate sette o otto anni di più, altrimenti potremmo già avere in famiglia un buon gruppo di studio. Per il momento, comunque, tu e io… soprattutto tu… dovremo occuparci delle ricerche da soli, mentre Rog ed Edie sorveglieranno la zona. «Penso che cercheranno di spiare anche noi, naturalmente; la curiosità di Roger è arrivata al punto di tenerlo sveglio la notte, e già riconosco in lui le tendenze del futuro uomo d’azione. Mi chiedo se al nostro ritorno troveremo le tracce sue o quelle di Edie… quel ragazzo è capace di averla convinta a recarsi in città al posto suo. Qui, comunque, non abbiamo più niente da fare, a meno che tu non voglia esaminare un po meglio il comunicatore; potremmo ritornare a casa, e scoprire fino a dove giunga l’intraprendenza della generazione più giovane.»0 «Non c’è fretta» disse Don. «Preferirei dare un’altra occhiata a questa apparecchiatura. Ha il generico aspetto di un trasmettitore a onde corte, ma ci sono diversi particolari che non mi quadrano.» «Non quadrano neppure a me» rispose il padre. «Ho imparato molte cose sulle radio, negli scorsi vent’anni, ma questa apparecchiatura è troppo avanzata, rispetto alle mie conoscenze. Ovviamente, non ho mai osato togliere altri pezzi più complicati, e mi sono limitato al solo involucro esterno; all’interno ci sono delle parti profondamente incassate, che non sono visibili dal punto dove ci troviamo. Se potessimo vederle, sarebbero estremamente interessanti da studiare.» «Ne sono convinto anch’io» disse Don. «Ma ci dovrebbe essere il modo di vederle. Potremmo procurarci qualcosa che assomigli allo specchietto del dentista…» «Non mi attira l’idea d’infilare un oggetto metallico in un’apparecchiatura dove ci possono essere chissà quali voltaggi astronomici.» «Già… vero. Per prima cosa potremmo spegnerla, una volta capito qual è la posizione della leva corrispondente alla posizione di «spento». Non sappiamo se quando muovi la leva li chiami con una trasmissione a onde corte, oppure se quest’azione interrompe una trasmissione continua. Se usano il loro dispositivo come radiofaro, la seconda ipotesi è quella giusta; ma non possiamo esserne sicuri.» «Anche se così fosse» gli fece notare il padre «spegnere l’alimentazione non sarebbe sufficiente. I condensatori possono contenere una grossa carica per molto tempo.» Don ammise che l’osservazione era giusta, e dedicò soltanto alcuni minuti a osservare l’interno dalle aperture che si erano prodotte con la rimozione delle piastre di copertura. «L’interno» disse alla fine «sembra composto prevalentemente di blocchi di materia plastica: bachelite o simili. Suppongo che la tiranteria sia stata annegata nella plastica per conservarla meglio. Mi chiedo come facciano, però, quando vogliono ripararla… Penso che tu abbia ragione: meglio ritornare a casa… in attesa dell’arrivo del siluro.» Si rimise in spalla lo zaino che aveva contenuto la loro colazione, o, meglio, i panini che avevano mangiato durante il tragitto, e si levò in piedi. Il padre annuì, ed entrambi si avviarono giù per la montagna, rifacendo il tragitto dell’andata. Don era intento a riflettere su tutte quelle rivelazioni, e il padre evitò d’interromperlo. Ricordava l’effetto prodotto su di lui dai fatti che aveva testé raccontato al figlio: lui stesso, a quell’epoca, non aveva molti anni più di Don. Inoltre aveva molta stima per l’intelligenza dei propri figli, ed era fermamente convinto che fosse meglio lasciare che risolvessero da soli i loro problemi, quando non c’erano pericoli immediati. E pensò anche, con un po di tristezza, che tanto, in qualsiasi caso, quel che lui poteva dire non aveva molta importanza, dato il complesso della situazione. Durante il viaggio di ritorno controllarono con attenzione il sentiero, ma non scorsero tracce che rivelassero che erano stati seguiti: quando giunsero nel punto dove c’era la frana di pietrisco che avevano deliberatamente attraversato durante il viaggio di andata, si separarono per controllare sia la parte più bassa, sia quella più alta, ma anche lì non videro nulla di allarmante. Niente di strano in questo, perché, come vennero a sapere quando giunsero a casa, Edith aveva fatto i suoi giri d’ispezione, come da accordi, e poi aveva passato il resto della giornata con i bambini più piccoli, mentre Roger si era recato in città come previsto. Se anche aveva pensato di farsi sostituire dalla sorella per darsi all’inseguimento del padre e del fratello, non ne aveva poi fatto niente. Wing padre non sapeva se ritenersi soddisfatto, oppure deluso. 5 Laj Drai trovò accanto a una delle sonde il suo insegnante di recente assunzione; con un tentacolo curvo ad anello era occupato a esaminare il contenuto del vano di carico. Elencava a uno a uno gli oggetti, e il meccanico lo ascoltava. «Cellula di magnesio; cellula di titanio; cellula di sodio… oh, salve, Drai. Qualche novità?» «Difficile dirlo» rispose l’altro. «Avete intenzione di iniziare una ricerca, vedo.» «Controllo alcune ipotesi, nient’altro. Ho fatto una lista degli elementi chimici che sono gassosi alle condizioni di temperatura e pressione che regnano sulla superficie del Pianeta Tre, e dei composti che ho trovato nelle tabelle del manuale. Alcuni di questi composti sono un po dubbi, perché non ho dati esatti sulla pressione; potrebbero essere allo stato liquido. Però, se sono presenti come liquidi, dovrebbero esserci i loro vapori. «Poi ne ho eliminato quanti più possibile, in base a considerazioni teoriche, poiché non posso compiere in una volta sola tutti gli esperimenti.» «Considerazioni teoriche?» chiese Drai. «Sì. Per esempio il fluoro: mentre è ancora gassoso a quelle condizioni, è troppo attivo per pensare di poterlo trovare allo stato libero. Lo stesso discorso vale per il cloro… che però forse è liquido… e per l’ossigeno. Viceversa, sembra molto probabile la presenza dell’idrogeno, dell’acido solfidrico e dei composti volatili di questi elementi. Dovrebbe esserci anche l’azoto, e certo ci saranno dei gas inerti… anche se non so come determinare la loro presenza, ovviamente. «Ho fabbricato dei piccoli contenitori in cui ho messo le varie sostanze chimiche, e li ho muniti di un sistema di riscaldamento; intendo far scendere sul pianeta questa sonda, aprire il portello in modo che l’atmosfera locale penetri nel suo vano di carico, e riscaldare i contenitori, uno alla volta. Poi la riporterò qui da noi e controllerò l’effetto di quell’atmosfera sui miei campioni. Ho messo del magnesio e del titanio, che hanno lo scopo di fissare l’azoto; del sodio e un paio di solfuri che verranno ridotti se l’atmosfera contiene troppo idrogeno, e così via. Non verrò a sapere tutto su quell’atmosfera, ma qualcosa lo verrò a sapere.» «Lo penso anch’io» disse Drai «da quel poco che so. Avete intenzione di far partire subito la vostra sonda?» «Sì; mi pare che tutto sia pronto, a meno che non ci siano delle obiezioni da parte vostra.» «Niente d’importante» disse Drai. «Stiamo per inviarne una anche noi; il nostro indigeno ci ha trasmesso il segnale convenuto. Lo abbiamo ricevuto poco tempo fa.» «Ed è possibile guidare due sonde allo stesso tempo?» domandò Ken. «Sì, è facilissimo. Mi viene però in mente un particolare: forse sarebbe meglio che faceste posare la vostra sonda a due o tre chilometri di distanza dal nostro consueto radiofaro, e che faceste il vostro esperimento quando quella parte del pianeta è in oscurità. Gli indigeni hanno abitudini diurne, ne siamo certi; meglio non correre il rischio di spaventarli, nel caso che una delle vostre reazioni chimiche sia troppo luminosa, o rumorosa, o puzzolente…» «O rilevabile da qualche loro organo di senso che non possiamo immaginare» concluse Ken al posto suo. «Giusto, avete ragione. Preferite che aspetti finché non avrete concluso i vostri scambi, o posso partire prima di voi, se faccio in tempo?» «Non credo che la cosa abbia importanza. Non ricordo se la sonda arriverà laggiù di giorno o di notte; in ufficio abbiamo una tabella per calcolarlo, e contavo di controllarla poco prima dell’arrivo. Direi di fare così: se sarà giorno, noi scenderemo e voi aspetterete, mentre, se sarà notte, toccherà a voi il primo turno.» «D’accordo.» «Dovrete pilotare la sonda da qui: nell’osservatorio abbiamo soltanto un’unità trasmittente. Ma la cosa ha poca importanza, perché in qualsiasi caso dovrete dirigerla alla cieca. Vado ad avvertire che tra poco ci sarà anche la vostra sonda. Abbiamo messo in orbita attorno al pianeta un’unità relè provvista di un apparato rilevatore, e se non li avverto prima, gli osservatori rischiano di credere che gli indigeni si siano avventurati nello spazio.» «Avete rilevato attività da parte degli indigeni?» «Non molta. Negli ultimi tre o quattro anni abbiamo rilevato delle radiazioni stranamente simili a quelle del radar, ma finora si è sempre trattato di emissioni a frequenza costante. Abbiamo messo sulle sonde una copertura di plastica da un quarto d’onda, con una pellicola di metallo che riflette in una sola direzione, e non abbiamo mai riscontrato inconvenienti. In tutto, usano soltanto una decina di frequenze diverse, e noi abbiamo già preso le nostre precauzioni per tutte: quando le cambiano, noi semplicemente usiamo un’altra sonda. «Suppongo che prima o poi si metteranno a usare due o più frequenze nella stessa area, o addirittura la modulazione di frequenza, e a quel punto saremo costretti a procurarci delle coperture non riflettenti. Sarebbe già adesso la soluzione migliore, ma è anche la più costosa. L’ho scoperto quando ho fatto ricoprire la Karella. Mi chiedo come faremo, quando gli indigeni impareranno a rilevare gli infrarossi. Le sonde sono molto più calde del pianeta, e all’infrarosso brillano come una stella nova, al momento dalla loro partenza dall’astronave, poco al di fuori dell’atmosfera.» «Lasciatele ferme nello spazio finché non si sono raffreddate» suggerirono in coro Ken e il meccanico. «Oppure» aggiunse quest’ultimo «fatele partire tutte da qui, come abbiamo sempre fatto.» Laj Drai si allontanò senza altri commenti. «Quell’uomo avrebbe bisogno di un intero dipartimento universitario» commentò il meccanico, quando la porta si fu richiusa. «È così sospettoso che assume soltanto una persona alla volta, e di solito la licenzia subito.» «Allora» commentò Ken «io non sono il primo?» «Voi siete il primo che è arrivato fin qui. Ce ne sono stati altri due prima di voi, ma lui si è messo in testa che volevano curiosare sui suoi commerci, e io non sono mai riuscito a sapere se era vero. Io non sono uno scienziato, ma sono curioso… Su, diamoci da fare; cerchiamo di mettere nello spazio questo fuso di metallo, prima che lui cambi idea e ci rifiuti il permesso di partire.» Ken fece un cenno d’assenso, ma si limitò a guardare mentre il meccanico sintonizzava la sonda laboratorio sul raggio del circuito generale esterno: sul raggio, due segnali multifase si potevano controllare con la stessa facilità di uno solo, e le due sonde potevano viaggiare a poca distanza tra loro, cosicché un solo raggio era sufficiente. Ken rifletté che le informazioni che gli aveva dato il meccanico erano interessanti; non aveva mai pensato che in quel lavoro poteva essere stato preceduto da qualcun altro. In un certo senso, la cosa era positiva: presumibilmente, gli altri non erano agenti della narcotici, perché, se lo fossero stati, Rade glielo avrebbe detto. Pertanto, lui era mimetizzato meglio di quanto non pensasse. C’era perfino la possibilità che Drai fosse abituato ad avere con sé degli estranei. Ma fin dove arrivavano le conoscenze di quel meccanico? In fin dei conti, doveva essere lì da vario tempo, e Drai non aveva certo paura di parlare in sua presenza. Forse Ken poteva usarlo come utile fonte di informazioni; viceversa, forse era pericoloso fargli domande, perché era possibile che uno dei suoi compiti fosse appunto quello di tenere d’occhio la condotta di Sallman Ken. Pareva un individuo alquanto taciturno e, fino a quel momento, Ken non gli aveva prestato molta attenzione. In quel momento, il meccanico era totalmente preso dai suoi compiti tecnici. Si era steso su una spalliera di fronte al quadro dei comandi: fece scattare con i tentacoli alcune levette e spinse avanti e indietro alcune resistenze variabili, e subito un ronzio che si faceva sempre più forte indicò che i tubi si stavano riscaldando. Dopo un attimo, girò piano una manopola, e la sonda preparata da Ken si sollevò delicatamente dalla sua slitta. Parlò senza voltare la testa: «Se mi fate il favore di spostarvi in fondo alla stanza, farò scendere la sonda laggiù e proveremo il microfono e l’altoparlante. So che non avete intenzione di utilizzarli, ma è meglio che funzionino.» Ken seguì il suggerimento, e prima provò il microfono, poi gli altri strumenti contenuti nel vano di carico, che dovevano informarli di eventuali violente reazioni chimiche che avessero luogo al suo interno: fotocellule, pirometri, pompe aspiranti collegate a bottiglie di raccolta e a precipitatoli di particelle. Ogni cosa era in perfetto ordine ed era tenuta saldamente al suo posto da robusti morsetti. Accertatosi che tutto fosse in ordine, il tecnico diresse la piccola nave interplanetaria verso un portello a tenuta d’aria, simile a una galleria, che si apriva in una delle pareti della stanza. La fece fermare, chiuse il boccaporto, fece il vuoto all’interno e poi fece uscire la sonda sulla superficie di Mercurio. Senza altri preamboli, la allontanò dal pianeta a tutta velocità: i controlli della sonda erano sintonizzati su un raggio portante a trasmissione istantanea che correva dalla stazione al satellite relè orbitante intorno alla Terra. La sonda non avrebbe richiesto ulteriori attenzioni finché non fosse giunta nei pressi del pianeta. Il meccanico si staccò dal pannello e si voltò in direzione di Ken. «Adesso vado a dormire per qualche ora» disse. «Sarò di nuovo qui prima che la sonda faccia ritorno. Se la cosa v’interessa, la vostra sonda sarà la prima a scendere. Occorrono tre rotazioni e mezza del Pianeta Tre, all’incirca, perché la sonda arrivi fino a esso quando i pianeti sono nelle loro attuali posizioni… nelle sonde non possiamo installare l’iperpropulsione… e il segnale dev’essere partito durante il periodo di luce del pianeta. Arrivederci. Fatemi chiamare dall’altoparlante se vi occorre qualcosa.» Ken gli rivolse l’equivalente di un cenno affermativo. «Benissimo… e grazie. Voi vi chiamate Allmer, vero?» «Precisamente. Feth Allmer.» Senza più fare parola, il meccanico raggiunse la porta e scomparve, muovendosi con la rapidità di una persona ben assuefatta alla debole gravità di Mercurio. Ken, rimasto solo nella grande stanza, ricominciò a riflettere sulla propria situazione. Quasi senza accorgersene, l’investigatore andò a stendersi sulla spalliera che aveva ospitato Allmer fino a pochi istanti prima e fissò con uno sguardo vacuo gli indicatori davanti a lui. Uno dei suoi guai, si disse, era la sua tendenza a occuparsi di due problemi alla volta. In un certo senso la cosa poteva essere positiva, naturalmente; un genuino interesse nei confronti dei problemi del Pianeta Tre era la migliore protezione possibile da eventuali sospetti riguardanti la sua seconda occupazione; ma non gli permetteva di concentrarsi su di essa. Da ore, ormai, non pensava praticamente ad altro che ai suoi esperimenti chimici, finché le ultime parole di Allmer non l’avevano bruscamente riportato al suo dovere. Fin dall’inizio, Allmer gli era parso un tecnico competente; ma a causa di qualche sua prevenzione che non avrebbe saputo spiegare neppure lui, non s’era aspettato da parte sua tutto l’acume che aveva dimostrato nelle considerazioni di poco prima. Ken stesso non aveva afferrato le implicazioni delle parole di Drai, quando questi aveva parlato delle abitudini diurne degli abitanti del terzo pianeta; a quanto pareva, Drai non era stato neppure sfiorato dalla possibilità di arrivare alla risposta mediante un ragionamento. Ma poteva davvero essere così stupido? Diversamente da Ken, Drai conosceva le distanze messe in gioco da un viaggio fino a quel pianeta, come pure la velocità delle sonde; per sua stessa ammissione, Drai commerciava con gli indigeni di quel pianeta da diversi anni. Che scopo poteva avere, cercando di sembrare più stupido di quello che era? Una possibilità c’era certamente. Forse erano già sorti dei sospetti su di lui, e Ken era al centro di una cospirazione che voleva spingerlo a tradirsi per eccesso di sicurezza. Però, in questo caso, perché il meccanico aveva rivelato le informazioni di cui disponeva? Forse intendeva acquistarsi dei meriti presso di lui, per diventare un suo possibile confidente, nel caso che Ken decidesse di parlare. In tal caso, Feth costituiva per lui il più grave pericolo, poiché era la persona che passava più tempo con Ken, e quindi la più adatta al ruolo della spia. D’altra parte, forse il meccanico era del tutto innocente, anche se il gruppo nel suo complesso si dedicava allo spaccio, e le sue parole potevano essere dettate dal semplice desiderio di aiutarlo. Per ora, sembrava impossibile capire quale di queste ipotesi fosse la più plausibile; Ken accantonò per il momento il problema, etichettandolo come insolubile in base ai pochi dati disponibili. E poi, l’altro problema chiedeva adesso tutta la sua attenzione. Sul quadro di comando posto davanti a lui, alcune lancette indicatrici si stavano muovendo. Negli ultimi due o tre giorni aveva imparato a leggere perfettamente i comandi, e adesso era in grado di interpretare il significato dei dati forniti dagli strumenti. Per quanto ne capiva, tanto la temperatura quanto la pressione all’interno del vano di carico della sonda, continuavano ad abbassarsi. Il fatto era comprensibile. Non c’era in funzione alcun sistema di riscaldamento, e la pressione ovviamente scendeva Con il progressivo raffreddarsi del gas. Poi gli venne in mente che la temperatura del Pianeta Tre era talmente bassa da congelare il solfo, e che i suoi contenitori di sostanze chimiche si sarebbero ricoperti di uno strato di solfo ghiacciato. Occorreva prendere qualche provvedimento. In realtà, gran parte dell’abbassamento di temperatura era dovuta alle perdite; il portello del vano di carico, raffreddandosi, si era ristretto quel tanto che bastava a lasciar fuoriuscire lentamente un po d’aria dai bordi. A Ken, tuttavia, questo particolare non venne in mente; cercò l’interruttore opportuno e lo fece scattare, e sotto i suoi occhi la pressione calò bruscamente a zero, a causa dell’apertura del portello. La temperatura non si abbassò: anzi, forse prese a scendere più lentamente di prima, perché adesso i pirometri erano isolati a causa del vuoto, e l’espansione del solfo gassoso nello spazio interplanetario non aveva raffreddato percettibilmente il vano. Sfiorando gli interruttori che comandavano il riscaldamento delle provette, Ken controllò il funzionamento delle piccole fornaci; poi, dopo un attimo di riflessione, lasciò che i campioni di magnesio e di titanio giungessero a temperatura di fusione. Accertatosi in questo modo che fossero liberi, quanto più possibile, da contaminazioni gassose, controllò sui quadranti il loro raffreddamento. Per tutta la durata di questa procedura, la sonda continuò il suo rapidissimo viaggio nello spazio, senza subire rallentamenti a causa dell’imprevisto assorbimento di energia. Per alcuni minuti Ken attese con un occhio puntato sui quadranti e con l’altro che si posava distratto sui vari oggetti contenuti in quell’immensa stanza. Alla fine si disse che Allmer aveva scelto il momento più opportuno per andare a riposarsi. Ken non era stanco, ma poco alla volta si convinse di dover fare qualcosa di più costruttivo. Pensava che se quella stazione serviva per lo spaccio della droga, la droga stessa non doveva essere ancora arrivata laggiù, e dunque non valeva la pena che lui si mettesse a cercarla; ma intanto che aspettava il suo arrivo, poteva predisporre qualche piano per controllare che cosa sarebbe arrivato con l’altra sonda. Come primo passo, poteva recarsi all’osservatorio per vedere chi pilotava la navicella radiocomandata. Se la pilotava personalmente Drai, questo particolare avrebbe costituito un punto a favore di Rade; in caso contrario, Ken avrebbe avuto a disposizione un’altra persona a cui chiedere informazioni. Chiaramente, la persona che guidava la sonda utilizzata per il commercio doveva conoscere con esattezza la natura della merce che proveniva dal terzo pianeta: il Pianeta dei Ghiacci, come lo chiamava Ken, tra sé e sé. Con questo, non si vuol dire che pensasse al ghiaccio come a una sostanza ben precisa; non l’aveva mai vista, e se avesse pensato a essa, in qualsiasi caso, l’avrebbe pensata non come ghiaccio, ma come ossido di idrogeno. «Pianeta del Solfo Solido» può forse rendere meglio l’idea del modo in cui si sarebbe espresso. Ken basava le sue supposizioni sul ricordo di come Drai avesse evitato di nominare la sostanza che otteneva dal pianeta; deciso a trovare almeno un piccolo mattone di dati concreti da aggiungere al suo edificio di informazioni, l’investigatore si avviò verso la rampa a spirale che portava all’osservatorio, al più alto livello della stazione. Nessuno tentò di fermarlo lungo il tragitto, anche se incontrò un paio di operai che lo salutarono sollevando i tentacoli. Si accertò con una spinta che la porta dell’osservatorio non fosse chiusa, ed entrò senza essere fermato da nessuno. Si aspettava che qualcuno, da un momento all’altro, gli chiedesse di allontanarsi, e rimase un po sorpreso nel vedere che nessuno glielo chiedeva. Un attimo più tardi, quando i suoi occhi si furono abituati alla penombra che regnava nella grande sala, si accorse con delusione che non c’era nessuno. «Nessun segreto commerciale da trafugare, finora» pensò. Si accingeva a ritornare indietro per la strada da cui era venuto, quando gli venne in mente che forse avrebbe fatto meglio ad accertarsi che non ce ne fossero veramente. Con una rapida occhiata, scorse alcuni posti dove si potevano nascondere dei documenti; e quei pochi li esaminò in pochi istanti. Erano soprattutto armadietti collocati sotto pannelli di strumenti, e parevano contenere soltanto tabelle dei movimenti dei pianeti di quel sistema. Le giudicò inutili; il loro principale impiego doveva essere per la navigazione, ma Ken non riusciva a immaginare che navigazioni si potessero fare in quel sistema, a parte quelle dirette verso il Pianeta dei Ghiacci. Potevano essere utilizzate per inviare una sonda a esplorare i pianeti, ma la cosa sembrava altrettanto inutile. Sotto i comandi per la regolazione del raggio c’era un piccolo cassetto che conteneva due elenchi di numeri: anche ora si trattava di coordinate spaziali; ma questa volta Ken le osservò con maggiore attenzione, perché notò che almeno una di quelle serie di numeri non si riferiva a un pianeta: per prima cosa, non conteneva termini ciclici. La serie era breve: sei numeri, costituiti ciascuno da sei a dieci cifre; ma Ken li riconobbe. Il primo corrispondeva allo spettro di una stella faro; i tre successivi erano coseni direttori che davano le tre direzioni del vettore che portava a un’altra stella; il quinto era una distanza. In genere, Ken non sarebbe stato in grado di ricordare e riconoscere le lunghe serie di numeri delle coordinate stellari; ma quelle erano le coordinate del luminoso sole di classe A che riscaldava Sarr, il suo pianeta natale. L’ultimo numero era un’altra distanza, e senza dubbio rappresentava quella tra l’attuale punto d’osservazione e la stella a cui si riferivano le coordinate. Ken conosceva a sufficienza le convenzioni astronomiche standard per esserne certo. L’altra serie di numeri, dunque, doveva dare la direzione dello stesso sole rispetto a qualche insieme locale di coordinate; ma lui ignorava le coordinate, e i numeri erano troppo lunghi da ricordare. Copiarli era un rischio eccessivo, se dietro quel gruppo di persone c’era qualcosa di più di un semplice segreto commerciale. Per lunghi istanti Sallman Ken rimase immobile a riflettere; poi, all’improvviso, infilò di nuovo il foglio nel cassetto, lo richiuse e lasciò l’osservatorio con tutta la rapidità compatibile con la cautela. Dato che in quella stanza c’erano delle informazioni pericolose, nessuno doveva sospettare che lui era rimasto laggiù più del minimo necessario. Sarebbe stato preferibile non essere visto, ma i due meccanici lo avevano scorto mentre saliva sulla rampa. Si diresse verso la propria stanza con l’intenzione di fingere di riposarsi, ma il suo cervello lavorava furiosamente. Era riuscito a conoscere la distanza della sua stella d’origine. Evidentemente, il viaggio verso quel sistema, che era durato ventidue giorni, non era stato effettuato seguendo la rotta più breve; la distanza vera ammontava a soli duecentododici parsec. Un punto a favore di Rade: per un semplice viaggio commerciale sarebbe stata una precauzione inutile e costosa, ma per un’attività illegale sarebbe stata la norma. Non conosceva la direzione che andava da quel sistema alla sua stella d’origine. Ma questo aveva poca importanza; quel che gli era stato chiesto dall’Ufficio Narcotici era la direzione opposta, in coordinate galattiche, ma tra le due serie di numeri c’era solo un collegamento arbitrario, che era più complesso da ricordare della direzione stessa. Naturalmente, il faro elencato nelle coordinate stellari doveva essere visibile da laggiù; ma lui non si sentiva in grado di individuarlo, senza strumenti. Gli strumenti erano disponibili, certo, ma non era consigliabile farsi sorprendere a usarli. No, la ricerca di quelle direzioni doveva essere l’ultimo lavoro da compiere nella stazione. A ogni modo, un dato lo aveva trovato, e la teoria di Rade diventava sempre più probabile. Sallman Ken si disse che per quel giorno si era guadagnata la giornata, e in base a tale conclusione si concesse il giusto riposo. 6 Passarono quasi tre giorni di Sarr, lunghi tredici ore ciascuno, senza che ci fossero novità; infine la stazione relè in orbita attorno alla Terra segnalò l’arrivo delle due sonde. Come previsto da Feth Allmer e successivamente confermato da Laj Drai, che aveva controllato il dato sulle sue tabelle, i segnali del radiofaro collocato sulla superficie del pianeta provenivano dalla parte in ombra. Dall’osservatorio, Drai telefonò al laboratorio, dove Ken e Allmer erano occupati a controllare la loro navicella, che in quel momento stava decelerando. «Potete scendere subito, non appena raggiunta la parte in ombra» disse. «Se scenderete descrivendo un ampio cerchio, aggancerete facilmente il segnale del radiofaro. Tenetevi a un’altezza tra i quaranta e i quarantacinque gradi al di sopra del piano dell’orbita planetaria, misurati dal centro del pianeta. Il raggio potrà essere captato dalla vostra sonda quando giungerete a quaranta diametri planetari di distanza. È impossibile non trovarlo. Vi consiglio di agganciare il raggio e di lasciare che sia il pilota automatico a effettuare la manovra di discesa, finché non sarete entrati nell’atmosfera. A questo punto vi conviene passare ai comandi manuali e spostarvi di tre o quattro chilometri, se intendete scendere a terra. Nel caso che gli indigeni si siano accampati accanto al trasmettitore, è meglio non mettersi a pasticciare con le sostanze chimiche in mezzo a loro.» «Giusto» convenne Ken."Feth ha adesso portato la sonda nella zona in ombra e sta per cominciare la discesa; dista ancora cinque diametri dalla superficie. Mi spiace che nella sonda non ci sia una telecamera. Un giorno o l’altro voglio avvicinarmi al pianeta quanto basta per potere usare un telescopio, a meno che, prima, qualcuno non costruisca una TV capace di resistere ai rigori dell’inverno.» «C’è da prendersi più che un congelamento» rispose Drai, con convinzione. «Eppure, poco tempo fa, quando osservavate di persona quel mondo, non mi sembravate così desideroso di avvicinarvi.» «Allora non m’era ancora venuta la curiosità» rispose Ken. La conversazione s’interruppe per qualche tempo, e Feth Allmer continuò a spostare impercettibilmente le levette che regolavano la spinta dei motori della sonda. La navicella, come aveva riferito Ken quando aveva parlato con Drai, era già entrata nell’orbita del pianeta, ma doveva ancora ridurre la sua velocità relativa, che ammontava a molti chilometri al secondo. Allmer navigava con l’aiuto di alcuni strumenti collocati sulla stazione relè: un calcolatore dello sfasamento dell’eco e un gradiente direzionale, che ritrasmettevano fino al suo quadro di comandi le loro misurazioni; la sonda era ancora troppo lontana dalla Terra perché si potesse utilizzare l’altimetro a riflessione. Per alcuni minuti, Ken osservò in silenzio i quadranti, interpretando come meglio sapeva i movimenti delle lancette e i gesti di Allmer. Alla fine, un brontolio di soddisfazione del meccanico lo informò, più chiaramente di qualsiasi strumento, che il raggio era stato agganciato. Con un tentacolo, il meccanico spinse a fondo scala una delle levette. «Non capisco perché non installano su queste sonde le attrezzature necessarie per dare loro una buona accelerazione» brontolava Allmer a bassa voce. «Cosa scommettete che usciremo dalla portata del raggio, prima che si riesca a uguagliare la velocità di rotazione del pianeta? Con nove decimi del loro volume dedicati ai motori e agli accumulatori, le nostre sonde potrebbero raggiungere elevate velocità anche senza ricorrere ai motori iperspaziali. Ma questi modelli da pochi soldi…» S’interruppe. Ken non rispose, poiché non capiva se l’altro voleva davvero avere una risposta. Del resto, Allmer era troppo intelligente perché quel tipo di banalità fosse spontaneo, e occorreva riflettere su ogni risposta, anche per semplici motivi di cautela. Ma, a quanto pareva, il meccanico era eccessivamente pessimista: in pochi minuti riuscì a portare la sonda in posizione verticale rispetto alla superficie del pianeta e a iniziare la manovra di discesa. Lo stesso Ken era in grado di capirlo dai quadranti; ed entro breve tempo anche l’altimetro a riflessione cominciò a trasmettere dati. Lo strumento cominciava a essere efficace a una distanza uguale al diametro di Sarr, circa diecimila chilometri, e Ken si sedette vicino all’operatore non appena notò che l’altimetro si muoveva. Non dovette fare molta strada. Il suo personale quadro di strumenti, preparato in fretta da Allmer nei giorni precedenti, era ancora immobile. Gli indicatori di pressione erano ancora fermi allo zero, e la temperatura era bassa: a quanto pareva, si era già congelato anche il sodio. Da molte ore non c’erano cambiamenti: evidentemente, la sonda era in equilibrio termico con le radiazioni del sole lontano. Ken guardò con attenzione la lancetta dell’altimetro, che stava scendendo, e per un attimo si domandò quale sarebbe stato il primo effetto dell’ingresso nell’atmosfera. Un aumento di pressione, o una variazione di temperatura? Per la cronaca, non rilevò alcun effetto. Fu Feth Allmer a notare l’aumento di pressione, prima che si fossero mossi gli indicatori di Ken; e l’investigatore ricordò che il portello era chiuso. C’erano state delle perdite in precedenza, ovviamente, ma la differenza di pressione tra l’interno e l’esterno era stata molto maggiore. A quanto pareva, attorno alla sonda c’era già una certa pressione atmosferica, anche alla temperatura indicata dal quadrante in quel momento. «Aprite il portello di carico, per favore» disse Ken, nell’udirne l’annuncio da Allmer. «Così possiamo controllare se c’è qualche elemento che brucia spontaneamente.» «Un minuto. Sto scendendo troppo velocemente. Se l’aria è densa, a questa velocità c’è il rischio che il portello si stacchi.» «Non potete decelerare più in fretta?» domandò Ken. «Sì, adesso. Un momento solo. Non intendo perdere tutta la giornata nella manovra, e ormai la superficie dista soltanto una trentina di chilometri. Da questo momento in poi, sono ai vostri ordini.» Obbediente, la lancetta dell’altimetro rallentò la sua marcia sulla scala numerata. Ken cominciò a riscaldare il campione di titanio: era quello che aveva la temperatura di fusione più alta; inoltre, era quasi certo che l’atmosfera del pianeta conteneva azoto molecolare: almeno uno, fra i suoi esperimenti, doveva dare un esito positivo. Quando la sonda giunse a otto chilometri dalla superficie, la piccola fornace era al calore bianco, almeno a giudicare dalla quantità di luce che colpiva la fotocellula posta nel compartimento di carico. La pressione atmosferica era misurabile, anche se insufficiente secondo i criteri sarriani, se ci si poteva fidare del tubo a gas; e Feth gli aveva detto di avere una tabella con le correzioni: l’aveva preparata calibrando sulla parte oscura del pianeta un certo numero di quegli strumenti. «Possiamo rimanere fermi a questa altezza per qualche momento?» domandò Ken. «Voglio far reagire questo titanio con i gas dell’atmosfera, se possibile. La pressione atmosferica è sufficiente, e l’altezza è abbastanza grande perché non ci scorga nessuno.» Allmer gli mostrò le indicazioni della fotocellula. «Il portello è aperto, e la fornace è molto luminosa. Vi consiglio di chiuderlo, anche se questo impedirà l’ingresso dell’atmosfera esterna. Una luce come quella, a una tale distanza dal terreno, dev’essere visibile per decine di chilometri.» «Non ci avevo pensato» disse Ken, stupito di non averlo fatto. Rifletté per qualche istante, poi disse: «Sì, chiudiamo il portello. Conosciamo la misura della pressione. Se si abbassa, vuol dire che il nostro campione reagisce con l’atmosfera.» «Giusto» commentò Allmer, facendo scattare la levetta che chiudeva il portello. Attese in silenzio che Ken azionasse i comandi. Priva dello sfogo costituito dall’apertura, da cui usciva gran parte del calore prodotto, la temperatura all’interno del compartimento cominciò a salire: Ken si aspettava che salisse anche la pressione, ma vide con piacere che, invece, scendeva. Per controllare la sua ipotesi, ordinò ad Allmer di aprire il portello per poi richiuderlo immediatamente, e il risultato confermò le sue aspettative: la pressione ritornò al valore precedente, poi riprese ad abbassarsi. A quanto pareva, il titanio si combinava con qualche componente gassoso dell’atmosfera circostante, anche se la reazione non avveniva in modo sufficientemente violento perché la si potesse definire una combustione. «Se siamo abbastanza lontani dal centro del raggio emesso dal radiofaro, scendiamo pure sulla superficie» disse infine l’investigatore. «Vorrei conoscere la percentuale di atmosfera che reagisce in questo modo, e perché la misura sia attendibile devo partire dalla massima pressione atmosferica disponibile.» Feth Allmer gli rivolse l’equivalente di un cenno d’assenso. «Siamo a circa tre chilometri dal centro» disse. «Posso scendere dove volete. Preferite che il portello sia chiuso o aperto?» «Chiuso» rispose Ken. «Lasciamo che il campione si raffreddi un poco. In questo modo, dopo l’atterraggio, potremo ritornare alla pressione normale senza consumare tutto il nostro campione. Poi lo riscalderò di nuovo, con il portello chiuso, e misurerò la quantità d’aria consumata.» Feth gli rivolse un cenno d’assenso; si udì un debole fischio quando la sonda cominciò a scendere in caduta libera. Come le altre che l’avevano preceduta, anche quella aveva microfono e altoparlante, e Allmer non si era preso la briga di toglierli. Sei chilometri, cinque, quattro, tre, due, uno… con indifferenza, il meccanico arrestò la discesa quando l’altimetro indicò cinquanta metri, e da quel momento in poi fece scendere la sonda a velocità molto ridotta, con grande cautela. A un certo punto, indicò con la punta del tentacolo un altro quadrante, e Ken, dopo qualche istante, capì cosa intendesse dire. La sonda era già giunta a un livello più basso di quello del radiofaro. «Suppongo che il trasmettitore si sia posato in cima a una montagna, e che la nostra sonda stia adesso scendendo in una valle» disse Feth, senza distogliere gli occhi dal suo lavoro. «Ne sono convinto anch’io» rispose Ken. «Abbiamo sempre pensato che questa zona si trovasse in una parte piuttosto accidentata del pianeta. E la cosa mi pare positiva: corriamo meno rischi di essere visti da lontano. Ma che cosa succede? Non siete ancora riuscito a toccare terra?» L’altimetro aveva raggiunto lo zero, ma la discesa continuava lo stesso. Negli ultimi secondi si erano uditi dei deboli fruscii, che adesso erano stati sostituiti da forti rumori di oggetti spezzati o strappati. La discesa infine si arrestò: a quanto pareva, la sonda aveva trovato un ostacolo sufficiente a riflettere le onde radar e a reggere il suo peso. Ma quando Allmer provò ad applicare un po di spinta diretta verso il basso, le lacerazioni e i crepitii continuarono per alcuni momenti. Alla fine, comunque, tutto terminò: sia il movimento, sia il rumore, anche quando Allmer provò a raddoppiare e a quadruplicare per la durata di parecchi secondi la spinta verso il basso. Tolse l’alimentazione al motore e si rivolse a Ken, con un gesto equivalente a un’alzata di spalle. «Pare che abbia toccato il suolo, anche se non so fino a che punto lo si possa chiamare suolo… e cioè come quello che conosciamo noi. Comunque, non sembra che si possa scendere più in basso. Questo è l’interruttore per l’apertura del portello, nel caso non lo sapeste. Adesso, fate voi, e spero che non vi dia fastidio se resto qui a guardare. Penso che tra poco avremo qui anche il padrone; a questo punto dovrebbe già essere entrata in orbita anche la sua sonda.» «Certo, restate qui con me. Sono lieto che mi diate una mano. Forse ci sarà bisogno di spostare la sonda, ma per ora non posso dirlo.» Così dicendo, aprì il portello e vide con soddisfazione la lancetta del manometro salire con un balzo fino a una pressione pari a due terzi di quella normale di Sarr. Nello stesso istante, la temperatura della fornace del titanio, che era ancora elevata, si mise spontaneamente a salire: a quanto pareva, la maggiore densità atmosferica era in grado di far fronte al piccolo raffreddamento che si era prodotto. Il metallo bruciava. Ken si affrettò a chiudere il portello. La temperatura salì ancora un poco, mentre l’intensità luminosa all’interno del compartimento di carico si mantenne a un valore che sarebbe stato in grado di abbagliare perfino degli occhi abituati al forte sole di Sarr. Le informazioni più interessanti giungevano però dal manometro: e Ken continuava a tenere gli occhi fissi sullo strumento. Per quasi venti secondi la reazione continuò senza diminuire d’intensità; poi cominciò a indebolirsi, e dopo altri dieci secondi la temperatura prese di nuovo a scendere. Il motivo era evidente; la pressione era scesa a meno del due per cento del suo precedente valore. Non rimaneva più niente che potesse alimentare la reazione. Dal suo diaframma sonoro, Ken emise il basso ronzio che era l’equivalente sarriano di un fischio di sorpresa. «Sapevo che il titanio allo stato liquido reagisce con la nostra atmosfera fino a consumarsi completamente, ma non pensavo che potesse farlo anche sul Pianeta Tre. Vedo però che mi sbagliavo: mi aspettavo una miscela di composti che avrebbero richiesto un forte calore di formazione, tale da impedire una simile reazione. Però, suppongo che alla temperatura di quel pianeta, non abbiano bisogno di essere molto stabili dal nostro punto di vista…» Lasciò cadere il discorso. «La cosa non ha molto significato per me, ma il campione si è certamente bruciato» commentò Allmer. E aggiunse: «E gli altri campioni? Intendete compiere gli esperimenti subito, oppure aspettare che si siano raffreddati fino alla temperatura normale del pianeta?» Prima che riuscisse a rispondere, Ken scorse l’indicazione di un altro strumento. «Ehi… chi ha acceso il sodio?» chiese, senza rispondere alla domanda di Allmer. «Adesso si sta raffreddando, ma anch’esso deve avere continuato a bruciare per qualche tempo, finché c’è stata dell’aria.» Facciamone entrare dell’altra, e vediamo «proseguì Ken spostando l’apposita leva. Si udì lo schiocco dell’aria che si precipitava all’interno della sonda, in cui c’era quasi il vuoto assoluto. Il sodio continuò a raffreddarsi.» «Può darsi che si sia incendiato a causa di una scintilla uscita dal cilindro del titanio» disse Allmer. Senza rispondere, Ken chiuse nuovamente il portello e cominciò a riscaldare il contenitore del sodio. A quanto vide, l’ipotesi di Feth non era molto lontana dalla verità; fu sufficiente una piccola aggiunta di calore perché il metallo prendesse fuoco. Questa volta, la reazione si arrestò quando la pressione diminuì del quindici per cento. Poi il portello venne riaperto, e un’altra piccola dose di calore artificiale riaccese la reazione, che questa volta continuò, finché tutto il sodio non si fu consumato. «Voglio avere molto materiale su cui lavorare, quando la sonda sarà di ritorno» spiegò Ken. «Non sono il miglior chimico analista della galassia.» Il crogiolo di polvere di carbonio fornì dei risultati imprevisti. Accadde certamente qualcosa, poiché la temperatura del materiale non solo si conservò per qualche tempo, anche dopo l’interruzione della corrente di riscaldamento, ma addirittura aumentò; eppure non ci fu alcun segno di consumo o di produzione di gas nella camera chiusa. Sia Ken che Feth erano leggermente sorpresi. Il primo, in risposta a un’occhiata del meccanico, carica di perplessità, disse che il fatto doveva essere importante, ma non seppe darne alcuna spiegazione. Uno alla volta, vennero messi alla prova anche i campioni di ferro, stagno, piombo e oro. Nessuno di essi parve reagire intensamente con quella particolare atmosfera, a nessuna temperatura, con la possibile eccezione del ferro; nel suo caso, la caduta di pressione era troppo piccola perché la si potesse misurare, poiché il riscaldamento aveva portato un aumento di pressione di cui occorreva tenere conto. Il magnesio si comportava allo stesso modo del sodio, e bruciava con una luminosità superiore a quella del titanio. Anche in questo caso, Ken decise di consumare tutto il metallo riaccendendolo con il portello aperto; e fu così che il programma dei test subì una brusca interruzione. Entrambi i sarriani sapevano perfettamente che dal portello aperto usciva una lama di luce che disturbava l’oscurità esterna, ma avevano cessato di preoccuparsi della cosa; era già avvenuta per il sodio in fiamme, anche se forse in quel caso l’illuminazione era stata minore; e quando avevano esposto all’atmosfera i campioni di ferro e d’oro, la temperatura a cui li avevano riscaldati li aveva resi luminosi. Ormai, Ken e Feth non si preoccupavano di essere visti; era già passata almeno un’ora da quando la sonda aveva toccato terra, perché tra un test e l’altro avevano aspettato che il vano si raffreddasse, e non c’erano indicazioni che la presenza della sonda fosse stata notata. Ken si era scordato degli strani fenomeni accaduti durante la discesa. La possibilità gli ritornò all’improvviso alla mente quando riscaldò il campione di magnesio. Quando la fotocellula comunicò che la combustione era ricominciata, dall’altoparlante collocato al di sopra del pannello di comando proruppe un suono acuto che echeggiò in tutta la nave. Né Ken né Feth ebbero bisogno che gli fosse spiegata l’origine di quel suono; nelle registrazioni, entrambi avevano ascoltato la voce dell’indigeno del Terzo Pianeta che si era imbattuto originariamente nella sonda. Per un istante, tutt’e due rimasero immobili sulle loro spalliere, ed esplorarono mentalmente le possibilità della nuova situazione. Feth fece per spostare l’interruttore che riaccendeva i motori, ma, con uno schiocco dei tentacoli, Ken lo fermò. «Aspettate! L’altoparlante funziona?» gli disse, con un bisbiglio. «Sì.» Feth prese un microfono e lo abbassò fino a portarselo a livello del torace, poi fece un passo indietro. Non voleva prendere parte a ciò che Ken intendeva fare. Sallman, però, ancora una volta era completamente assorbito dai misteri del Pianeta dei Ghiacci, e aveva dimenticato tutto il resto; non vedeva alcun motivo di lasciare quel luogo, anche se la loro attività era stata scoperta. Non gli venne neppure in mente di non rispondere all’indigeno che li aveva individuati. Avvicinò il diaframma vocale al microfono e imitò il «capo» di tanti anni prima, cercando di ripetere i suoni che giungevano dall’altoparlante. Ma passò del tempo, e l’indigeno non rispose. Dapprima, nessuno degli ascoltatori si preoccupò: pensarono che l’indigeno fosse rimasto solamente sorpreso. Pian piano, però, sulla faccia di Ken si disegnò un’espressione preoccupata, mentre Feth cominciò a guardarlo con un’aria da «io ve l’avevo detto». «L’avete fatto fuggire» disse infine il meccanico. «Se metterà paura anche al resto della tribù, e la farà scappare, Drai non ne sarà affatto contento.» All’improvviso, Ken si ricordò di un debole rumore che aveva udito prima che giungesse loro la voce dell’indigeno: uno scricchiolio. In precedenza, tutto preso dai suoi problemi di chimica, non l’aveva notato, ma ora si afferrò a quell’ancora di salvezza. «L’abbiamo sentito avvicinarsi…» disse. «Lo stesso tipo di rumore fatto dalla sonda quando è scesa sul pianeta… e non l’abbiamo sentito allontanarsi. Dev’essere ancora nei pressi della sonda.» «Sentito avvicinarsi? Oh… quel rumore! Come potete dire che era lui? Nessuno di noi stava attento ai rumori.» «Cos’altro poteva essere?» obiettò Ken. La domanda era poco sportiva e Feth, invece di rispondere direttamente, fece un’altra domanda. «Cosa aspetta, allora?» chiese. Ma il destino gli era contrario; Ken non ebbe bisogno di rispondergli. La voce umana si fece di nuovo udire, in timbro meno acuto. I due sarriani ebbero l’impressione di assistere alla ripetizione di una storia già vista. Ken ascoltò attentamente; Feth, che pareva avere dimenticato la sua risoluzione di dissociarsi dalle attività di Ken, si era avvicinato a sua volta al microfono e stava al suo fianco. La voce continuò, sotto forma di brevi sequenze, e non occorse molta immaginazione per capire che erano domande. Nessuna delle parole più lunghe era riconoscibile, anche se entrambi riconobbero il «no» degli indigeni, in varie occasioni. La creatura non pronunciò nessuno dei nomi di articoli commerciali che i sarriani conoscevano: Feth, che li sapeva tutti, cominciò a scriverli su un foglio, a uso del collega. Ken, alla fine, si spazientì, prese la lista incompleta e cominciò a leggerla ad alta voce, come meglio poté, fermandosi dopo ciascuna parola. «Iridio… Fiatino… Oro… Osmio…» «Oro!» lo interruppe il loro invisibile ascoltatore. «Oro!» gli fece immediatamente eco Ken, parlando al microfono, e nello stesso istante si affrettò a chiedere a Feth, bisbigliando: «Che materiale è?» Il meccanico gli disse il nome, bisbigliando anche lui, e Ken commentò: «Nella sonda ce n’è un campione, ma non possiamo darglielo. Mi serve per controllare eventuali tracce di corrosione. Comunque, l’ho fatto fondere pochi minuti fa, e l’indigeno non riuscirà a toglierlo dal crogiolo. Come si chiama il materiale che vi danno in cambio?» «Tafacco» rispose il meccanico, senza riflettere… e mettendosi subito a riflettere, un istante dopo. Gli tornarono in mente le parole di Drai, le minacce contro chi forniva informazioni a Ken sulla «merce» che ricavavano dalla Terra; e, diversamente da Sallman Ken, sapeva che Laj Drai non scherzava. Al ricordo, si sentì addosso un prurito, come se già gli staccassero la pelle. Si chiese come poteva fare, per evitare che la notizia della sua sbadataggine giungesse ai piani superiori, ma non ebbe il tempo di trovare qualche sistema. Venne di nuovo interrotto dall’altoparlante. L’esclamazione precedente era stata forte, ma questa fu una sorta di esplosione. La creatura doveva trovarsi con il suo apparato vocale a pochi centimetri dal microfono della sonda, e inoltre doveva avere usato la sua piena potenza vocale. Il ruggito echeggiò per diversi secondi nel laboratorio, e per poco non cancellò i tonfi successivi: un rumore che faceva pensare a un corpo duro che colpiva la superficie esterna della sonda. L’indigeno, per qualche misterioso motivo, pareva oltremodo agitato. Quasi nello stesso istante, anche Ken emise un’imprecazione. Il termometro collegato con il campione d’oro aveva cessato di registrare. «Quel maledetto selvaggio s’è rubato il mio campione!» ululò, e azionò la leva che chiudeva il portello del vano di carico. La leva si spostò, ma il portello non si mosse… o, almeno, non si accese la spia che indicava che il portello era chiuso. Non c’era possibilità di sapere se si era fermato in qualche posizione intermedia o se era completamente spalancato. L’indigeno riprese a fare chiasso: più di prima, se la cosa era possibile. Ken riportò la leva sulla posizione di «aperto», attese un attimo, e l’azionò di nuovo in senso inverso. Questa volta, il portello si chiuse. I sarriani si domandarono se il servomotore del portello, che era relativamente poco potente, avesse causato qualche lesione alla creatura. Non parevano esserci dubbi sul motivo del precedente insuccesso; se ce ne fossero stati, i clamori raccolti dal microfono della sonda li avrebbero subito fatti svanire. «Non credo che intendesse rubare» disse Feth, debolmente. «Dopotutto, avete ripetuto varie volte il nome della sostanza. Probabilmente ha pensato che volevate offrirgliela.» «Forse avete ragione.» Ken ritornò al microfono. «Cercherò di fargli capire che oggi è giorno di mercato, e non una festa di matrimonio.» Fece un fischio, poi cominciò a gridare: «Tafacco! Tafacco! Oro… tafacco!» Feth rabbrividì in cuor suo. Quando avrebbe imparato a tener chiuso il diaframma? «Tafacco! Oro… tafacco! Mi chiedo se queste parole significano davvero qualcosa per lui.» Ken si scostò leggermente dal microfono. «Potrebbe non essere una delle creature con cui commerciate. Dopotutto, adesso non ci troviamo nel solito posto.» «Non è questo il problema principale!» Feth si serrò strettamente i tentacoli attorno al torso, come se si aspettasse la caduta di un fulmine nelle immediate vicinanze. La voce che aveva pronunciato l’ultima frase era quella di Laj Drai. 7 Roger Wing, età tredici anni, era tutt’altro che stupido. Non aveva alcun dubbio su dove si erano recati il padre e il fratello: anzi, quella loro escursione gli pareva estremamente interessante. Una breve chiacchierata con Edie fu sufficiente per dargli un’idea abbastanza precisa della durata della loro assenza; dieci minuti dopo essere ritornato da Clark Fork con la madre, si era già fatto una chiara idea sulla collocazione della «miniera segreta». In precedenza, quando si era recato laggiù, suo padre era sempre rimasto assente per vari giorni. «Quella miniera, Edie, deve trovarsi entro una quindicina di chilometri dalla casa, in linea d’aria.» I due stavano dando da mangiare ai cavalli, e Roger, prima di parlare con la sorella, si era assicurato che i bambini più piccoli fossero occupati da qualche altra parte. «Ho parlato con Don per un paio di minuti, e ho capito benissimo che papà voleva mostrargli la miniera. Voglio vederla anch’io, prima che finisca l’estate. E ci riuscirò; sono pronto a scommetterlo.» «Sei sicuro che sia giusto farlo?» domandò la sorella. «Dopotutto, se papà volesse farcela conoscere, ci porterebbe lui.» «Non ha importanza. Ho il diritto di conoscere tutto quello che riesco a scoprire. Per di più, il nostro lavoro di sorveglianza può svolgersi meglio, se conosciamo il posto che dobbiamo sorvegliare.» «Be… non so.» «Inoltre, sai anche tu che papà, certe volte, predispone appositamente le cose in un certo modo, proprio perché vuole che noi le scopriamo da soli. E quando tutto è finito, ci dice che l’ha fatto per vedere se avevamo il cervello. Ricorda che non ci ha mai proibito di cercare la miniera: ci ha soltanto promesso che ce l’avrebbe mostrata lui a tempo debito. Cosa ne dici?» «Non so. Cosa intendi fare, esattamente? Se cercherai di seguire papà, ti scoprirà in quattro e quattr’otto.» «È quello che pensi tu. Comunque, non intendo certamente seguirlo. Intendo precederlo. Uscirò per primo, domattina, e cercherò eventuali tracce che possono avere lasciato. Poi, la prossima volta che partiranno, li aspetterò dove finiscono le tracce, e continuerò da lì. La cosa funzionerà, ne sono certo!» «E chi si occuperà della sorveglianza?» «Oh, ce ne occuperemo noi due, come le altre volte. La mia ricerca non durerà molto. E poi, come ti ho detto, visto che controllerò il cammino preso da loro, la sorveglianza mi darà più soddisfazione dei nostri regolari giri di ispezione. Sei d’accordo?» Edie non pareva molto convinta, e invece di rispondere si dedicò al suo compito, consistente nel chiudere la porta della stalla. Più tardi, mentre si dirigevano nuovamente verso la casa, pronunciò il suo giudizio. «Probabilmente, riuscirai a farla franca» disse. «Ma dovrai sfoderare tutta la tua parlantina.» Ventiquattr’ore più tardi, Roger si chiedeva se fosse ancora necessario fornire giustificazioni. Le cose non si erano svolte come nelle sue previsioni, che erano risultate troppo semplicistiche. Per prima cosa, non era riuscito a seguire le tracce lasciate dal padre e dal fratello la volta precedente, perché i due erano partiti prestissimo. Inoltre non avevano seguito il tragitto del giorno prima, bensì quello che Wing padre aveva sempre seguito nel corso degli anni: il tragitto a zigzag che permetteva ai figli di venire ad avvertirlo, passando per le scorciatoie, nel caso che qualcuno lo seguisse. Roger ed Edith avevano un elenco di postazioni da sorvegliare per un’ora dopo il passaggio dei due uomini; poi dovevano prendere la scorciatoia e raggiungere padre e fratello per fare rapporto, anche nel caso che non avessero visto nessuno. Per un attimo, Roger fissò con sospetto la sorella, quando il padre diede loro queste consegne, ma poi si disse che non poteva certamente averlo tradito. Suo padre, semplicemente, era un passo avanti a lui. Come sempre. Una buona parte del mattino era già passata, quando fece il suo primo rapporto e osservò le figure del padre e del fratello scomparire verso nord. Non era questa la direzione in cui si erano avviati il giorno prima, a dare retta a Edith; adesso il problema era che forse avevano voluto lasciare una falsa traccia anche il giorno prima. L’unico modo per accertarsene era quello di mettersi a cercare le loro tracce. Era una ricerca che poteva dare i suoi frutti; come lo stesso Roger aveva detto a suo padre nel ricevere le consegne della giornata, c’erano dei posti dove non si poteva passare senza lasciare tracce e se uno intendeva evitarli, i percorsi che rimanevano a disposizione erano alquanto limitati. Nonostante questo, a mezzogiorno il ragazzo era giunto alla conclusione che o lui conosceva meno del previsto l’arte di trovare le tracce, o le due persone da lui cercate erano rimaste a dormire in soffitta per il resto della mattinata. Dopo avere pranzato, abbandonò la precedente linea di ricerca e si limitò a dirigersi verso est. La sorella gli aveva detto che il giorno prima avevano preso quella direzione, e c’era la remota possibilità che avessero lasciato da parte ogni precauzione, almeno una volta. Proseguì senza soste fino a metà del pomeriggio, seguendo quelli che gli parvero sentieri naturali, e quando alla fine si fermò, era a una decina di chilometri da casa. Si trovava in una valle, al cui centro scorreva, come al solito, un ruscello rumoroso. I monti che costituivano le pareti della valle erano alti, ma meno di altri che si potevano trovare nella zona: in quella parte della catena, non erano poche le cime che raggiungevano i duemila metri. Non era mai stato in quel luogo, né da solo né accompagnato dal padre, ma era convinto di sapere con buona approssimazione dove si trovasse in quel momento. La sua massima preoccupazione stava nel fatto che non aveva ancora trovato nessuna traccia del padre e del fratello. Giunto a quel punto, aveva intenzione di ritornare a casa seguendo un percorso a zigzag, in modo da coprire quanto più terreno possibile prima che facesse buio. Con il primo tratto di percorso, si disse, poteva salire sulla cima della collinetta che sorgeva a sud della sua presente posizione, perché così facendo avrebbe tagliato ogni possibile sentiero che passava su quel fianco della valle. Una volta raggiunta la cima, poteva decidere se scendere subito oppure se dirigersi per un breve tratto a ovest prima di ritornare verso nord. Comunque, non ebbe mai bisogno di prendere questa decisione. Naturalmente, Roger Wing non era quel competente cercatore di tracce che credeva di essere. In realtà aveva già incontrato quattro volte, nel corso della giornata, le tracce da lui cercate con tanta diligenza. La sua posizione attuale era ai piedi del monte dove si poteva incontrare la frana attraversata dai due «minatori» il giorno prima, a poco più di un chilometro dal radiofaro dei sarriani. Proseguendo nella direzione lungo la quale si era incamminato, e salendo sul fianco della montagna, quel tragitto lo avrebbe condotto a pochi metri di distanza dal trasmettitore. Comunque, non arrivò fino all’apparecchiatura dei sarriani. Donald aveva detto la verità, quando aveva affermato che nessuno poteva attraversare quel mucchio di pietrisco senza lasciare tracce. Roger non riconobbe le tracce lasciate dal padre e dal fratello all’andata, ma scorse il punto dove il fratello, durante il ritorno, si era aperto la strada in mezzo a una fitta macchia di arbusti, sulla parte più alta dello smottamento. Si era trattato di una disattenzione da parte del fratello maggiore, naturalmente; in quel momento pensava soltanto a cercare le tracce lasciate da eventuali inseguitori, e non aveva badato a quelle che lui stesso stava lasciando. E anche se i rami rotti non gli davano alcun indizio sull’identità della persona che era passata in mezzo agli arbusti, essi però indicavano a Roger con chiarezza la direzione seguita; il ragazzo si affrettò a dirigersi a ovest. Se si fosse soffermato a ragionare per un istante, gli sarebbe certo venuto in mente che quella direzione non si accordava con la sua ipotesi che il padre e il fratello si fossero diretti alla «miniera» per la strada più breve; ma in quel momento non ragionava. In quel momento seguiva una pista. Una volta usciti dalla macchia di arbusti, la pista non era né più chiara né meno chiara di quanto lo era stata fino a quel momento; ma Roger riuscì a seguirla senza difficoltà. Forse, a dargli la sicurezza delle sue azioni, stava il fatto di avere trovato davvero una pista. Non era ancora in grado di capire se le tracce erano state lasciate dal fratello, dal padre, o da tutti e due. Non riuscì neppure ad accorgersi che, a un certo punto, padre e fratello si erano ricongiunti dopo avere esaminato i due lati dello smottamento. Si limitò a proseguire, orientandosi grazie alle impronte che scorgeva, di tanto in tanto, sul tappeto di aghi di pino, e grazie a qualche ramo rotto che incontrava dove i cespugli erano più fitti. Discese lungo il fianco occidentale del monte, dopo averne percorso gran parte del perimetro, a partire dal punto dove aveva trovato la prima traccia. Attraversò la stretta valle che trovò al di là di quel monte, e non ebbe difficoltà a saltare sull’altra sponda del ruscello che, com’era inevitabile, scorreva in fondo alla valle stessa. E laggiù trovò la prova che le tracce da lui seguite erano state davvero lasciate da due persone, giacché sull’argine c’erano due distinte serie di impronte, lasciate da qualcuno che aveva fatto un salto come il suo. Erano solo delle piccole depressioni, perché sugli aghi di pino non erano rimaste vere e proprie impronte di suole, ma ce n’erano quattro: erano disposte a coppie, e in ciascuna coppia, ovviamente, ce n’era una che era molto più profonda dell’altra, poiché chi fa un simile salto tocca terra prima con un piede e poi con l’altro. Di conseguenza, il ragazzo risalì il fianco della valle che gli stava di fronte. Ormai era sceso il buio, sotto gli alberi, perché il sole era già calato al di là della vetta che gli stava davanti; e dopo qualche tempo Roger cominciò a chiedersi se davvero stesse seguendo la pista giusta. Si fermò, si guardò attorno, e, prima da una parte, poi dall’altra, vide tracce uguali a quelle che aveva seguito fino a quel momento. Perse subito la certezza che quelle davanti a lui fossero quelle giuste. Cercò di proseguire, ma cominciò a essere preso dai dubbi. Ritornò sui propri passi, e raggiunse il ruscello, ma a vari metri di distanza dal punto dove aveva trovato le impronte. Perse alcuni minuti a cercarle, e quando le ritrovò comprese che non riusciva a seguire con esattezza neppure le proprie tracce. Naturalmente, a quel punto avrebbe fatto meglio a tornarsene a casa di gran carriera. E, naturalmente, Roger non fece niente di simile. Mentre l’ombra continuava ad addensarsi sul fianco dei monti rivolto a est, Roger continuò a cercare altre tracce. Ogni cinque o sei minuti trovava qualcosa, e gli occorreva un po di tempo per decidere se era il caso di seguire la nuova direzione. E, dopo averla seguita, ogni volta trovava qualcosa d’altro. Pian piano, salì sempre più in alto, e alla fine si trovò sulla roccia nuda; a questo punto, dopo una breve riflessione, passò sull’altro versante della collina, dove c’era più luce, e riprese la sua ricerca. Dopotutto, si disse, i due uomini di cui seguiva le tracce si erano diretti a ovest. Attraversò un’altra valle… questa volta. Il ruscello che stava al centro era asciutto, e non c’erano impronte di qualcuno che avesse fatto il salto… Giunse a poca distanza dalla cima di una collinetta più bassa delle altre, posta sull’altro lato, quando si rese finalmente conto che era tardi. Per tutto il giorno aveva continuato a cercare tracce con una sorta di monomania che gli aveva perfino impedito di sentire la fame. A costringerlo a pensare ad altro era adesso l’impossibilità di vedere i particolari del terreno dopo il tramonto del sole. Ricordò di non avere una lampada portatile, poiché non aveva previsto di rimanere fuori fino a quell’ora. Peggio ancora, non aveva cibo, non aveva acqua, e non aveva coperte. Il cibo e l’acqua erano dimenticanze gravi; o, almeno, erano destinate a diventarlo non appena suo padre avesse saputo che lui si era allontanato nei boschi senza portare con sé qualche provvista. E all’improvviso, nel veder luccicare le prime stelle nei fazzoletti di cielo sempre più blu incorniciati fra le cime degli alberi, si fece strada in lui la convinzione di non essere Daniel Boone né Kit Carson. Lui era solo un tredicenne che, per la sua sbadataggine, si era messo in una situazione che presto sarebbe diventata sgradevole, e che rischiava di nascondere dei pericoli. Roger era un po avventato, ma non era sciocco. Una volta compresa la situazione, il suo primo impulso non fu quello di correre verso casa a rotta di collo. Fece la cosa più sensata: rimase dove si trovava, e cercò di studiare un piano d’azione. La notte era certamente fredda, sulla montagna. Lui non poteva farci niente, ma, in ogni caso, un riparo di rami di pino poteva essergli utile. Inoltre non c’era cibo, o, almeno, cibo che potesse trovare al buio. L’acqua, però, poteva trovarla; e, dopotutto, era la sua principale necessità. Ricordando che il torrente della valle da lui attraversata era asciutto, il ragazzo raggiunse la cima della bassa collinetta davanti a lui, e passò dall’altra parte. Cominciò a scendere, e dovette procedere a tentoni, prima di raggiungere il fondo, perché gli ultimi chiarori del crepuscolo non riuscivano a vincere l’oscurità che regnava sotto le conifere. Come sperava, trovò un ruscello: in parte grazie al rumore dell’acqua corrente, in parte perché per poco non cadde dall’argine. Aveva con sé il coltello, e con esso tagliò una certa quantità di rami di pino: quanto bastava per farsi un giaciglio accanto al ruscello, dietro un tronco caduto che gli serviva come tetto. Sapeva che doveva interrompere la circolazione d’aria attorno al suo corpo. Poi si recò a bere, si slacciò la cintura, e s’infilò nel suo rozzo riparo. Tutto considerato, si addormentò quasi subito. Era un ragazzo sano, e la notte non era particolarmente fredda. Dormiva profondamente, e il rumore dei rami spezzati non riuscì a svegliarlo: non ci riuscì neppure il sonoro crepitio che fece la sonda di Ken quando si posò sulle piante del sottobosco, a una quarantina di metri di distanza. Roger si limitò a mormorare qualche parola nel sonno e a voltarsi dall’altra parte. Ma alla fine venne svegliato dal tipo di avvenimento che è capace di spingere a una frenetica attività chiunque abiti in una foresta. Il portello del vano di carico della sonda si trovava dalla parte del ragazzo. La luce proveniente dalla combustione del sodio e dalla fusione dell’oro e del ferro non lo disturbò affatto: forse gli fece fare soltanto un brutto sogno, o forse, in quei momenti, il ragazzo era voltato dall’altra parte. La luce accecante del magnesio, però, lo colpì in pieno sulle palpebre. Prima ancora di essere del tutto sveglio, si trovò in piedi, a gridare «al fuoco!». Il ragazzo conosceva bene i danni prodotti dagli incendi boschivi. L’estate precedente, a nord del Traghetto di Bonner, ce n’era stato uno di tremila ettari, e un secondo, meno esteso, ma molto più vicino, nei pressi di Troy. Roger sapeva che cosa comportava, una simile catastrofe, per le forme di vita che incontrava sul suo cammino, e per qualche secondo rimase totalmente immobilizzato dal panico. Fece addirittura un balzo per allontanarsi dal bagliore, e ritornò in sé quando si sentì cadere a terra: era inciampato nel tronco accanto a cui si era messo a dormire. Si rimise in piedi con più calma, e si accorse che la luce che lo aveva svegliato non era quella rossastra e tremolante del legno incendiato, che non si udivano i ruggiti e gli scricchiolii che aveva sentito descrivere molte volte, e che non c’era odore di fumo. Non aveva mai visto bruciare il magnesio, ma il semplice fatto che non si trattasse di uno dei soliti incendi boschivi diede di nuovo esca alla sua curiosità. La luminosità era sufficiente a permettergli di oltrepassare senza difficoltà il piccolo rivo, e in pochi secondi Roger attraversò il sottobosco e giunse all’origine della luce. Mentre si avvicinava, cominciò a gridare: «Ehi! Chi è là? Che cos’è quella luce?» Il rombo di tuono con cui gli rispose Sallman Ken lo riempì di spavento. Il diaframma vocale collocato sul torso dei sarriani assomiglia a un tamburo e può imitare gran parte dei suoni della voce umana, ma li imita con una distorsione che viene immediatamente percepita dall’orecchio dell’uomo; al ragazzo si accapponò la pelle nel sentir ripetere con quel timbro soprannaturale le parole da lui pronunciate. Anzi, il fatto di potere riconoscere in quella voce tonante le sue stesse parole peggiorava addirittura la cosa. Si fermò a un paio di metri dalla sonda, perplesso. L’abbagliante luce biancazzurra proveniente dall’apertura rettangolare era bruscamente cessata al suo avvicinarsi, ed era stata rimpiazzata dal lucore giallastro del crogiolo in cui era contenuto il magnesio, che si stava lentamente raffreddando. Roger riusciva a vedere cosa c’era al di là del portello. C’era un unico, grande vano, che occupava gran parte di quella porzione della misteriosa struttura, a quanto poteva vedere nell’oscurità che gli impediva di scorgerne con esattezza i bordi, e il fondo era pieno di forme approssimativamente cilindriche, poco più grandi del suo pugno. Una di queste era l’origine della luminosità che gli permetteva di scorgere quei particolari, e da almeno altre due si irradiava una luce rossastra. Roger era giunto a questo punto delle sue considerazioni, quando Ken cominciò a leggere il suo elenco di metalli preziosi. Roger, naturalmente, sapeva che cos’erano il platino e l’iridio, anche se la parola «platino» non si prestava molto bene a essere pronunciata dall’apparato vocale sarriano; ma, come la maggior parte degli esseri umani, fu la menzione dell’oro a eccitarlo più di ogni altra cosa. Ripeté immediatamente la parola. «Oro!» «Oro» rispose la voce tonante che giungeva dalla sonda, e Roger, facendosi coraggio, si avvicinò al portello da cui usciva ancora una vampa di calore, e guardò all’interno. Come gli era parso in precedenza, i piccoli crogioli cilindrici erano dappertutto. Il vano era coperto di polvere bianca: gli ossidi di titanio e di magnesio usciti dai contenitori durante le vivaci reazioni chimiche che li avevano prodotti. Altrettanto diffusi erano i piccoli globuli giallastri di perossido di sodio. Il calore che giungeva dall’interno del vano era notevole, ed era accompagnato da un debole odore di solfo, ma quando Roger provò con cautela a toccare col dito la polvere caduta sul fondo, si accorse che la temperatura era sopportabile. Vide quasi subito l’oggetto di cui aveva parlato la voce all’altoparlante: l’oro, che si era già solidificato nel suo piccolo contenitore. La luce era sufficiente a permettergli di riconoscerlo, anche perché non c’era niente, all’interno del vano, che avesse anche solo approssimativamente un colore simile al suo. Il ragazzo passò subito all’azione, ma con maggiore accortezza di quanto si potesse pensare. Mise a buon profitto un ramo secco che aveva raccolto da terra quando si era avvicinato: il portello del vano gli sembrava una sorta di trappola, e usò il bastone per tenerlo spalancato. Poi afferrò il vaso dell’oro. Non aveva visto i fili di collegamento tra il riscaldatore e la fonte di alimentazione della sonda. E. dopo avere toccato il crogiolo, non si preoccupò certo di guardarli, anche se erano l’unico motivo che gli aveva impedito di portare via il contenitore. Ebbe il tempo di dare un solo forte strattone, prima di accorgersi che scottava. Roger, con la faccia infilata all’interno del vano, lanciò un urlo ancora più forte dei precedenti, lasciò cadere il crogiolo, mollò un calcio rabbioso contro la superficie della sonda, e cominciò a saltellare, tenendosi la mano scottata e gridando improperi all’indirizzo delle ignote creature che erano responsabili della sua ustione. Non si accorse che il bastone da lui usato per tenerlo aperto si spezzò bruscamente quando il portello cominciò a chiudersi, e non notò il tonfo, quando il portello si incastrò contro i frammenti di legno. La brusca scomparsa della luce richiamò però la sua attenzione, e quando il portello si riaprì, Roger comprese cos’era successo. Senza sapere perché lo facesse, spazzò via i pezzi, con la mano sana, e un istante più tardi si trovò nuovamente nell’oscurità perché il portello si chiuse ermeticamente. Aveva l’inquietante sensazione di essere osservato. Di nuovo echeggiò la voce. Roger riconobbe di nuovo la parola «oro», insieme ad altre che erano troppo distorte per poterle capire. Del resto non aveva tabacco con sé, e certo non ce n’era nella sonda, cosicché non gli venne neppure in mente che potesse trattarsi di quella parola. Non cercò di imitare le parole dal suono misterioso, e dopo qualche istante la voce tacque. Al suo posto si udirono dei suoni più deboli, che non parevano rivolti a lui, anche se avevano la complessità di un discorso. Roger, naturalmente, non si sarebbe espresso in questo modo, ma ebbe la chiara impressione che si trattasse di una conversazione che lui non poteva capire. La conversazione durò a lungo, poi tornò a echeggiare il ritornello di prima: «Oro… tafacco… oro… tafacco!» Alla fine, la cosa cominciò a dargli sui nervi, e Roger si mise a gridare contro lo scafo scuro. «Non so cosa volete dire, maledetto voi! Che mi venga un accidente se ho intenzione di toccare di nuovo il vostro oro, e non capisco le altre parole che dite. State zitto!» Mollò un altro calcio allo scafo, per sottolineare le sue convinzioni, e rimase assai sorpreso quando la voce tacque. Indietreggiò di alcuni passi, chiedendosi cosa stesse succedendo. E fu un bene che si fosse spostato. Un istante più tardi, senza alcun rumore che desse il preavviso, la forma scura della sonda scattò verso l’alto, s’infilò tra le fronde che sporgevano al di sopra di essa, e svanì nel cielo scuro, con un fischio di aria lacerata. Per alcuni minuti, il ragazzo rimase fermo dov’era, con la testa sollevata, intento a fissare il varco che si era aperto in mezzo ai rami; ma non ebbe alcun premio per le sue fatiche, a parte la vista delle stelle. Roger Wing dormì poco, quella notte, e il fatto di essere finito con i piedi nell’acqua mentre cercava il suo riparo fu soltanto una delle ragioni. 8 «No, non è quello il problema principale» ripeté Laj Drai, pensoso, mentre entrava nel laboratorio e si chiudeva distrattamente la porta alle spalle. «Signore, io…» cominciò Feth, ma le sue scuse terminarono lì. «No, non badate a me. Continuate, Ken… vedo che avete un problema. Cercate di risolverlo, e poi ci prenderemo cura dell’altro. Non ci saranno interruzioni.» Un po perplesso, perché si era completamente dimenticato delle minacce di Drai, Ken ritornò al microfono e riprese la sua cantilena. Anche se non capì le parole con cui Roger infine lo interruppe, la cosa era andata tanto per le lunghe che anche lui condivideva l’impazienza del ragazzo. Inoltre, il rumore che udì quando il ragazzo assestò una pedata alla sonda era assai indicativo. Fu Drai a far decollare la sonda, un attimo più tardi. Anche lui non aveva mai udito quelle parole; ma erano alquanto diverse dalle solite conversazioni umane: talmente diverse da fargli venire i brividi. Non riusciva a concepire l’idea che i suoi rapporti con il Pianeta Tre s’interrompessero o divenissero tesi… la creatura era chiaramente eccitata, e probabilmente in collera. Quel colpo sullo scafo della sonda… Pensando a questo, Drai fece guizzare un tentacolo verso il quadro dei comandi, sfiorando Sallman Ken: le leve di controllo dell’alimentazione e del motore scattarono contemporaneamente. Dal suo posto sulla spalliera, l’investigatore si voltò lentamente verso il suo datore di lavoro e lo fissò incuriosito. «Mi sembrate altrettanto eccitato quanto l’indigeno. Cos’è successo?» domandò. Laj trasse un profondo respiro, e infine riuscì a controllare la propria voce. Cominciava ad accorgersi che quel suo ingresso, così teatrale, poteva non essere stata la più saggia delle mosse. Era possibile che l’esperto da lui recentemente assunto avesse appreso in modo del tutto innocente il nome del prodotto che giungeva dalla Terra; e se le cose stavano così, era pericoloso dare troppa importanza all’accaduto. Almeno in pubblico. Fece dunque retromarcia, con tutta l’indifferenza possibile. «A quanto vedo» disse «le vostre analisi chimiche hanno incontrato delle difficoltà.» «Lo credo anch’io. A quanto pare, i vostri indigeni non hanno le abitudini completamente diurne che mi avevate detto.» Ken non era partito con l’intenzione di difendere le proprie azioni, ma non poteva venirgli in mente risposta migliore. Laj Drai si soffermò per un istante a riflettere. «Sì» disse infine «è un punto che mi sorprende leggermente. Per vent’anni non hanno mai fatto segnali, se non durante il loro periodo diurno. Mi chiedo se c’entrino gli abitanti delle distese azzurre, ma non riesco a immaginarne il modo, e neppure il motivo. Siete riuscito a eseguire i vostri test?» «I più importanti, credo. Dovremo riportare la sonda qui alla base, per vedere che cosa è successo ai miei campioni in quell’atmosfera. Alcuni campioni sono bruciati, lo sappiamo già, ma vorrei conoscere i loro prodotti di combustione.» «Naturalmente» disse Drai «non saranno solfuri. Uno pensa sempre ai solfuri, quando si parla di prodotti della combustione.» «Perché ci siano dei solfuri» disse Ken «dovrebbero esserci in sospensione nell’atmosfera grandi quantità di polvere di solfo ghiacciata. Non avevo pensato a questo possibile aspetto… controllerò i campioni, quando la sonda sarà rientrata. A dire il vero, i risultati finora ottenuti mi preoccupano un poco. Non so quale possa essere il composto chimico che riesce a sostenere una combustione e che a così bassa temperatura è ancora allo stato gassoso, eppure laggiù c’è qualcosa che brucia con i nostri composti.» «Che ne dite del fluoro?» fece Drai, andando a ripescare vecchi ricordi di qualche corso di chimica elementare. «Potrebbe essere, ma come spiegare la sua presenza nell’atmosfera allo stato libero? Il fluoro mi sembra troppo attivo, perfino a quella bassa temperatura. Mi pare comunque che si possa fare lo stesso discorso per ogni altra sostanza capace di alimentare una combustione, e posso solo aspettare il ritorno della sonda con i campioni. Vi confesso che sono quasi tentato di scendere sul pianeta, nonostante il pericolo, per vedere di persona l’aspetto di quel luogo.» Drai gli rivolse l’equivalente di un’alzata di spalle. «Se voi e Feth riuscirete a trovare il modo di farlo, non sarò io a proibirvelo. Anzi, potrebbe essere un’iniziativa altamente meritoria. Bene» riprese poi «occorreranno tre giorni perché rientri la sonda, e in questo periodo non ci sarà molto da fare. Feth si occuperà di agganciare la sonda sul raggio quando sarà abbastanza lontana dal pianeta.» Ken interpretò queste parole come un invito ad allontanarsi, e uscì nel corridoio, dove cominciò a vagabondare senza meta. Doveva riflettere su alcuni suoi problemi che aveva rimandato fino a quel momento. Come aveva detto Drai, non si poteva fare nient’altro, relativamente al Pianeta Tre, fino al rientro della sonda, e lui non aveva più scuse per non pensare alla missione affidatagli da Rade. Il prodotto che si ricavava dal pianeta veniva chiamato «tafacco». Questa, se non altro, era già una prima informazione. Rade non conosceva il nome del narcotico da lui cercato, e forse quell’informazione poteva essere utile. Il sistema planetario in cui si trovavano era relativamente vicino a Sarr. Altra informazione che forse poteva essere utile. Le precauzioni adottate da Drai e i suoi compagni per nascondere il fatto che i due sistemi erano abbastanza vicini potevano essere considerate ragionevoli, forse, nel caso si fosse trattato di un’impresa commerciale ai limiti della legalità, ma erano la routine nel caso di un’attività palesemente criminale come lo spaccio della droga. Il Pianeta Tre era freddo… termine che dava solo una pallida idea della situazione.. e la droga cercata da Rade non resisteva a temperatura ordinaria. Ken non era certo al cento per cento che ci fosse un collegamento tra le due cose, ma propendeva per il sì, a causa della tacita ammissione di Drai che il «tafacco» era un prodotto di origine vegetale. Per quanto ci pensasse, non riuscì a farsi venire in mente altri particolari che potessero essere utili a Rade. Del resto, Ken era un po scocciato di essere stato coinvolto in quella faccenda dal capo della squadra narcotici, e, diversamente da un normale poliziotto, aveva la tentazione di limitarsi agli aspetti puramente ecologici e astronomici del problema che gli stava davanti. E cosa dire del suo gelido Pianeta Tre? Certamente era abitato: una realtà che già di per se stessa pareva frutto di fantasia. E certamente non era conosciuto; nessun trasmettitore video, nessuna na vicella con equipaggio erano mai scesi sulla sua superficie. La cosa sembrava un po strana, ora che Ken ci pensava più attentamente. Il freddo era spaventoso, certo, e l’atmosfera assorbiva il calore da un corpo, diversamente dallo spazio che non lo assorbiva, ma lui non riusciva a convincersi che un buon ingegnere non fosse in grado di progettare un apparecchio capace di effettuare la discesa. Feth era più un meccanico che un ingegnere, naturalmente; ma era un po strano che quell’organizzazione fosse così sprovvista di scienziati competenti. Questa mancanza era resa ancor più evidente dal fatto che avevano dovuto assumere uno come lui. Forse era proprio l’organizzazione cercata da Rade. Di sicuro ogni organizzazione commerciale interstellare regolare aveva la propria squadra ecologica: non poteva farne senza, viste le strane situazioni che sorgevano, a esempio, quando il pianeta Sarr, ricco di metalli, commerciava con i maghi della chimica di Rehagh. che erano degli anfibi. Eppure, Laj Drai era riuscito ad avere soltanto lui, Sallman Ken, un praticone della scienza! La cosa non era soltanto strana: era assurda. Si chiese come Drai fosse riuscito, anche solo per un momento, a fargliela sembrare plausibile. Comunque, se non avesse scoperto niente, non se la sarebbero presa con lui. Era in grado di esaminare il Pianeta Tre in modo completo, ed era disposto a farlo; poi sarebbe tornato a casa, avrebbe passato a Rade le sue informazioni, e il capo della squadra narcotici ne avrebbe fatto l’uso più opportuno. Il Pianeta Tre era più interessante. Come scendere su quel mondo inospitale? Anche lui era d’accordo sul fatto che era meglio tenere lontano dall’atmosfera le navi di maggiore dimensione, dopo gli inconvenienti con gli indigeni delle zone pianeggianti azzurre. Però le sonde scendevano sul pianeta da vent’anni senza difficoltà, e l’unica attività degli abitanti delle pianure che era stata osservata erano i raggi radar rilevati negli ultimi due o tre anni. E si riusciva facilmente a ingannarli con coperture da un quarto d’onda, come gli aveva detto Drai. No, l’unico reale pericolo veniva dalle spaventose condizioni naturali del pianeta. Bene, una normale tuta corazzata da ingegnere permetteva a un sarriano di lavorare per un periodo abbastanza lungo in un lago di alluminio fuso. Nell’alluminio, ovviamente, la differenza di temperatura era inferiore a quella che si incontrava sul Pianeta dei Ghiacci, ma la conduzione del calore, nel metallo, era superiore a quella nell’atmosfera, e compensava la differenza. E se non la compensava, si potevano aumentare le piastre di riscaldamento della tuta, o migliorare il suo isolamento, o tutt’e due le cose. Perché non lo avevano mai fatto? Si ripromise di chiederlo a Feth o a Laj Drai. Poi, ammesso per un momento che non si potesse scendere sul pianeta neppure in questo modo, perché non si poteva usare la televisione? Ken non riusciva a credere che il vetro sottile del tubo di ripresa di una telecamera non si lasciasse raffreddare senza rompersi fino a raggiungere la temperatura che regnava sul pianeta, anche se occorreva mantenere a normale temperatura le parti elettriche. La differenza di temperatura non poteva essere superiore a quella che c’era negli antichi tubi a incandescenza! Si ripromise di chiedere chiarimenti a Feth su entrambi i punti. Stava ritornando al laboratorio per farlo, quando incontrò Drai, che lo salutò come se quel giorno non fosse successo niente di particolare. «Feth ha agganciato la vostra sonda al raggio principale, e per quasi tre giorni non ci sarà bisogno di controllarla» disse. «Questo nel caso che intendeste recarvi a sorvegliare il quadro di comando.» «Volevo parlare con Feth» spiegò Ken. «Ho riflettuto sul problema di procurarci una tuta e un equipaggiamento capaci di resistere alle condizioni del Pianeta Tre, e penso che si possa trovare una soluzione.» E riferì al suo datore di lavoro una versione purgata e ridotta delle sue riflessioni. «Non so» disse infine Laj Drai, quando lo ebbe ascoltato. «Dovete parlarne con Feth, come già pensavate di fare. Abbiamo già provato a fare tutte queste cose nel periodo passato da quando Feth si è unito a noi, e le apparecchiature televisive si sono sempre guastate come da lui previsto. Non era con noi, invece, durante la prima spedizione, che non ha effettuato alcuna ricerca, a parte quelle di cui vi ho parlato. Quella prima spedizione era in realtà una crociera per diporto, e se a bordo erano disponibili tante sonde, era per il solo motivo che il proprietario della nave amava fare le sue osservazioni in tutta tranquillità: quando entrava in un sistema planetario, ne mandava fuori dieci alla volta, e teneva in orbita la Karella finché non trovava qualcosa che desiderava vedere o toccare personalmente.» «L’ho già conosciuto?» domandò Ken. «No… è morto vari anni fa. Era già vecchio quando abbiamo scoperto questo posto. Io ho ereditato la nave e ho dato inizio all’attuale commercio.» «E Feth, quando si è unito a voi?» «Un anno o due dopo l’inizio… tra tutto il personale, è quello con la massima anzianità. Lui potrà spiegarvi ogni cosa, per ciò che riguarda i nostri guai di ordine tecnico, mentre io non ne sarei capace. Fareste meglio a parlarne con lui, ammesso che abbia voglia di chiacchierare.» Senza spiegare questo commento conclusivo, Drai sparì lungo il corridoio. Ken non diede molta importanza alle parole di Drai; si era già accorto che Feth non era certo una persona loquace. Il meccanico non pareva avere molto da fare, in quel momento. Era ancora disteso sulla spalliera posta davanti ai comandi della sonda, e sembrava sprofondato nei propri pensieri. Si alzò quando Ken entrò nella stanza, ma non disse niente, e si limitò a fargli un cenno di saluto con la testa. Non notando niente di inconsueto nel suo comportamento, Ken cominciò subito a esporgli le sue idee. Feth lo lasciò finire senza interromperlo. «Le vostre osservazioni mi sembrano giuste» ammise poi, quando Ken ebbe finito «e certo non sarei in grado di spiegare perché le cose non funzionano come dovrebbero. Posso solo dire che, nonostante tutto, quei tubi si rompono. Se volete far atterrare sul pianeta un’armatura piena di termometri e di manometri, io non ho niente in contrario, ma penso che vorrete scusare il mio pessimismo. Ho già rovinato un mucchio di ottime attrezzature video in quell’atmosfera.» «Certo, ammetto che la vostra esperienza è superiore alla mia» rispose Ken «ma credo che valga la pena di provare.» «Se gli strumenti ci danno dei valori accettabili, chi scende poi giù con l’armatura, la volta dopo? Al solo pensiero mi sento irrigidire le ginocchia. È un’idea che mi mette paura, e non ho esitazioni a confessarlo.» «L’idea mette paura anche a me.» A Ken ritornarono in mente le emozioni incontrollabili che si erano impadronite di lui quando aveva visto per la prima volta il Pianeta Tre. «È un luogo spaventoso, non c’è dubbio, ma vorrei sapere lo stesso come stanno le cose laggiù, e per saperlo sono anche disposto a rischiare.» «Rischiare… uh! Diventerete il vostro monumento alla memoria nel giro di cinque secondi, una volta che si sarà fatto nella tuta il primo forellino» replicò il meccanico. «Mi sembra addirittura un’eresia spedire laggiù dei buoni strumenti, anche se so che possono resistere alla temperatura. D’accordo, vi preparerò una tuta corazzata, se avete davvero intenzione di provare. Ci sono sonde a sufficienza.» «Come pensate di infilarla nella sonda? Nel vano di carico non c’è spazio sufficiente.» «No, non nel vano» rispose il meccanico. «Ci sono degli anelli sullo scafo, e possiamo legare la tuta agli anelli. Basta fare attenzione, e attraversare più lentamente l’atmosfera.» Scivolò fino al fondo del laboratorio, e apri un armadietto. Dal suo interno, prelevò una delle tanto discusse tute corazzate. Anche alla ridotta gravità di Mercurio, la tuta era difficile da spostare. A causa delle peculiari caratteristiche della struttura fisica sarriana, dall’interno della tuta ci si poteva muovere agevolmente; ma pur essendo al corrente di questo particolare, Ken si chiese come avrebbe fatto a muoversi, una volta raggiunta la superficie del massiccio Pianeta Tre in quel mostro di metallo, con una gravità che era circa il quadruplo di quella attuale. Questo pensiero destò in lui una curiosità. «Feth, secondo voi, che razza di chimica organica possono avere quegli indigeni? Riescono a muoversi… almeno, noi pensiamo che riescano a farlo… sotto una gravità assai elevata, in condizioni di temperatura che congelerebbero qualsiasi materiale organico. Avete mai pensato a questo particolare?» Il meccanico rimase in silenzio per qualche istante, come per riflettere sulla risposta da dargli. «Sì» disse alla fine. «Ammetto di averci pensato. Ma non ho molta voglia di parlarne.» «Perché? Quel posto non può essere così repellente.» «Non si tratta di questo. Ricordate le minacce di Drai? Ricordate cosa ha promesso di fare a chi vi fornisce delle informazioni sulla merce che otteniamo dal pianeta?» «Sì, vagamente. Ma cosa c’entra?» «Forse non c’entra, forse c’entra. Se l’è avuta a male perché vi ho detto il nome della merce. E non ve lo avrei detto, se ci avessi pensato un attimo. La situazione pareva richiedere una risposta rapida, e io ve l’ho data.» «Ma le vostre idee sulla biochimica degli indigeni» disse Ken «non possono rivelare niente di segreto… o forse possono rivelarlo, già. Comunque, Drai sa benissimo che non ho mai lavorato per un’altra compagnia commerciale, e che non ho interessi commerciali personali… perché dunque continua a trattarmi come una possibile spia? Non ho nessun interesse per la vostra merce: a me interessa il pianeta.» «Non ne ho alcun dubbio. Tuttavia, se dovesse scapparmi di nuovo qualcosa di simile, vi prego di tenere per voi l’informazione. Mi aspettavo una sorta di esplosione nucleare, quando Drai è entrato mentre voi gridavate «tafacco!» al microfono.» «Comunque, non può fare molto.» Era una sorta di domanda; Ken aveva ripreso a ragionare. «Be…» Feth fu molto cauto nel dare la risposta «il padrone è lui, e questo lavoro non è poi così brutto. Consideratelo un favore personale, se non vi dispiace.» Tornò a occuparsi dell’armatura, con un’espressione che indicava che per il momento non aveva più voglia di parlare. Ken non riuscì a ricavare niente di sicuro dalla risposta del meccanico. Non stette ad almanaccarci sopra, però, perché l’altro problema era troppo interessante. Feth era certamente un ottimo meccanico: non aveva niente da invidiare a molti ingegneri conosciuti da Ken. Aveva completamente aperto l’armatura e aveva tolto tutti i portelli della manutenzione, e aveva cominciato il lavoro effettuando una completa ispezione delle parti interne. Compiuta l’ispezione, aveva di nuovo riempito il sistema di riscaldamento a circolazione di zinco, aveva richiuso ermeticamente i portelli, ma aveva lasciato aperta l’armatura. Poi aveva rivolto a Ken uno sguardo interrogativo, e per la prima volta dopo due ore di silenzio, aveva parlato. «Avete qualche idea sulla collocazione degli strumenti? Siete voi che dovete dirmi che cosa volete cercare.» «Be, quello che dobbiamo sapere è se la tuta è effettivamente in grado di mantenere costanti la temperatura e la pressione. Penso che un singolo manometro, in un qualsiasi punto all’interno, e alcuni termometri alle estremità siano sufficienti. Possiamo usare degli strumenti con lettura a distanza, o dobbiamo aspettare il ritorno della tuta?» «Temo che dovremo aspettare» disse il meccanico. «Il problema non sta negli strumenti, che sono facili da installare, ma nel trasmettitore vocale che c’è nella tuta, il quale non può inviarci i loro dati. Posso mettere all’interno della tuta un multiregistratore, collegandolo agli strumenti in modo che registri i loro dati, e far sì che voi possiate accenderli e spegnerli a distanza: mi limiterò a collegarlo a uno dei comandi della tuta. Suppongo che vogliate poter comandare anche i riscaldatori della tuta, vero?» «Sì» rispose Ken. «Se occorresse la piena potenza dei riscaldatori per mantenere una temperatura accettabile, sarebbe meglio saperlo. Suppongo che si potrebbero installare degli altri riscaldatori, se fosse necessario?» «Penso di sì.» Per la prima volta, Feth gli rivolse un’espressione che assomigliava a un sorriso. «Probabilmente potrei montarvi una fornace sotto i piedi, ma non so se riuscireste a camminare.» «Non riuscirei a camminare, ma riuscirei a vedere» disse Ken. «Se il vostro visore non incontrerà gli stessi guai incontrati dai miei tubi televisivi» commentò Feth. «Anche il quarzo ha i suoi limiti.» «No, penso che resista. Comunque, noi non correremo nessun rischio per accertarcene. Procediamo pure, e installiamo quegli strumenti: sono curioso di sapere chi di noi ha ragione. È questo, il registratore?» Prese in un armadio un piccolo apparecchio la cui caratteristica più appariscente era costituita dalle due grosse bobine di nastro magnetico, e lo sollevò per farlo vedere a Feth. Il meccanico gli rivolse un’occhiata. «Ha una sola pista» disse. «Prendete un L-7: lo riconoscerete dal nastro, che è cinque volte più largo. Metto un solo barometro, come dite voi, e colloco i termometri nella testa, nel tronco, in un piede e in una manica, cercando di metterli nei punti più lontani dal centro. Con questa sistemazione, il nastro ha ancora una pista libera, che potete usare come volete.» Il meccanico, mentre parlava, continuava a lavorare: prelevava, da un armadietto ben fornito, alcuni minuscoli strumenti e li fissava nei punti da lui annunciati. Per un attimo, Ken si chiese se l’esistenza di quella abbondante scorta di strumenti non smentisse la sua teoria dell’assenza di conoscenze tecniche; poi comprese che quegli strumenti non erano altro che un assortimento standard da laboratorio, e indicavano soltanto un forte investimento finanziario. Chiunque poteva comprarli, e chiunque poteva usarli. Nonostante l’abilità di Feth, quel lavoro richiese un tempo piuttosto lungo. Dato che erano sarriani, non avevano bisogno di dormire, ma anch’essi di tanto in tanto avevano bisogno di riposare. Fu nel corso di uno di questi periodi di riposo che Ken notò per caso l’indicazione dell’orologio. «Ehi» fece notare al compagno «su quella parte del pianeta deve ormai essere giorno. Mi chiedo se Drai sia già sceso con la sua sonda.» «Probabilmente, sì» rispose Feth, guardando a sua volta l’orologio. «E probabilmente sarà già di nuovo nello spazio: di solito non perde molto tempo.» «In tal caso» fece Ken «c’è il rischio che io venga spellato, se salgo fino all’osservatorio?» Feth lo osservò per qualche istante senza parlare, e Ken si pentì di avergli rivolto la domanda. «Probabilmente spellerebbe me» gli rispose infine il meccanico «se Drai scoprisse che vi ho consigliato di farlo. È preferibile che rimaniate qui. Abbiamo molte cose da fare.» Si alzò e ritornò alla sua attività, anche se il periodo di riposo era appena iniziato. Ken capì che non intendeva dire altro, e si affrettò a unirsi a lui. Il lavoro terminò giusto in tempo. L’armatura superò un test di un’ora, svoltosi nel vuoto della camera di decompressione, per accertare le perdite di pressione e di calore; venne assicurata agli anelli di carico posti sullo scafo di un’altra sonda; partì in direzione dello spazio, guidata dal pilota automatico, e proprio allora la sonda con i campioni cominciò a decelerare nel suo viaggio di ritorno. Nel caso della sonda che portava la tuta corazzata, il pilota automatico era necessario: il secondo missile non poteva essere guidato mediante la radio finché il primo non era rientrato, dato che l’altra unità radio veniva utilizzata da Drai per riportare su Mercurio il suo carico. Tra la partenza della sonda con la tuta e l’arrivo di quella con il laboratorio mobile ci fu il tempo per un breve periodo di riposo; Ken non vedeva l’ora di esaminare i campioni, e infine la sonda, sotto il controllo esperto di Feth, uscì dalla camera di decompressione. Ken intendeva gettarsi subito sui suoi campioni, ma il meccanico gli gridò di fermarsi. «Fermo! Non è fredda come sul Pianeta Tre, ma è perfettamente in grado di congelarvi! Guardate.» Indicò con un tentacolo la superficie lucida della sonda, sulla quale si condensavano gocce di solfo liquido, che si univano tra loro sotto forma di rivoletti che poi precipitavano a terra, dove si ritrasformavano subito in vapore. «Prima, lasciate che si riscaldi.» Ken si fermò, obbediente, e si affrettò a tirarsi indietro sentendosi giungere sui piedi il soffio gelido che proveniva dallo scafo. L’aria che arrivava fino a lui era sopportabile, ma lo scafo stesso doveva essere talmente freddo da solidificare lo zinco. Passarono lunghi minuti prima che il metallo si riscaldasse a sufficienza perché cessasse lo sgocciolio del solfo liquido. Soltanto allora Feth aprì il portello del vano di carico, e il processo di liquefazione del solfo si ripeté. Questa volta, il liquido color paglierino formò una pozza sul fondo del vano di carico, allagando i contenitori e facendo sorgere in Ken seri dubbi sulla purezza dei suoi campioni. L’investigatore accese a bassa potenza tutti i riscaldatori per eliminare in fretta la condensa. Poiché c’era il rischio che il contenuto del vano di carico reagisse con l’aria se la temperatura si fosse alzata troppo, si affrettò a staccare il riscaldamento non appena cessarono il sibilo e il brontolio dell’aria che bolliva; e finalmente fu in grado di esaminare i prodotti delle sue reazioni chimiche. Come avrebbe potuto dirgli Roger Wing, erano davvero qualcosa di sorprendente! 9 Alcuni dei piccoli contenitori erano pieni, e quasi tutti sembravano intatti. Altri, invece, non lo erano affatto. Il loro contenuto era facile da trovare, ma Ken capì che sarebbe stato difficile da analizzare. Una polvere bianca era letteralmente dappertutto, come aveva già constatato Roger. I fiocchi gialli di perossido di sodio diventavano progressivamente più grigi perché si decomponevano a causa del calore. Il crogiolo dell’oro era uscito dalla sua basetta, ma per il resto era immutato; il ferro era diventato nero; sodio, magnesio e titanio erano scomparsi, anche se il residuo contenuto in ogni crogiolo faceva sperare di poter analizzare un po delle polveri. Nel contenitore del carbonio c’era ancora un poco di quella sostanza, ma molto meno di quanta ce n’era in partenza. Tutto questo, comunque, per interessante e importante che fosse, richiamò soltanto per pochi istanti l’attenzione di Feth e di Ken; poiché all’interno del portello di carico, impressa chiaramente sullo strato di polvere, c’era un’impronta completamente diversa da tutte quelle che avevano visto fino a quel momento. «Feth, cercate una macchina fotografica. Io vado ad avvertire Drai.» Le parole non erano ancora uscite dal suo diaframma, che Ken si era già precipitato verso la porta; e, una volta tanto, Feth non ebbe niente da dire. Non riusciva a staccare gli occhi dall’impronta. Non c’era niente di strano o di inquietante nell’impronta; ma Feth non riusciva ad allontanare dalla mente l’affascinante interrogativo su chi l’avesse lasciata. Per un alieno che non ha mai visto niente di simile a un essere umano, l’impronta di una mano comporta ovviamente delle difficoltà di interpretazione. A quanto ne sapeva lui, la creatura poteva essere stata in piedi, o seduta, o piegata, o poteva essersi distesa sopra il portello nella maniera che per i sarriani era l’equivalente dello stare seduti. Non c’era modo di scoprirlo. L’indigeno poteva essere grosso come il piede di un sarriano, e poteva avere lasciato l’impronta con il suo corpo; o poteva essere troppo grosso per infilare nel vano qualcosa di più che una semplice appendice. Feth scosse la testa per chiarirsi le idee. Si era accorto che continuava a rimasticare gli stessi concetti. Andò a cercare la macchina fotografica. Sallman Ken entrò nell’osservatorio senza avvertire, ma non diede a Drai la possibilità di esplodere. Era eccitato dalla notizia della scoperta; un po troppo, anzi, perché continuò a parlare per l’intero tragitto fino al laboratorio. Quando giunsero laggiù, l’impronta stessa fu una sorta di delusione per Drai, che si mostrò interessato per pura cortesia, ma non di più. Ai suoi occhi, naturalmente, l’aspetto fisico dei terrestri non aveva alcuna importanza. La sua attenzione si rivolse a un altro particolare. «Cos’è quella polvere bianca?» «Non lo so ancora» confessò Ken. «La sonda è rientrata appena adesso. È l’effetto dell’atmosfera del Pianeta Tre sui campioni che ho spedito laggiù.» «Allora, tra poco sapremo la composizione dell’atmosfera? Sarà utile. Ci sono delle caverne, nei pressi della zona buia, che conosciamo da diversi anni: potremmo facilmente sigillarle e riempirle dei gas che voi ci direte. Quando scoprirete qualcosa, fatecelo sapere subito.» Si allontanò dal laboratorio, con indifferenza, e Ken rimase leggermente deluso. L’aveva giudicata una scoperta assai affascinante. Con un’alzata di spalle, cercò di cancellare la delusione, raccolse i suoi campioni senza toccare l’impronta, e li portò all’altra estremità della stanza, sul banco dove aveva allestito un semplice laboratorio chimico. Come aveva detto lui stesso, non era un esperto di analisi chimiche; ma i composti che si formavano nel corso delle combustioni non erano molto complessi, e Ken era certo di potersene fare una buona idea. In fin dei conti, lui conosceva i metalli contenuti nei campioni: l’unico metallo gassoso che si poteva trovare nell’atmosfera del Pianeta Tre era l’idrogeno. Il mercurio era liquido, a quella temperatura, e nessun altro metallo aveva una pressione di vapore abbastanza alta, neppure alla temperatura di Sarr. Tenendo ben fissa in mente questa idea e usandola come riferimento, Ken si mise al lavoro. Per un chimico, la descrizione delle operazioni effettuate da Ken risulterebbe interessante. Per tutti gli altri sarebbe solo una routine noiosa e ripetitiva di riscaldamenti e raffreddamenti, misure di punti di ebollizione e di congelamento, filtraggi e frazionamenti. Se fosse partito con la mente sgombra da preconcetti, Ken avrebbe fatto più in fretta; ma alla fine anche lui si convinse. E una volta convinto, si chiese perché non ci avesse pensato prima. Feth Allmer era ritornato già da tempo, e aveva fotografato l’impronta da una decina di angoli diversi. Ora, vedendo che Ken aveva cessato di lavorare, lasciò la spalliera su cui si era disteso a riposare e raggiunse il banco di lavoro. «Avete trovato qualcosa, o siete rimasto bloccato?» domandò. «Credo di aver trovato quello che cercavo» rispose Ken. «Avrei dovuto pensarci fin dall’inizio, tanto era ovvio. È ossigeno.» «Perché è tanto ovvio?» domandò Feth. «E, anzi, perché non ci avete pensato?» «A questa domanda non saprei rispondere. Semplicemente, ho scartato l’ipotesi, e basta, perché è un elemento troppo attivo. Non mi sono soffermato a pensare che a quella temperatura non può essere molto più attivo di quanto lo è il solfo alla nostra. È perfettamente plausibile che si trovi libero nell’atmosfera… a condizione che ci sia un processo che sostituisce costantemente quello che si combina con gli altri elementi. È lo stesso discorso che vale per il solfo. Maledizione, i due elementi sono così simili tra loro! Me ne sarei dovuto accorgere fin dal primo istante.» «Che cosa intendete dire… un processo che sostituisce?» «Come sapete» disse Ken «noi respiriamo solfo e con i nostri processi metabolici produciamo solfuri. Viceversa, le forme viventi che si nutrono di minerali, come gran parte della vegetazione, scompongono i solfuri e liberano solfo allo stato molecolare, utilizzando l’energia solare. Probabilmente, anche sul Pianeta Tre c’è un’analoga suddivisione tra le forme viventi: alcune formano ossidi, e le altre li scompongono. Adesso che ci penso, anche su Sarr ci sono dei microrganismi che usano l’ossigeno al posto del solfo.» «L’atmosfera del pianeta» domandò Feth «è costituita di ossigeno puro?» «No. L’ossigeno è soltanto un quinto o poco più. Ricorderete come sono bruciati in fretta il sodio e il magnesio, e di quanto è calata ogni volta la pressione.» «No, non ricordo, e non vedo il legame tra le due cose, ma penso che dovrò prendere a scatola chiusa le vostre affermazioni. Che cos’altro c’è, in quell’atmosfera? Il titanio l’ha consumata quasi tutta, se ricordo bene.» «Proprio così. Si tratta di azoto, o di uno dei suoi ossidi; non saprei dire quale, senza fare altri esperimenti con campioni meglio controllabili dal punto di vista quantitativo. Gli unici composti del titanio che ho trovato in mezzo a quella confusione sono ossidi e nitruri. Il carbonio si è ossidato, credo, e il motivo per il quale non ci sono stati cambiamenti di pressione, esclusi quelli dovuti al raffreddamento, è che il principale composto di carbonio e ossigeno contiene due atomi d’ossigeno, e pertanto non ci sono cambiamenti di volume. Avrei dovuto pensarci.» «Credo di dover accettare anche queste considerazioni a scatola chiusa» commentò Feth. «Quindi, non ci resta da fare altro che preparare una miscela di azoto e ossigeno in proporzione di quattro a uno, e di riempire fino a due terzi della pressione normale le caverne di cui ha parlato il capo?» «Forse è una descrizione un po troppo semplicistica, ma dovrebbe essere abbastanza simile all’ambiente naturale da permettere la crescita di questo vostro tafacco… ammesso che si riesca a portare qui, vivi, i campioni per dare inizio alla coltivazione. Inoltre, sarebbe bene procurarsi un po del terreno del Pianeta Tre: non credo che sarà sufficiente ridurre in polvere la roccia di qui. Detto per inciso, non ho nessuna intenzione di analizzare quel terreno: non intendo neppure tentare di farlo. Dovrete trovare voi il modo di portarne qui la quantità necessaria.» Feth lo fissò con gli occhi sbarrati. «Ma è assurdo!» esclamò. «Ne occorreranno tonnellate, per una piantagione decente.» Sallman Ken si limitò ad alzare le spalle. «Lo so» disse. «Ma vi dico che raccogliere quelle tonnellate di terreno sarà più facile che compierne un’analisi esauriente. Io non conosco a sufficienza la chimica per farlo, ma credo che neppure i migliori chimici di Sarr si azzarderebbero a fare delle ipotesi sulle sostanze chimiche che si possono trovare allo stato solido su quel pianeta. A quella temperatura, scommetto che potrebbero esistere composti organici privi di fluoro e di silicio!» «Sarà meglio chiamare Drai, e dirglielo» replicò Feth. «Sono certo che pensava di poter fabbricare per sintesi l’atmosfera e il terreno, in modo da allestire la coltivazione con le nostre sole forze.» «Sarà meglio chiamarlo» convenne Ken. «Fin dall’inizio gli ho detto ben chiaramente i miei limiti; se s’aspetta un risultato simile, vorrà dire che non si rende conto della natura del problema.» Feth si allontanò, con l’aria preoccupata, e Ken non capì che importanza avesse, la cosa, per il meccanico. Più tardi, lo venne a sapere. L’aria preoccupata era ancor più evidente quando Feth fece ritorno. «Adesso» comunicò il meccanico «dice che ha da fare. Ne parlerà con voi dopo il rientro della tuta, in modo che si possano valutare anche le possibili alternative. Vuole che vi conduca a vedere le caverne, per farvi capire che cosa ha in mente quando parla di usarle.» «Come si arriva laggiù?» domandò Ken. «Penso che siano abbastanza lontane.» «Ci porterà Ordon Lee, con la nave. Distano tremila chilometri. Mettiamoci lo scafandro.» Ken, eroicamente, soffocò il desiderio di chiedere perché l’intera questione fosse saltata fuori all’improvviso, nel bel mezzo di quello che sembrava un problema del tutto diverso, e si recò all’armadio dove erano custodite le tute spaziali. Comunque, aveva dei sospetti sul vero motivo, ed era sicuro che la loro spedizione sarebbe durata fino al ritorno della sonda contenente la merce di Laj Drai. Ma tutte queste cose gli passarono di mente quando pose piede sulla superficie di Mercurio, per la prima volta dal suo arrivo alla stazione. L’aspetto butterato, bruciato, assolutamente asciutto della valle non costituiva ai suoi occhi uno spettacolo particolarmente strano, in quanto Sarr era altrettanto asciutto e ancor più caldo; ma il colore cupo del cielo nelle vicinanze del sole e l’assenza di vegetazione sul terreno gli davano l’impressione di trovarsi su qualcosa di morto, ed era una sensazione alquanto sgradevole. Su Sarr, invece, c’era vita vegetale dappertutto, anche se il pianeta era arido; le piante che Ken conosceva erano più cristalline che organiche, e la loro esistenza richiedeva soltanto minime tracce di sostanze liquide. Inoltre, Sarr aveva variazioni climatiche, e Mercurio non ne aveva. Non appena la nave lasciò la valle, Ken fu in grado di vedere la differenza. La superficie di Mercurio era accidentata, con picchi alti e rocce affilate. I monti, i crepacci e i crateri scavati dalle meteore non erano mai stati addolciti dalla mano dell’erosione. Le poche ombre che vi si incontravano erano complete, e l’unica luce che vi penetrava era quella riflessa dagli oggetti circostanti. I laghi e i fiumi di un pianeta come Mercurio dovevano essere di metalli come il piombo e lo stagno, o di composti semplici come l’«acqua» del pianeta Sarr: cloruro di rame, bromuro di piombo, solfuri del fosforo e del potassio. Ma gli uni erano troppo pesanti, e dovevano già essersi infiltrati tra le rocce di Mercurio, se mai erano esistiti; gli altri non potevano essere presenti perché mancavano gli organismi viventi che potevano averli prodotti. Osservando dalla sua cabina dell’astronave la superficie di Mercurio, Sallman Ken cominciò a rivalutare in cuor suo perfino la Terra. Una nave capace di superare di migliaia di volte la velocità della luce non impiega molto tempo per percorrere tremila chilometri, anche quando la velocità è talmente bassa da consentire il pilotaggio manuale. Nel punto in cui atterrarono, la superficie era un poco più buia: il sole era sopra l’orizzonte invece di trovarsi allo zenit, e le ombre erano proporzionalmente più lunghe. La zona pareva più fredda della valle dove sorgeva la stazione, e lo era davvero, ma il vuoto e la scarsa capacità della roccia di condurre il calore permettevano di uscire dall’astronave con le normali tute spaziali, ed entro pochi minuti dall’atterraggio, Ken, Feth e il pilota saltellavano rapidamente verso un costone roccioso, poco lontano, che era alto una quindicina di metri. La superficie della roccia era rugosa e coperta di minuscole fessure, come l’intera topografia del pianeta. Lee si avviò senza esitazioni verso uno dei crepacci più larghi, che correva in direzione obliqua rispetto ai raggi del sole, cosicché i tre sarriani si trovarono presto immersi nell’oscurità. Accesero le lampade portatili e proseguirono il cammino. All’inizio, il passaggio era alquanto stretto, e accidentato quanto bastava per costituire una minaccia per l’integrità delle tute spaziali. Questa prima parte del crepaccio era lunga qualche centinaio di metri e sboccava all’improvviso in una caverna molto vasta, di forma quasi sferica. A quanto pareva, il pianeta Mercurio non era sempre stato privo di gas: la caverna sembrava prodotta da una bolla gassosa venutasi a formare all’interno di una massa di roccia vulcanica fusa. La spaccatura di cui si erano serviti gli esploratori per entrare si stendeva in alto fino alla cima, e in basso fino quasi al fondo. Si era riempita parzialmente di frammenti caduti dalla parte alta, e questo era il motivo che aveva reso così disagevole il cammino. Anche la parte inferiore della bolla conteneva una certa quantità di frammenti rocciosi, e si potevano utilizzare questi frammenti per scendere fino al centro, ma Ken non aveva alcun desiderio di compiere una così faticosa discesa. «C’è soltanto questa grossa bolla?» domandò. Gli rispose Ordon Lee: «No, ne abbiamo trovato molte, simili a questa, lungo tutto il costone, e probabilmente ce ne sono altre che non hanno sbocchi verso l’esterno. Suppongo che potremmo cercarle con gli ultrasuoni, se avessimo davvero bisogno di trovarle.» «Potrebbe essere una buona idea» fece notare Ken. «In una caverna con una sola apertura scavata da noi stessi, si potrebbe mantenere meglio la pressione atmosferica.» Feth e il pilota fecero un mormorio d’assenso. Il pilota aggiunse una sua considerazione: «Ed è consigliabile scegliere una bolla un po profonda, perché questo rende più agevole la perforazione. C’è meno rischio di produrre delle crepe che arrivino fino alla superficie.» «C’è un solo problema» disse Feth. «Abbiamo uno scandaglio a ultrasuoni? Come diceva Ken a proposito delle analisi chimiche del terreno, ho dei dubbi sulla mia capacità di farne uno.» Per alcuni istanti, nessuno rispose a questa obiezione. Alla fine, Lee disse: «Comunque, è meglio che vi faccia vedere anche le altre caverne che abbiamo già trovato.» Nessuno si oppose, e i tre sarriani rifecero il cammino in senso inverso e tornarono alla luce del sole. Nelle quattro ore successive, visitarono altre sette caverne, di forme diverse: da un foro emisferico sulla parete stessa del costone, a una bolla buia e profonda, a cui si accedeva da un crepaccio attraverso il quale si passava a malapena, con la tuta. Quest’ultima caverna, nonostante la difficoltà d’accesso e la dimensione ridotta, era quella che meglio si prestava ai loro scopi: Lee lo ribadì mentre si toglievano la tuta, una volta risaliti sulla Karella. «Avete ragione» ammise Ken «ma vorrei cercarne una più profonda. Maledizione, Feth, siete sicuro di non potere preparare un ecoscandaglio? Non avete avuto problemi con gli strumenti che abbiamo messo sulle sonde.» «Adesso, mi pare che siate voi quello che non capisce il problema» rispose il meccanico. «Nelle sonde abbiamo messo riscaldatori, termometri, manometri e fotocellule. Sono strumenti che si acquistano già pronti per l’uso. Io mi sono limitato a collegarli a un normale trasmettitore istantaneo: non potevo usare la radio perché le sue onde impiegano più di dieci minuti per compiere l’intero tragitto di andata e ritorno fino al Pianeta Tre. Io non ho costruito niente: mi sono limitato a collegare tra loro dei fili.» «Già» ammise Ken. «Avete ragione, e visto che stanno così le cose, tanto vale che ritorniamo alla stazione per studiare ii problema.» Non staccò lo sguardo dai suoi compagni, mentre faceva questa proposta, e colse l’occhiata che Feth gettò all’orologio prima di rispondere. Ne provò quasi piacere. Ma il pilota fu più rapido del meccanico. «Prima, però, sarebbe consigliabile scattare qualche fotografia della caverna, e misurarne le dimensioni» disse Lee. «Abbiamo bisogno di dati per calcolare la quantità di terreno e di gas che ci occorrerà, indipendentemente dal modo in cui ce la procureremo.» Ken non fece obiezioni; non voleva destare sospetti, e inoltre aveva avuto la prova che cercava. Lo tenevano intenzionalmente lontano dalla stazione. Aiutò i compagni a scattare le fotografie e a misurare le dimensioni della caverna. Più volte dovette fare uno sforzo per non scoppiare a ridere a causa dei trasparenti sotterfugi dei suoi due accompagnatori: ogni volta si faceva ritorno alla nave, ci si toglieva la tuta, e solo allora qualcuno suggeriva la nuova attività da svolgere. Ma dal punto di vista della perdita di tempo, la tecnica era perfetta. Tanto per prestarsi al gioco, fu lo stesso Ken a proporre un periodo di riposo prima di ritornare alla base, e l’idea, non c’è bisogno di dirlo, venne accolta con entusiasmo dai compagni. Poi disse di voler calcolare il volume della caverna sulla base delle loro misurazioni, e riuscì a perdere molto tempo nei necessari calcoli… del tutto legittimamente, perché la geometria della caverna non era certo quella di una sfera perfetta. Quando però suggerì di prelevare dei campioni di roccia per valutare le difficoltà di un’eventuale perforazione, dovette faticare per non sorridere, perché Feth, con una certa impazienza, obiettò che la cosa poteva essere rimandata a un altro momento. A quanto pareva, Ken aveva battuto i suoi due accompagnatori al loro stesso gioco, anche se non riusciva a capire che importanza avesse, per Feth, il fatto di essere rimasti laggiù più a lungo del necessario. «Occorrerà un mucchio di gas» disse ai compagni, mentre la Karella si innalzava nel cielo nero. «Là dentro ci stanno cinquantamila metri cubi di gas, e anche se sarà sufficiente una pressione più bassa della nostra, la cosa non ci aiuterà molto. Vorrei sapere se possiamo ricavare ossigeno da quelle rocce; avremmo fatto meglio a prelevarne qualche campione, come suggerivo io. E poi occorrerà controllare attentamente il soffitto per trovare eventuali fessurazioni: non abbiamo idea di come sia la sua tenuta d’aria. Vorrei poter… sentite, Feth, mi pare che abbiamo a disposizione un buon numero di unità radar, vero?» «Sì, certo. A cosa vi servono? I loro raggi non sono in grado di attraversare la roccia.» «Lo so» rispose Ken. «E tra quelle che abbiamo, ce n’è qualcuna in cui si può cambiare la frequenza degli impulsi?» «Sì. Altrimenti occorrerebbe cambiare apparecchio ogni volta che si cambia la portata. E allora?» «Non possiamo… cioè, non potete… fare in modo che gli impulsi radar azionino un risonatore di qualche tipo, da mettere a contatto con la roccia? Potremmo poi raccogliere l’eco di questo suono, mediante un microfono a contatto, e misurare l’intervallo tra l’eco e il suono. La frequenza degli impulsi dovrebbe essere molto bassa, ma possiamo calibrarla abbastanza facilmente.» «Il guaio è che le unità radar non sono molto portatili. Soprattutto quelle montate sulla nave.» «Smontiamo quelle di una sonda, allora. Le sonde hanno un altimetro radar, e ne abbiamo una scorta abbastanza grande: quanto basta per poterne smontare una. Si poteva chiamare la base per farcene mandare una; non credo che la cosa avrebbe richiesto più di qualche ora. Facciamo ancora in tempo, diciamo di mandarla… si fa più in fretta a ritornare alle caverne che ad arrivare alla base.» «È più comodo lavorare nell’officina» disse il pilota. «Inoltre… sempre che la cosa funzioni… se c’è da scendere sottoterra come volete voi, è meglio fare le prove nelle vicinanze della base, dove tutto risulta semplificato.» Parlò senza togliere gli occhi dai comandi. «Credete di poterlo fare?» domandò Ken, rivolto al meccanico. «Non sembra una cosa difficile» rispose questi «ma non voglio pronunciarmi troppo presto.» «Abbiamo ancora un po di tempo, prima che la tuta corazzata rientri. Si potrebbe fare tutto prima del rientro, e allora sì che potremmo dare a Drai delle notizie su cui riflettere! Chiamiamolo subito… può darsi che ci dia qualche suggerimento per quanto riguarda il terreno.» Gli altri due si scambiarono un’occhiata che durò una frazione di secondo, poi Lee indicò l’apparecchio radio. «Fate pure» disse «ma tenete presente che arriveremo alla base prima che possiate dirgli molto.» «Aveva detto che dovevate fabbricare il terreno» gli ricordò Feth. «Lo so. È per questo che voglio parlargli… siamo partiti troppo in fretta, quando abbiamo lasciato la base.» Ken accese la radio mentre gli altri cercavano di capire se la loro partenza, così affrettata, aveva destato in lui qualche sospetto. Nessuno osava parlare in presenza di Ken, ma ancora una volta i loro occhi si incontrarono, e l’occhiata che si scambiarono fu carica di significato. Alla fine, all’altra parte della comunicazione giunse Drai, e Ken cominciò subito a parlare, senza preamboli. «Abbiamo misurato le dimensioni della caverna più piccola che abbiamo trovato fino a questo momento, e ho calcolato approssimativamente la quantità d’aria che occorre per riempirla. Posso anche dirvi quanto terreno occorre per coprire il fondo, se volete usare tutta la superficie della caverna. Il guaio è che… anche ammesso che io riesca ad analizzare il terreno, sia pure in modo approssimativo come ho fatto per l’atmosfera del Pianeta Tre… la quantità che occorre è nell’ordine delle tonnellate. Io non posso fabbricarne in laboratorio una simile quantità; almeno, non in tempi accettabili. Occorre prenderla già pronta.» «E come? Non siamo neppure in grado di far scendere una persona sul Pianeta Tre. Non parliamo poi di un’astronave.» «Questo è da vedere. Il suggerimento che intendo dare è un altro… Ma vedo che siamo quasi arrivati, e quindi possiamo parlarne di persona. Pensateci un attimo, mentre noi atterriamo. Qualsiasi atmosfera abbiano i pianeti, il loro terreno non può essere molto diverso… almeno in quelli che sono i principali costituenti. Perché non vi procurate un carico di terreno di Sarr?» Per un attimo, Drai non seppe cosa rispondere per la sorpresa. Poi mormorò: «Ma… i batteri…» «Non dite assurdità; nessuna creatura vivente sarriana potrebbe vivere a quella temperatura. Ammetto che sarebbe meglio usare terreno del Pianeta Tre, e può darsi che si possa farlo. Ma nel caso non fosse possibile, vi do un consiglio, visto che vi interessa la rapidità. Anche se conoscessi la composizione, per fare cento tonnellate di terriccio mi occorrerebbe ben più di una settimana!» E chiuse la comunicazione mentre la Karella toccava terra. 10 Ken si affrettò a infilarsi la tuta spaziale e a lasciare la nave insieme con gli altri. Una volta giunto all’interno della base, e toltasi l’ingombrante tuta, corse in laboratorio per vedere a che distanza si trovasse la sonda con la tuta corazzata; poi, soddisfatto dei progressi che trovò laggiù registrati, si diresse all’osservatorio per riprendere la conversazione con Laj Drai. Non incontrò nessuno lungo il tragitto. Lee era rimasto sull’astronave, Feth era scappato non appena si era aperto il portello della cabina di decompressione: aveva una sua commissione da fare. Il resto del personale badava unicamente ai fatti propri. Questa volta, Ken non si preoccupava di essere visto, poiché intendeva avere con Drai una regolare conversazione. Tuttavia, mentre studiava il modo migliore di presentare le sue ragioni, venne bloccato dal fatto che la porta dell’osservatorio era chiusa. Era la prima volta, dal suo arrivo alla stazione, che incontrava una porta chiusa a chiave, e la cosa lo indusse a riflettere. Era certo che la sonda commerciale era ritornata durante l’assenza della Karella, e che in qualche punto dell’edificio c’era un carico di tafacco. Se quella era l’unica porta chiusa… e trattandosi, dopotutto, della porta della stanza che Drai usava come ufficio… Ken si appoggiò alla porta, cercando di capire dal rumore se c’era qualcuno nella stanza. Gli pareva che non ci fosse nessuno, ma, anche se ne avesse avuto la certezza, che cosa avrebbe potuto fare? Probabilmente, un vero poliziotto avrebbe aperto la porta in pochi secondi, ma Ken non era un vero poliziotto; la porta era sbarrata ermeticamente, per quanto lo riguardava. A quanto sembrava, l’unica cosa da fare era quella di cercare Drai da un’altra parte. Aveva già percorso una decina di metri, scendendo lungo la rampa, e aveva perso di vista la porta dell’osservatorio, quando sentì che si apriva. Subito girò sui tacchi e risalì la rampa come se arrivasse in quel momento. Quando raggiunse il gomito che gli nascondeva la porta, sentì che si chiudeva di nuovo; un istante più tardi si trovò faccia a faccia con Feth. Il meccanico, per la prima volta da quando Ken lo conosceva, pareva inquieto e agitato. Evitò lo sguardo di Ken, e serrò ancor più strettamente fra i tentacoli, nascondendolo alla vista, il piccolo oggetto che stava trasportando. Passando davanti a Ken, gli rivolse un rapido cenno di saluto e si affrettò a sparire dietro il gomito della rampa, senza rispondere alla sua domanda se Drai era nell’osservatorio. Ken fissò ancora per alcuni secondi il punto dove Feth era scomparso. Il meccanico era sempre stato una persona di poche parole, ma si era sempre dimostrato amichevole. Adesso sembrava quasi in collera per la presenza di Ken. Con un sospiro, il poliziotto a mezzo servizio riprese a salire. In ogni caso, si disse, era meglio bussare. Il motivo che lo aveva indotto in precedenza a non bussare era probabilmente un’inconscia speranza che Drai si trovasse da un’altra parte e che lui fosse libero d’investigare. E poiché il buon senso gli consigliava di sospendere momentaneamente le investigazioni, bussò alla porta. Si congratulò con se stesso per non avere tentato di scassinare da dilettante la serratura, quando la porta si aprì. Drai era all’interno e, a quanto pareva, lo stava aspettando. Sulla faccia, non aveva alcuna espressione decifrabile: o le preoccupazioni di Feth non lo sfioravano neppure, o era un attore molto migliore del meccanico. Ken, che pensava di avere capito il carattere di Feth, propendeva per la prima ipotesi. «Temo che non siate riuscito a convincermi di potere usare il terriccio sarriano» disse Drai, aprendo la conversazione. «Sono d’accordo che gran parte delle sostanze in esso presenti, a quanto ne so, possono essere presenti alla temperatura del Pianeta Tre, ma non sono sicuro che valga anche l’inverso. Possono esistere delle sostanze che sono solide o liquide a quella temperatura e gassose alla nostra; queste sostanze sarebbero assenti nel terriccio importato dal nostro pianeta natale.» «Non ci avevo pensato» ammise Ken. «Non mi viene in mente nessuna sostanza simile, ma questo non vuol dire che non esistano. Posso controllare sul manuale se c’è qualche composto inorganico di questo tipo, ma non è detto che li trovi tutti: se le forme viventi del Pianeta Tre sono analoghe alle nostre, ci saranno probabilmente milioni di composti organici… e questi non ci sono sul catalogo. No, maledizione, penso che abbiate ragione; dovremo prendere il materiale dal pianeta stesso.» Rifletté su questo particolare, e tacque. Infine fu Drai a riprendere il discorso: «Pensate davvero di potere scendere sulla superficie di quel pianeta?» chiese. «Non vedo perché non dovrebbe essere possibile» rispose Ken. «Mi sembra che, in passato, qualche squadra sia discesa su mondi addirittura peggiori di questo. Feth è pessimista, comunque, e io suppongo che sia più esperto di me, al riguardo. Potremo fare dei piani più precisi quando sarà rientrata la tuta corazzata che abbiamo mandato su! pianeta, e tra poco rientrerà. A quanto dicono gli strumenti, è ripartita due ore fa.» «Questo significa quasi tre giorni prima di potere sapere qualcosa di sicuro. Ci dev’essere qualche altro modo… ecco! Voi dite che il raffreddamento che si verifica sul Pianeta Tre è così grande per la presenza di un’atmosfera che conduce troppo bene il calore? Vero?» «Certo. Sapete anche voi, come lo so io, che si può uscire nel vuoto dello spazio, con una normale tuta spaziale, anche se il sole più vicino dista vari anni-luce. La perdita per radiazione è facile da compensare. Perché me lo chiedete?» «Pensavo… Ci sono altri pianeti nel sistema. Se potessimo trovarne uno privo di atmosfera, che avesse pressappoco la stessa temperatura del Tre, potremmo prelevare il terriccio da quello.» «È un’idea.» Ken si lasciò subito prendere dall’entusiasmo. «Basta che sia abbastanza freddo… e la cosa non dovrebbe essere difficile in questo sistema. Tre ha un satellite… me l’avete mostrato voi. Possiamo raggiungerlo in un attimo con la Karella… e mentre siamo per strada possiamo anche raccogliere quella tuta che viaggia verso di noi. Chiamate Feth: partiamo subito!» «Temo che Feth non sia disponibile per un po di tempo» rispose Drai. «Inoltre» continuò, sorridendo «io sono già stato su quel satellite, e il suo terreno è soprattutto costituito da polvere di pomice; potrebbe arrivare direttamente dal Deserto Polare di Sarr. Meglio considerare anche le altre possibilità, prima di partire. Il guaio è che l’unica caratteristica che conosciamo di quei pianeti è il movimento. Abbiamo sempre cercato di evitarli, e non di visitarli. Mi pare di ricordare, comunque, che il Cinque e il Sei hanno un’atmosfera e che quindi sono da scartare. Potreste controllare la posizione del Quattro, però: suppongo che siate in grado di leggere un’effemeride.» In seguito, Ken comprese che la cortesia era davvero un lato inutile del carattere di una persona. Se non avesse voluto fargli una cortesia, non si sarebbe preso la briga di rispondere al suggerimento di Drai, e se non avesse pensato alla risposta da dargli, non avrebbe commesso il gravissimo errore di avvicinarsi al cassetto dove erano chiuse le effemeridi in questione, e di aprirlo. Solo quando toccò la carta si accorse di quello che faceva, e con un ammirevole sforzo di volontà finì la frase che stava dicendo, sulla sua capacità di leggere un’effemeride, e completò il gesto di prendere i fogli. Però, nel voltarsi verso il suo datore di lavoro, si sentì come se gli avessero applicato allo stomaco una pompa aspirante. Drai non si mosse di un millimetro, e l’espressione sulla faccia rimase imperscrutabile. «Temo di avere commesso un’ingiustizia nei riguardi del nostro amico Feth» commentò con indifferenza. «Mi chiedevo dov’eravate andato a prendere l’idea che un viaggio di andata e ritorno a Sarr richiedesse soltanto una settimana. Comprendo, naturalmente, che le vostre scoperte sono avvenute per caso, e che non c’era niente di più lontano dalla vostra mente che il volgare spionaggio; ma sussiste il problema di cosa fare delle vostre sfortunate conoscenze. La cosa richiederà una certa dose di riflessioni. Nel frattempo, continuiamo qon la questione del Pianeta Quattro. È in una posizione facile da raggiungere, e possiamo raccogliere, come suggerite, la sonda che trasporta la vostra tuta senza allontanarci troppo dalla rotta?» Ken venne preso completamente alla sprovvista. Date le circostanze, l’ultima cosa che si sarebbe aspettato da Drai era quell’atteggiamento blando e distaccato. Non riusciva a credere che l’altro fosse davvero così indifferente alla cosa; dietro quegli occhi fermi doveva maturare qualche decisione spiacevole. E lui, come meglio poté, cercò di comportarsi in modo altrettanto imperturbabile. Con uno sforzo, rivolse la sua attenzione alle effemeridi, trovò la colonna che gli occorreva, e fece mentalmente alcuni calcoli. «I pianeti sono quasi a novanta gradi l’uno dall’altro, visti da qui» annunciò infine. «Noi, come sapete, siamo quasi esattamente tra il sole e Tre; Quattro è nella direzione retrograda, a circa il doppio della distanza di Tre. Tuttavia, per la Karella, la cosa dovrebbe significare poco.» «Vero» commentò Drai. «Benissimo, partiremo tra un’ora. Entro questo tempo, portate a bordo tutte le attrezzature che pensate vi possano occorrere. Meglio usare una tuta corazzata sul Pianeta Quattro, anche se non c’è aria. Dovrete indicare il posto dove sono le tute alla persona che vi manderò perché vi dia una mano.» «E Feth?» Ken si era fatto l’idea che il meccanico fosse incorso nelle ire di Drai perché sospettato di avere tradito il segreto della loro posizione. «Non sarà disponibile per qualche tempo… è occupato. Vi darò una persona io. Andate nell’officina a prendere quello che vi occorre… ve la manderò laggiù. Entro un’ora.» Laj Drai si voltò dall’altra parte, come per indicare che il colloquio era finito. La persona mandata da Drai era un tale che Ken aveva già visto in giro per la stazione, ma al quale non aveva mai parlato. E l’attuale occasione non cambiò molto la situazione complessiva; era quasi taciturno come Feth, e Ken non sapeva neppure il suo nome. Trasportò sulla Karella tutto quello che gli veniva richiesto, e poi scomparve. La partenza avvenne al momento previsto. Ordon Lee, che evidentemente aveva già ricevuto i suoi ordini, fece girare l’astronave attorno al pianeta così rapidamente che l’accelerazione verso l’esterno superò quella prodotta dalla gravità; i viaggiatori ebbero l’impressione che il mondo fosse sospeso sopra di loro. Poi, quando il sole scomparve al di sotto dell’orizzonte, dietro di loro, Lee portò a zero l’accelerazione radiale e fece rotta in modo da allontanarsi dall’astro. Sotto la forte spinta dei motori interstellari, entro pochi minuti il sistema di Terra e Luna si trasformò in una coppia di dischi dai contorni molto netti. Lee applicò con abilità le spinte motrici, portando la nave a fermarsi, relativamente al pianeta, a una distanza di due milioni e mezzo di chilometri, in una posizione tra il pianeta e il sole. Drai indicò a Ken un quadro di comandi uguale a quello del laboratorio. «È sulla frequenza della vostra sonda» disse. «Lo schermo a destra è un’unità radar che potrà esservi utile per rintracciarla. In cima al quadro c’è un indicatore direzionale, e premendo questo interruttore la sonda trasmette un segnale.» Senza dire niente, Ken si mise al quadro di comando e in pochi minuti imparò a usarlo. Dapprima l’indicatore direzionale gli fornì dei valori poco attendibili, a causa della grande distanza a cui si trovava la sonda; ma in poco tempo Lee riuscì a ridurre questa distanza, e un quarto d’ora più tardi la piccola navicella, ancora invisibile, si trovò a non più di una ventina di chilometri da loro. Da quel punto in poi, Ken non ebbe difficoltà a guidare la sonda: poco più tardi, lui e Drai lasciarono la cabina di comando e scesero in un deposito, situato nella stiva della Karella, dove la sonda si stava riscaldando. A richiamare tutto il loro interesse fu questa volta la tuta che era ancora legata all’esterno della sonda. Sonda e tuta erano state immerse nell’atmosfera per un’intera ora, tempo che a Ken pareva sufficiente per scoprire ogni possibile difetto. Rimase un po scoraggiato nel vedere che l’aria si condensava anche sulla tuta, e non solo sullo scafo metallico; se i riscaldatori avessero lavorato come dovuto, durante le ore di volo nello spazio si sarebbe dovuto raggiungere un equilibrio tra gli strati interni e quelli esterni dell’armatura. Più precisamente, visto che un equilibrio era stato senza dubbio raggiunto, lo si sarebbe dovuto raggiungere a temperatura molto più alta. Comunque, sulla tuta l’aria cessò di condensarsi molto prima, e Ken riprese un poco a sperare quando fu finalmente in grado di staccare la corazza dalla sonda e di esaminarla attentamente. La superficie metallica esterna aveva cambiato colore. Era la prima cosa che si notava, la più ovvia. Invece della lucentezza argentea dell’acciaio levigato, su certe aree c’era una forte tinta bluastra, soprattutto verso la punta delle appendici di manipolazione, simili a mani, e sulla parte posteriore delle gambe. Ken pensava di attribuire quel colore a corrosione causata dall’ossigeno, ma non riusciva a capire la sua distribuzione inuguale. Con trepidazione aprì il torso della massiccia tuta e infilò un tentacolo all’interno. L’interno era freddo. Troppo freddo per i suoi gusti. I riscaldatori sarebbero stati in grado di rimediare a questa situazione, ma non funzionavano. Il registratore era partito automaticamente, grazie a un circuito collocato nella sonda e azionato da un manometro che l’aveva fatto scattare non appena era stato rilevato un aumento della pressione atmosferica, e sulla bobina erano avvolte alcune spire di nastro. La registrazione raccontava una storia abbastanza chiara. Temperatura e pressione erano rimaste costanti per alcuni momenti; poi, all’incirca nel momento in cui la sonda aveva raggiunto la superficie, o poco più tardi, entrambe avevano cominciato a scendere irregolarmente. Molto irregolarmente, anzi: per qualche istante c’era stato perfino un innalzamento di temperatura. Il registratore si era fermato quando la temperatura aveva raggiunto il punto di congelamento del solfo, probabilmente a causa di aria che si era solidificata attorno alle sue parti mobili. Ma neanche dopo essere ritornato a temperatura normale aveva ripreso a funzionare. Quel pianeta era evidentemente una trappola per assorbire calore, pura e semplice. Non c’erano prove dirette che la tuta avesse perso gas o che ne avesse lasciato entrare da fuori, ma Ken sospettava che fosse successo appunto questo. Il colore azzurrino che si scorgeva su certe parti del metallo era probabilmente dovuto a una fiamma: ossigeno in fiamme, che bruciava sotto i soffi di solfo ad alta pressione che giungevano da qualche invisibile fessura della tuta. Sia il solfo che l’ossigeno mantenevano la combustione, come ben sapeva Ken, e si combinavano tra loro; si fece un appunto mentale di controllare qual era il calore di formazione dei solfuri d’ossigeno esistenti. Alla fine staccò gli occhi dal teatro della sua disfatta. «Quando ritorneremo alla base, facciamo dare un’occhiata alla tuta da Feth» disse. «Forse avrà qualche idea migliore delle mie sui motivi che hanno portato questa tuta a perdere l’isolamento. Adesso conviene recarci sul Pianeta Quattro per vedere se c’è qualcosa che possiamo utilizzare come terriccio.» «Immagino che la nave sia già in orbita attorno al pianeta» rispose Drai. «Lee doveva dirigersi verso di esso non appena portata a bordo la vostra sonda, ma gli ho detto di aspettare il mio ritorno in cabina di comando, prima di scendere.» I due sarriani si affrettarono a ritornare dal pilota, servendosi delle maniglie da impiegare quando la nave era su un’orbita, in assenza di peso, e la raggiunsero in pochi istanti. Ken cominciava ad abituarsi ad ambienti dove la gravità era diversa da quella sarriana, e anche all’assenza di gravità. La supposizione di Drai risultò corretta; i motori erano spenti e al di là degli oblò si scorgeva la forma di Marte. Agli occhi dei sarriani, il pianeta appariva ancora più buio che la Terra, e al pari della Terra possedeva ovviamente un’atmosfera. Su Marte, comunque, l’involucro gassoso era molto più sottile. Erano troppo vicini per distinguere i cosiddetti canali, che, visti con adeguati strumenti ottici, risultano essere valli naturali scavate dai fiumi, ma anche i fiumi erano qualcosa di nuovo per i sarriani. Erano troppo vicini per poter vedere dalla loro latitudine anche le calotte polari, ma quando la Karella raggiunse una posizione più a sud, comparve alla loro vista una vasta distesa bianca. La calotta era molto meno estesa di quanto lo era stata un paio di mesi prima, ma anche ora si trattò di un fenomeno totalmente nuovo per gli occhi degli alieni. O, più precisamente, quasi totalmente nuovo. Ken serrò un tentacolo su uno di quelli di Drai. «C’era una distesa bianca come questa sul Pianeta Tre! La ricordo distintamente! C’è una certa rassomiglianza tra le due, comunque.» «Come dato di fatto» replicò Drai «ce ne sono due. Volete recarvi su quella macchia per raccogliere i vostri campioni di terreno? Non abbiamo nessuna prova che gli indigeni del Tre coltivino il tafacco proprio su quelle zone.» «Credo anch’io di no; ma in qualsiasi caso mi piacerebbe dare un’occhiata alla sostanza di cui è composta. Possiamo atterrare ai suoi bordi e raccogliere campioni di tutto quello che troviamo, Lee?» Il pilota pareva poco convinto, ma alla fine accettò di scendere lentamente nell’atmosfera. Si rifiutò però di toccare terra finché non si fu accertato della rapidità con cui l’aria del pianeta raffreddava lo scafo della nave. Né Drai né Ken fecero obiezioni, e alla fine la distesa bianca, verde e marrone che si allargava sotto di loro cominciò ad assumere l’aspetto di un vero e proprio paesaggio invece che di un disco dipinto sospeso nell’oscurità. L’atmosfera risultò piuttosto deludente. Con la nave sospesa a poche decine di metri al di sopra della superficie, gli indicatori esterni di pressione parevano assai riluttanti a staccarsi dallo zero. La pressione era circa un cinquantesimo di quella misurabile alla superficie di Sarr. Ken lo fece notare al pilota, ma Ordon Lee non volle che il suo scafo toccasse il terreno prima di avere controllato per una quindicina di minuti i pirometri esterni. Alla fine, convinto che la perdita di calore potesse venire compensata dai riscaldatori, fece posare la nave su una chiazza di sabbia di colore scuro e per un po di tempo stette ad ascoltare il cigolio della catena che si adattava alla nuova distribuzione di peso e alla nuova perdita di calore. Infine, almeno in apparenza soddisfatto, si staccò dai comandi e si rivolse a Ken. «Se volete uscire a visitare questo posto in lungo e in largo» disse «fate pure. Non credo che la vostra tuta corazzata corra rischi più gravi di quelli che corre il nostro scafo. Se avrete dei problemi, li avrete ai piedi: la perdita di calore attraverso l’aria è pressoché nulla. Se però cominciate a sentire freddo ai piedi, ritornate subito a bordo!» Ken rivolse a Drai un’occhiata maliziosa. «Peccato non avere portato due tute» disse. «Sono certo che vi sarebbe piaciuto scendere con me.» «Neppure se avessi cento vite!» si affrettò a dire Drai. Ken rise. Fatto alquanto curioso, il suo iniziale terrore dello spaventoso gelo di quei pianeti pareva essere svanito; provava un vivo desiderio di scendere sul pianeta a fare la sua prova. Aiutato da Lee e Drai, s’infilò nell’armatura portata fin lì da Mercurio, la chiuse a tenuta d’aria e controllò le varie parti. Poi entrò nel portello ermetico della Karella e osservò con attenzione gli strumenti mentre l’aria veniva aspirata. Non pareva esserci niente di guasto, cosicché chiuse l’interruttore che azionava l’apertura del portello esterno. Per qualche motivo che lui stesso non avrebbe saputo spiegare, mentre il paesaggio marziano cominciava a svelarsi ai suoi occhi, la sua mente indugiava ancora a pensare alla strana perdita di colore subita dalla tuta che era stata esposta all’atmosfera del Pianeta Tre, e si chiedeva se anche laggiù sarebbe successo qualcosa di simile. Curiosamente, a duecentocinquanta milioni di chilometri di distanza, un ragazzo tredicenne cercava di capire come fosse scoppiato un incendio che pareva avere incenerito una piccola macchia di cespugli, circondata su tutti i lati da distese di roccia nuda, sul fianco di una collinetta posta circa otto chilometri a ovest della sua casa. 11 Neppure agli occhi di un terrestre Marte è un mondo capace di suscitare entusiasmo. Anche nei momenti più favorevoli è troppo freddo, è eccessivamente asciutto, ed è privo di atmosfera, respirabile o no. La prima e l’ultima di queste caratteristiche colpirono Ken molto sfavorevolmente. Il terreno davanti a lui era molto piatto. Era anche molto disuniforme. In alcuni punti si scorgeva la roccia nuda, ma questi punti erano pochi, e molto distanziati tra loro. Gran parte dell’area pareva costituita di terra scura e spoglia, con macchie di verde, marrone, rosso e giallo sullo sfondo generale più scuro. Quasi metà del paesaggio sembrava composto di macchie bianche, le stesse che, viste dallo spazio, gli erano parse una massa compatta. Probabilmente, comprese Ken, procedendo verso il centro della regione bianca esse formavano una copertura sempre più spessa: come previsto, la nave era scesa accanto ai suoi bordi. Con cautela, fece un primo passo allontanandosi dallo scafo della nave. La gravità era minore di quella di Sarr, ma pur sempre superiore a quella di Mercurio, e la tuta corazzata era un grave peso. Con i due tentacoli infilati nella sua «manica» di destra spinse quasi al livello del terreno il goffo tubo di acciaio e mosse la pinza manipolatrice posta in cima. Con qualche difficoltà, riuscì a staccare un pezzo di terriccio color marrone scuro e se lo portò al livello degli occhi. Bloccò i «ginocchi» dell’armatura e si appoggiò sulla protuberanza, simile a una coda, che usciva dalla parte posteriore del tronco metallico della tuta, e in questo modo poté dedicare tutta la sua attenzione all’esame del campione. Il cristallo che costituiva il portello visivo della sua tuta non mostrava segni di tensione dovuta alla contrazione, ma Ken, per tutta la durata dell’esame, evitò che venisse a contatto con il campione di terreno. Quasi si scordò di questa precauzione, però, quando vide i minuscoli oggetti multicolori sulla superficie del campione. Per quanto strana fosse la loro forma, si trattava senza dubbio di piante. Minuscole, stranamente delicate rispetto alla vegetazione cristallina di Sarr, ma indubbiamente delle piante. E vivevano in quel freddo spaventoso! Già quelle più vicine al metallo del suo manipolatore si raggrinzivano e si arricciavano, per quanto si fosse raffreddata la parte esterna della sua armatura. Ken si affrettò a riferire ai compagni rimasti all’interno della nave questo fatto inaspettato. «Questa forma di vita deve avere qualcosa in comune con quella di Tre» aggiunse. «Entrambe devono basarsi su reazioni chimiche dello stesso tipo, almeno in generale, poiché tra le temperature dei due pianeti non ci sono differenze significative. Questo terreno deve contenere tutti gli elementi necessari, anche se i singoli composti possono essere diversi… ma chi ha mai sentito parlare di una forma di vita che non fosse un po adattabile sotto questo aspetto?» Tornò a posare gli occhi sul suo campione. «Adesso sembra un po diverso in corrispondenza dei bordi, come se il calore della mia armatura producesse qualche cambiamento in esso. Forse avete ragione, Drai, in questo terreno ci può essere qualche sostanza volatile che in questo momento sta evaporando. Mi chiedo se posso raccoglierne i vapori…» Lasciò cadere il suo campione e cominciò a riflettere. «Potrete pensarci più avanti. Perché non vi recate a controllare le macchie bianche?» domandò Drai. «E anche le pietre; potrebbero contenere dei minerali che conosciamo… e il terriccio proviene dalle rocce, dopotutto.» Ken ammise la verità di queste parole, si raddrizzò, sbloccò i ginocchi e riprese il cammino che lo portava ad allontanarsi dalla nave. Fino a quel momento non aveva ancora sentito freddo, neppure ai piedi. Evidentemente, il terreno di quel pianeta non era un buon conduttore di calore. La cosa non era per niente strana, e Ken si prese l’appunto mentale di evitare di mettere i piedi su eventuali zone di roccia nuda che poteva incontrare. L’area bianca più vicina distava una trentina di metri dal portello della nave. Ken la raggiunse rapidamente, nonostante il peso della sua armatura, e la osservò con attenzione. Non poteva chinarsi a esaminare la costituzione dell’area, e aveva esitazioni a raccogliere quel materiale; ma ricordando che il manipolatore della tuta giungeva a una distanza superiore a quella dei suoi tentacoli, e che il primo campione da lui raccolto era innocuo, allungò il braccio e cercò di raccoglierne un pezzo. La cosa sembrava abbastanza facile. Il manipolatore raschiò sulla superficie, lasciando dietro di sé una striscia scura: evidentemente, il materiale bianco formava sul terreno uno strato molto sottile. Tuttavia, quando si portò il campione a livello degli occhi, Ken scoprì di avere raccolto soltanto una manciata di sabbia scura. Il bianco era sparito. Come prevedibile, rimase sorpreso dall’accaduto, e ripeté il tentativo; questa volta fu abbastanza svelto, e vide l’ultima particella di materiale bianco svanire dai granellini di sabbia. «Avevate ragione, Drai» disse per radio «c’è qualche composto che è straordinariamente volatile. Qui non ce n’è a sufficienza per dargli una buona occhiata… vado avanti perché voglio cercare un deposito più consistente.» Riprese il cammino verso il centro dell’area bianca. La zona era larga una cinquantina di metri, e Ken pensò che la copertura di sostanza volatile poteva essere più alta al centro. Era davvero così, ma la sostanza bianca non divenne mai così spessa da fermare il suo progresso. Il sentiero da lui seguito era nettamente segnato da macchie di terreno nudo, e la sostanza svaniva attorno al suo piede in un modo che aveva quasi del sovrannaturale. Ken, che avrebbe potuto guardarsi alle spalle senza voltare l’intero suo corpo, non lo notò, ma gli osservatori dalla nave se ne accorsero. Drai glielo disse per radio, e Ken rispose: «Ditemi se le impronte cessano: può darsi che si tratti di un posto dove questo materiale è abbastanza spesso per raccoglierlo. Vorrei dargli un’occhiata prima che evapori. In questo momento non so ancora di che materiale si tratti, e senza qualche dato non posso neppure fare delle supposizioni.» «La scia comincia ad assottigliarsi, adesso; ci sono delle macchie distinte tra loro, che corrispondono alla forma dei vostri piedi, invece delle grosse aree circolari unite tra loro che si vedevano prima. Ancora qualche altro passo, e dovreste farcela.» Qualche altro passo, e infatti ce la fece. Prima che Ken giungesse al centro della zona bianca, Drai riferì che non lasciava più una scia dietro di sé. Si affrettò a fermarsi, si appoggiò sul sostegno posteriore della tuta come aveva già fatto in precedenza, e raccolse una buona manciata della sostanza evanescente. Questa volta non c’era sabbia: il materiale era spesso alcuni centimetri. La massa che raccolse sul suo manipolatore cominciò immediatamente a ridursi, ma non così rapidamente da impedirgli di darle una buona occhiata. Era cristallina, milioni di minuscole sfaccettature che riflettevano la debole luce del sole; ma i singoli cristalli erano troppo piccoli per permettergli di determinare che forma avessero. La sostanza sparì prima che avesse la possibilità di esaminarla in modo esauriente, ma era poco probabile che riuscisse a osservarla meglio. Occorreva procurarsene un campione… e analizzarlo. Gli pareva di conoscere il modo per farlo, ma erano necessari alcuni attenti preparativi. Lo annunciò per radio ai compagni, e si preparò a fare ritorno alla nave. Forse, a causa della posizione seduta in cui era rimasto fino a quel momento, i suoi piedi non erano stati a contatto con l’armatura; forse, tutto preso dal suo interesse per le cose che lo circondavano, non si era accorto di quanto succedeva. Qualunque ne fosse la causa, soltanto quando si alzò in piedi sentì un’acuta lama di freddo che lo trafiggeva dai piedi al cervello. Per un attimo si appoggiò di nuovo al sostegno, per staccare i piedi dal morso di quello che, in teoria, doveva essere materiale isolante; poi capì che le cose, ad attendere, non potevano che peggiorare, e si spronò ad agire. Trattenendo a fatica un gemito di dolore, tese ogni muscolo per riportare fino al portello della nave l’ingombrante massa metallica; e nonostante il male, nella sua mente dominava un solo pensiero: niente di strano che la scia fosse diventata più sottile; gli stivali della sua armatura dovevano trovarsi a una temperatura non molto diversa da quella dell’ambiente circostante. Un gradiente di temperatura da cinquecento gradi sopra zero a cinquanta sotto zero era effettivamente eccessivo, per poco più di sette centimetri di acciaio, spazio vuoto, tubi di riscaldamento e fibra isolante, anche se la parte a temperatura più alta poteva approfittare di una robusta fonte di calore che la alimentava. Il dolore diminuì, man mano che si avvicinò al portello, ma la cosa non riuscì affatto a rallegrarlo; anzi lo spaventò. Se avesse perso il controllo dei piedi, sarebbe morto sotto gli occhi dell’equipaggio della Karella, perché a bordo non c’era un’altra tuta corazzata speciale da indossare per venire a prenderlo. Adesso aveva freddo anche in faccia: evidentemente perdeva per irradiazione anche attraverso il cristallo speciale della piastra visiva. Sentiva il freddo anche alla punta dei tentacoli, ma non così pungente come in altre parti del corpo; nel caso dei tentacoli era aiutato dal fatto che la mortale sostanza bianca aveva toccato soltanto i manipolatori, a una decina di centimetri di distanza dalle parti «abitate» della manica. Raggiunse il limite dell’area mortale, e vide che tra lui e il portello rimanevano soltanto trenta metri di terreno spoglio. Anche quel terreno era freddo. Doveva trovarsi alla stessa temperatura di tutto il resto dell’area, ma almeno non sembrava capace di risucchiare il calore. Il portello della camera di decompressione era aperto come lui l’aveva lasciato: una caverna di metallo che sembrava farsi sempre più lontana a ogni passo. Ken aveva tutta la gamba intorpidita al di sotto dell’articolazione più bassa; per la prima volta ringraziò la rigidità delle gambe dell’armatura, che le rendeva simili a trampoli, perché era soltanto grazie a essa che riusciva a controllare i piedi. Una volta, inciampò, ed ebbe il tempo di chiedersi se sarebbe mai riuscito a sollevare tutta quella sua mole; poi riuscì a rimettersi in piedi in qualche modo: non venne mai a sapere come, e nessuno dall’astronave fu in grado di dirglielo, ma riprese a camminare barcollando in direzione del portello. Ancora dieci metri… cinque… due… e con un sordo rumore metallico urtò contro lo scafo della Karella. Un altro passo e fu all’interno della camera di decompressione. Due, e si tolse dalla traiettoria del massiccio battente del portello. Con fretta, freneticamente, sferrò un colpo, con il braccio dell’armatura, alla leva che lo faceva chiudere. La colpì; la colpì con tale forza da piegarla, ma il circuito si chiuse e il portello, dietro di lui, si serrò con un tonfo: il suono dell’urto gli venne trasmesso dal metallo del pavimento e della tuta. E infine giunse l’aria, automaticamente, che si riversò nella camera di decompressione, condensandosi sul torso della sua armatura, gelando sulle estremità fino a diventare una crosta gialla. Quando la pressione fu risalita, il portello che dava accesso all’interno della nave si spalancò, rivelando le figure di Drai e di Ordon Lee ferme nel corridoio. Il primo rabbrividì sotto il soffio di aria gelida che usciva dalla camera di decompressione, e fece un passo indietro; ma il pilota, dando prova di prontezza di riflessi, corse a un armadietto poco lontano e prelevò una saldatrice a fiamma. Puntando la fiamma davanti a sé, si avvicinò con cautela a Ken. La crosta di solfo si vaporizzò istantaneamente quando venne sfiorata dalla fiamma, ma si riformò altrettanto rapidamente non appena la fiamma si spostò su un altro punto. Passarono lunghi secondi prima che il metallo fosse abbastanza caldo da rimanere libero da gocce di solfo, e ne passarono ancora altri prima che lo si potesse toccare per estrarre Ken, che era quasi in stato d’incoscienza. Dovettero poi passare molti minuti prima che gli sparisse dalle membra il dolore pulsante che provava, e prima che potesse riprendere a parlare coerentemente, ma alla fine si rasserenò alla constatazione di non avere subito danni permanenti. Non si era procurato nessun congelamento, anche se a giudicare dal colore della sua pelle c’era arrivato pericolosamente vicino. Drai e Lee, stupiti e inorriditi dei risultati di quella breve uscita, rimasero ancor più stupiti e inorriditi quando udirono che progettava di uscire ancora. Lo stesso Drai, per quanto desiderasse ottenere informazioni utili, fece un tentativo, anche se senza impegno eccessivo, di dissuaderlo dall’impresa. Ken non si lasciò dissuadere, e il suo datore di lavoro non ebbe grandi difficoltà a consolarsi. Dopotutto, la pelle era quella di Ken e non la sua. Ken aveva seguito il consiglio di Drai di portare sulla nave quello che pensava che gli potesse occorrere, e passò qualche tempo a cercare tra le pile di materiale prelevato nel laboratorio di Mercurio. Parve soddisfatto di ciò che trovò, e fece alcuni preparativi assai accurati che comprendevano alcune pesate molto precise. A questo punto, portò nella cabina di decompressione una certa quantità di attrezzature, e infine tornò a infilarsi la tuta corazzata. Ordon Lee l’osservava palesemente ammirato. Dall’oblò della cabina di comando, Drai e il pilota sorvegliarono il rapido tragitto di Ken fino alla scena dei suoi guai precedenti. Ken seguì la scia che lui stesso aveva lasciato e che era ancora chiaramente visibile, ed evitò accuratamente di toccare con qualche parte dell’armatura la sostanza bianca. Giunto al punto dove i suoi stivali, ormai freddi, non erano riusciti a fondere la misteriosa sostanza fino a raggiungere il livello del terreno, si fermò. Gli osservatori non riuscirono a seguire nei particolari le sue azioni, ma, a quanto pareva, Ken posò un oggetto sul terreno e continuò a farlo rotolare per qualche istante, facendo evaporare la sostanza bianca. Alla fine la sostanza non evaporò più, poiché la temperatura dell’oggetto era giunta a uguagliare quella dell’ambiente circostante; a questo punto, Ken raccolse il suo oggetto e lo aprì, suddividendolo nelle due parti componenti. Nella prima di queste parti infilò una certa quantità della sostanza misteriosa, servendosi di un normalissimo cucchiaio. Poi le due parti vennero nuovamente accostate, e lo scienziato dilettante si affrettò a raggiungere la camera di decompressione. Drai si affrettò a dirigersi verso il portello della camera di decompressione, aspettandosi di assistere a quanto stava succedendo; ma il portello rimase chiuso. Udì il sibilo dell’aria che entrava nella camera, e poi nient’altro. Attese alcuni minuti, sempre più perplesso, e alla fine fece lentamente ritorno nella cabina di comando. Durante il percorso, continuò a guardarsi alle spalle, ma il portello rimase chiuso. Comunque, quando entrò nella cabina di comando, Lee aveva qualcosa da riferire. «Sta di nuovo svuotando la camera di decompressione» disse il pilota, indicando una spia luminosa di colore viola intensissimo, che lampeggiava sul quadro dei comandi. Entrambi i sarriani si accostarono all’oblò situato dalla stessa parte dello scafo sulla quale si apriva la camera di decompressione, ma Lee continuò a tenere d’occhio anche l’indicatore che segnalava l’apertura del portello. L’indicatore si accese dopo alcuni secondi, e i due osservatori si schiacciarono con ansia contro il pannello trasparente, aspettandosi di veder comparire la figura di Ken, con indosso la pesante tuta corazzata. Anche ora, però, non successe niente. Dopo un minuto o due: «Per la Galassia, che cosa intende fare quel pazzo?» domandò Drai, rivolgendo la domanda, in generale, al mondo. Lee la considerò una domanda retorica, ma riportò sul quadro di comando una parte della sua attenzione. Anche ora trascorsero almeno cinque minuti buoni senza che succedesse niente; poi il portello esterno si chiuse di nuovo. Richiamando l’attenzione di Drai sul fatto che il portello si era chiuso, Lee continuò a guardare con aria d’attesa l’indicatore della pressione, che presto lampeggiò segnalando che la pressione aumentava. Non attesero più a lungo, e si avviarono fianco a fianco lungo il corridoio. A prima vista sembrava che Ken avesse davvero finito il suo lavoro; il portello interno era aperto quando giunsero laggiù. Questa volta non aveva permesso alla tuta di raffreddarsi, a quanto pareva; la superficie liscia era solamente velata da un po di vapore. Entro un minuto o due, Lee fu in grado di aiutarlo a uscire. Ken aveva un’espressione soddisfatta, che non sfuggì ai due osservatori. «Avete trovato che cos’era!» affermò, più che chiedere, Drai. «Ho trovato qualcosa che mi permetterà, tra poco, di scoprire che cos’è» rispose Ken. «Ma che cosa avete fatto? Perché siete uscito due volte?» «Dovete avermi visto mettere un campione nella bomba a pressione. L’ho chiusa e l’ho portata all’interno per far evaporare il campione e perché in questo modo la bomba si trovasse a una temperatura in cui mi potevo fidare delle indicazioni del manometro. Ho letto la pressione in corrispondenza di varie temperature, e ho pesato la bomba contenente il campione. L’avevo già pesata quando era vuota… o meglio, quando conteneva soltanto quella sorta di vuoto quasi assoluto che questo pianeta usa come atmosfera. Quando ho aperto il portello per la seconda volta, l’ho fatto per lasciare uscire il campione e per eseguire un controllo, alla stessa temperatura, con un campione dell’aria del pianeta: dopotutto, la prima volta deve avere dato il suo contributo alla pressione.» «Ma a cosa serve, tutto questo?» «Senza scendere in troppi particolari inutili, mi ha permesso di scoprire il peso molecolare della sostanza» disse Ken. «Non mi aspettavo niente di conclusivo, ma invece credo di avere trovato quello che cercavo: è così piccolo che gli elementi che possono essere contenuti in quella sostanza sono molto pochi… certo niente di più pesante del fluoro, e niente, credo, di più pesante dell’ossigeno. Ammetto che il mio calcolo può essere sbagliato di un’unità in più o in meno, poiché né l’apparecchio né le condizioni di osservazione sono precisamente quelle di laboratorio, ma non credo che l’errore possa essere molto superiore.» «E quant’è?» «Che cosa, il peso molecolare? Diciotto o diciannove.» «Quale elemento ha un peso del genere?» «Nessuno dei più comuni. Devo guardare nel mio manuale, come dicevo. Solo gli elementi più rari hanno peso atomico così basso.» «Se è così rara, può darsi che quella sostanza non sia così importante per la vita, dopotutto» disse Drai. Ken lo guardò per vedere se scherzava. «In primo luogo» disse, accorgendosi che non scherzava affatto «il semplice fatto che sia rara non significa che la vita non ne abbia bisogno. Noi usiamo quantità del tutto rispettabili di fluoro nel nostro corpo, per non citare lo zinco, l’arsenico e il rame. Può darsi che quest’altra forma di vita faccia lo stesso. In secondo luogo, il fatto che un elemento sia raro su Sarr non significa che sia raro anche sul Pianeta Tre: è un mondo molto più grande, e può darsi che abbia contenuto grandi quantità degli elementi più leggeri durante la sua formazione, anche se forse erano presenti sotto forma di gas allo stato puro.» Il gruppo, mentre parlava, aveva raggiunto la cabina di Ken, dove era riunita la maggior parte dell’attrezzatura scientifica. Entrarono tutti. Senza scusarsi, Ken si stese sull’unica spalliera disponibile e cominciò a sfogliare le pagine del suo manuale di chimica, nella parte dedicata ai composti inorganici. Intuiva che la sua misteriosa sostanza poteva contenere carbonio, ma certo non poteva contenerne più di un atomo per molecola, e dunque non c’era il pericolo che fosse una complicata molecola organica. In realtà, gli elementi chimici che potevano essere presenti erano soltanto otto, e le leggi della chimica limitavano notevolmente le possibili combinazioni di questi otto. Il più leggero era l’idrogeno, naturalmente; e Ken esaminò per primi i composti dell’idrogeno, poiché erano i primi di quella parte del manuale. Drai si era messo in un punto dal quale poteva vedere le pagine che Ken stava leggendo; il meno interessato o più flemmatico Lee rimaneva accanto alla porta e aspettava in silenzio. Era più preparato del suo datore di lavoro a una lunga sosta, in attesa che lo scienziato compisse la sua ricerca; rimase quindi ancor più stupito quando Ken, dopo pochi istanti dall’inizio della sua lettura, s’irrigidì all’improvviso: evidentemente aveva trovato qualcosa d’interessante. Anche Drai se ne accorse. «Cos’è?» domandò subito. Sia Ken, sia Lee capirono che intendeva riferirsi alla sostanza, e non al motivo dell’interesse di Ken. Senza pensarci, Drai suppose che il suo scienziato avesse trovato quello che cercava. «Un attimo» disse Ken. «Qui c’è un particolare che non concorda… ma il resto è perfetto… aspettate un attimo…» Ken tacque per qualche istante, poi riprese: «Certo. Questo a pressione normale.» Alzò gli occhi dal libro. «La sostanza sembra questa» spiegò. «Su Sarr è quasi sconosciuta, a causa del suo basso peso molecolare… la maggior parte di essa dev’essere sfuggita dalla nostra atmosfera intere epoche geologiche fa, sempre che sia stata presente. Secondo il mio manuale, dovrebbe essere liquida in un ampio intervallo di temperatura, ma questo alla nostra pressione atmosferica. È ragionevole che in questo vuoto passi direttamente allo stato di vapore per sublimazione.» «Ma che cos’è?» «Uno degli ossidi dell’idrogeno; il protossido, a quanto pare. Se risulterà essenziale per la forma di crescita che vi interessa, non sarà divertente maneggiarlo.» «Abbiamo a disposizione dei contenitori che si possono tenere alle condizioni ambientali esterne e rimorchiare dietro la nave» fece notare Drai. «Pensavo anch’io che li aveste» rispose Ken. «Comunque, le normali condizioni «esterne» nello spazio vicino al Pianeta Uno vaporizzerebbero quasi certamente questo materiale, proprio come è successo con la radiazione proveniente dalla mia tuta, che era relativamente debole. Occorrerà chiudere a tenuta d’aria i vostri contenitori e, come vi ho detto, non sarà facile trasferire il loro contenuto nella caverna che sceglieremo.» Laj Drai, per alcuni secondi, sembrò stupito. Poi, evidentemente, gli venne in mente qualcosa, e sulla faccia gli comparve un’aria soddisfatta. «Benissimo» disse «sono certo che riuscirete a trovare il modo. È a questo che servono gli scienziati, no?» Fu il turno di Ken di fare la faccia stupita, anche se ormai conosceva Drai da tempo sufficiente per aspettarsi qualcosa di simile. «Non ve li risolvete mai, da solo, i vostri problemi?» gli domandò, in tono un po acido. Drai annuì, lentamente. «Sì, a volte» disse. «Mi piace meditare su di essi per un certo tempo, comunque, e se si tratta di problemi scientifici non ho le conoscenze che mi occorrerebbero per meditare nel modo dovuto. È per questo che assumo persone come voi e come Feth. Grazie per avermelo ricordato… io ho effettivamente un problema da risolvere, in questo momento, e gli ho già dedicato un mucchio di riflessioni. Se mi volete scusare, mi dedicherò ora a dargli gli ultimi tocchi. Voi potete stare qui a lavorare sul vostro.» «Per il momento» disse Ken «su questo pianeta non abbiamo altro da fare.» «Non ne dubito. Ritorneremo al Pianeta Uno e alle vostre attrezzature di laboratorio. Venite, Lee… lasciamo lo scienziato alla sua scienza.» Ken, che di natura non era sospettoso, non sollevò neppure lo sguardo quando i due si allontanarono dalla cabina. Aveva appena trovato l’ammoniaca sulla lista, e si chiedeva se l’errore delle sue misure poteva essere talmente alto da far sì che il vero peso molecolare fosse soltanto diciassette. Ma i dati sulla temperatura di congelamento dell’ammoniaca lo rassicurarono. Per sicurezza, comunque, controllò tutti i composti dell’idrogeno, del litio, del berillio, del boro, dell’azoto e dell’ossigeno che erano elencati nel manuale. Il debole rumore che si udì nella cabina al decollo della nave non lo disturbò affatto. E non fece nessuna impressione su di lui neppure il fatto che la porta si fosse silenziosamente aperta. In effetti, la porta venne chiusa nuovamente con un piccolo tonfo, prima che Ken prestasse attenzione a qualcosa d’altro oltre alle pagine che leggeva. Poi una voce, nello stesso istante in cui la porta si chiudeva, infranse improvvisamente il silenzio. «Sallman Ken!» rimbombarono le parole, dall’altoparlante posto sopra la porta: era la voce di Laj Drai. «Ho detto un momento fa, quando ci siamo lasciati, che a volte so risolvere anch’io i miei problemi. E purtroppo voi siete diventato un problema. Pare che ci sia una sola soluzione che non mi costringa a dovere rinunciare ai vostri servigi. In un certo senso mi dispiace di doverla adottare, ma in realtà voi dovete accusare soltanto la vostra curiosità inopportuna. Quando vi risveglierete, potremo riparlarne… e potrete comunicarmi le vostre impressioni sul nostro prodotto commerciale!» La voce tacque, con uno scatto che indicava che il microfono veniva spento. Ken, allarmato, lasciò cadere il libro e si alzò in piedi… o meglio, lasciò la sua spalliera e galleggiò nell’aria, allontanandosi dal pavimento, poiché erano in caduta libera. I suoi occhi esplorarono rapidamente ogni angolo della stanza, alla ricerca di qualcosa che potesse spiegargli le parole piuttosto minacciose di Drai. Trascorsero parecchi secondi prima che lo vedesse: un mattoncino giallo rettangolare, che era sospeso nell’aria accanto alla porta. Per un momento non lo riconobbe, e, facendo pressione contro una parete, cercò di avvicinarsi a esso; poi, quando sentì il gelo che emanava da quell’oggetto, cercò inutilmente di fermare la propria traiettoria. Il mattoncino stava già perdendo la forma, i suoi spigoli si arrotondavano al calore dell’aria e si trasformavano in vapore. Era solfo congelato: abbastanza innocuo, in sé e per sé, se si evitava di toccarlo, ma terribile se considerato alla luce delle conoscenze e dei sospetti di Ken. Battendo freneticamente i tentacoli, Ken riuscì a sollevare una corrente d’aria sufficiente a spostare l’oggetto dalla traiettoria del suo moto; ma un’occhiata altrettanto ansiosa rivolta a tutta la stanza non rivelò niente che potesse servirgli come maschera antigas. Non riuscì a distogliere gli occhi dall’oggetto che si faceva sempre più piccolo, e che adesso era un ellissoide piuttosto allungato. Continuò a ridursi implacabilmente; e all’improvviso Ken riuscì a scorgere qualcosa d’altro in mezzo al giallo: l’estremità di un piccolo cilindro bianco. Quando svanì l’ultimo pezzetto della custodia protettiva, il cilindro divenne prima marrone e poi nero su tutta la sua superficie, e fu avvolto da una nube sferica di fumo. Per un istante, nella mente di Ken lampeggiò una selvaggia speranza: quella cosa doveva bruciare, e un fuoco non rimaneva acceso in caduta libera. Richiedeva un tiraggio. Forse quell’oggetto si sarebbe spento da solo… ma la nube di fumo continuava ad allargarsi. A quanto pareva, l’oggetto era stato impregnato di schegge di aria congelata, perché la combustione non scemasse. Adesso i bordi della nube di fumo si sfilacciavano a causa della diffusione, che ne portava le particelle in tutta la stanza. Ken colse le prime tracce di un odore dolciastro e cercò di trattenere il respiro, ma ormai era troppo tardi. La decisione di fare questo tentativo fu il suo ultimo pensiero cosciente. 12 «Allora, hanno deciso di tenervi.» Nel tono di Feth Allmer poteva forse esserci una debole traccia di condoglianza. «Non mi stupisce. Quando Drai ha sollevato con me tutta quella tempesta di polvere perché pensava che vi avessi detto la distanza tra questo sistema e Sarr, ho capito che dovevate avere fatto qualche indagine per conto vostro. Chi vi manda, rivali commerciali oppure la narcotici?» Ken non rispose. Non aveva voglia di parlare. Ricordava quanto bastava, del suo sonno causato dalla droga, per comprendere alcune cose di se stesso che nessuna persona ragionevole dovrebbe essere costretta a conoscere. Aveva sognato di godersi viste e piaceri il cui ricordo, ora, gli dava soltanto disgusto… eppure, al di sotto di quel disgusto, c’era l’orrenda sensazione di averne provato piacere, e di poterlo ancora provare altre volte. Non c’è una vera possibilità di descrivere le sensazioni di un tossicodipendente, né quelle che prova quando è sotto l’influsso del narcotico, né quando è in crisi di astinenza e la droga diventa una necessità fisica; ma in quel momento, a meno di un’ora di distanza da quando era stato sotto il suo influsso, lo stato mentale di Ken era forse comprensibile. Feth era certo in grado di capirlo, ma non pareva intenzionato a soffermarsi sull’argomento. «Ormai, chi vi ha mandato non ha più importanza, e neppure il fatto che l’intera banda lo sappia oppure no» continuò, dopo avere atteso invano la risposta di Ken. «La cosa non darà più preoccupazioni a nessuno. Sanno che siete definitivamente loro, indipendentemente da quello che pensate al momento. Aspettate che vi venga la prima crisi di astinenza, e vedrete.» La questione era abbastanza importante agli occhi di Ken da indurlo a vincere l’apatia. «Quanto ci vorrà?» chiese. «Cinque o sei giorni. Varia da una persona all’altra. Accettate un consiglio, adesso. Non mettetevi contro Drai… né adesso, né in seguito. L’equipaggio di questa nave è completamente in mano sua. Se vi negherà il tafacco anche solo per una mezz’ora quando sarete in crisi di astinenza, non ve ne dimenticherete più. Io non sono ancora riuscito a togliermi di dosso il sospetto di avervi comunicato la nostra posizione.» Ancora una volta, la sorpresa spinse Ken a parlare. «Perché…? Anche voi…?» chiese. «Se sono anch’io un «annusatore»? Certo. Mi hanno preso alcuni anni fa, esattamente come è successo a voi, quando ho cominciato a capire cosa succedeva qui dentro. Non conoscevo la posizione di questo pianeta, ma il mio lavoro richiedeva di recarmi di tanto in tanto a prendere dei ricambi meccanici, e hanno voluto evitare il pericolo che parlassi.» «È per questo che avete cercato di far finta di non vedermi, quando ci siamo incontrati sulla rampa che porta all’osservatorio, subito dopo essere rientrati dalle caverne?» «Mi avete visto uscire con la droga dall’ufficio? Non me n’ero accorto. Sì, il motivo era questo.» La faccia di Feth, che già normalmente era scura, divenne ancor più scura al ricordo. Ken ritornò alle sue tristi riflessioni, e giunse gradualmente a una decisione. Esitò per qualche istante, prima di decidersi a parlare, ma si disse che non correva nessun pericolo dicendolo a Feth. «Forse voi non siete più in grado di liberarvi dalla schiavitù di questa sostanza, non lo so. Ma io cercherò di farlo, con tutte le mie forze.» «Non dubito che cercherete di farlo. L’ho fatto anch’io.» «Be, può darsi che non riesca a farlo neppure io, ma Drai non deve illudersi che io sia disposto ad avviargli la produzione in massa di questa infernale sostanza. Può tenermi sotto il suo potere, ma non può costringermi a pensare.» «Può farlo, se ha l’impressione che non mettiate abbastanza impegno nel vostro lavoro. Ricordate cosa vi ho detto: non c’è nessun atto aperto di ribellione che valga il rischio. Non so se Drai si diverta a togliere la droga a un tossicodipendente, ma non esita a farlo, se la cosa gli pare necessaria… e qui siete colpevole finché non è stata provata la vostra innocenza. Se fossi in voi, mi dedicherei alla preparazione di quelle caverne.» «Forse voi lo fareste. Io, comunque, vedrò di fare in modo che quelle caverne non gli siano di nessuna utilità.» Feth rimase in silenzio per qualche istante. Se anche era stato offeso dai sottintesi contenuti nelle parole di Ken, dal tono di voce non lo dimostrò. «Questo, naturalmente, è il vostro punto di vista. Ma prima di giudicare, riflettete. Vi siete mai chiesto com’è possibile che Drai non abbia fatto alcun progresso nell’esplorazione del Pianeta Tre in tutti i diciassette anni che ho passato con lui?» Per quasi un minuto, Ken osservò il meccanico, e l’immagine che si era fatto di Feth Allmer subì un completo capovolgimento. «No» disse infine «non ci avevo pensato. E invece avrei dovuto farlo… ho pensato, però, che alcuni degli ostacoli che impedivano lo studio del pianeta erano un po strani. Intendete dire che siete stato voi a fare in modo che i tubi televisivi si rompessero, e tutto il resto?» «I tubi, certo. Questo è stato abbastanza facile… mi è bastato fare in modo che ci fossero delle incrinature sul vetro poco prima della partenza della sonda.» «Ma voi non eravate qui, quando le prime sonde sono andate perdute, vero?» «No, in quei casi si è trattato di fenomeni naturali. E anche gli impulsi radio che riceviamo sono veri. Non so se questa idea di una razza ostile che abita nelle pianure azzurre del Pianeta Tre corrisponda alla verità o no, ma è un’ipotesi non priva di giustificazioni. Qualche volta ho avuto la tentazione di mettere su una sonda lo spessore sbagliato di copertura anti-radar, per far loro capire che riuscivamo a scendere lo stesso… ma poi mi sono ricordato che la cosa rischiava di mettere la parola fine ai rifornimenti di tafacco che riceviamo. Aspettate qualche giorno, prima di condannarmi.» Ken annuì, per fargli capire che comprendeva benissimo i suoi motivi; poi sollevò bruscamente la testa perché era stato colto da una nuova idea. «Allora, l’insuccesso della tuta che abbiamo mandato su Tre non è stato naturale?» «Temo di no» rispose Feth, con un leggero sorriso. «Ho stretto troppo le fasce di chiusura delle giunzioni ai ginocchi, ai fianchi e ai manipolatori, mentre voi guardavate da un’altra parte. Si sono ristrette quanto bastava per lasciar uscire l’aria, immagino. Ricordate, non ho visto la tuta. Non voglio che voi scendiate su quel pianeta, temo che riuscireste a fare troppe cose per questa banda, e in troppo poco tempo.» «Adesso» disse Ken «la cosa non ha più importanza. Non possiamo trovare una scusa per ripetere l’esperimento?» «Per quale motivo? Pensavo che non voleste aiutarli.» «Certo, ma c’è una certa differenza tra il dare una semplice occhiata a un pianeta e il prelevare dei campioni di tafacco capaci di riprodursi in un altro ambiente. Se inviaste una persona su Sarr, che probabilità avrebbe di atterrare in vista di una pianta di gree? E se anche ci capitasse vicino come fareste a saperlo se non fosse lui stesso a dirvelo?» «La prima osservazione» disse Feth «non è del tutto esatta; questo tafacco potrebbe trovarsi dappertutto, come il mekko… sarebbe difficile evitare di finirci dentro. La seconda osservazione, però, adesso acquista un nuovo peso.» E sorrise veramente, per la prima volta da quando Ken lo conosceva. «Vedo che siete uno scienziato, dopotutto. Nessun agente della narcotici darebbe importanza al pianeta in sé e per sé, date le circostanze. Benissimo, mi aspetto che si possa ripetere l’esperimento con maggiore fortuna, anche se io non sarei disposto a scendere di persona sul pianeta per niente al mondo.» «Scommetto che c’è una cosa» disse Ken «che potrebbe indurvi a farlo. Una sola.» Feth non sorrise più. «Sì, una cosa c’è» disse, in tono cupo. E aggiunse: «Ma non vedo come. Occorrerebbero anni, anche a un competente ricercatore medico, con tutte le risorse scientifiche di Sarr a disposizione. Che speranza ci può essere, qui?» «Non saprei, ma nessuno di noi è rimbecillito» replicò Ken. «Dovranno passare degli anni, prima che io abbandoni ogni speranza. Controlliamo sia la tuta che avete preparato per la discesa, sia quella che ho indossato sul Pianeta Quattro. Ci possono essere utili per capire da che pericoli dobbiamo guardarci.» Era la prima volta che Feth sentiva parlare della discesa di Ken sulla superficie di Marte, e lo disse. Ken gli descrisse esaurientemente la sua impresa, mentre il meccanico ascoltava con attenzione. «In altre parole» disse Feth, alla fine del racconto «non avete incontrato nessun fastidio finché non siete entrato direttamente in contatto con questa sostanza che, secondo voi, dev’essere protossido d’idrogeno. Questo significa che si tratta di una sostanza che è straordinariamente buona conduttrice, o che ha un’enorme capacità termica, o un altissimo calore di vaporizzazione, o tutte queste cose insieme. Giusto?» Ken dovette ammettere, con una certa sorpresa, che il ragionamento era giusto. Fino a quel momento, lui stesso non aveva riassunto nella propria mente con tanta esattezza gli elementi a sua disposizione. Feth proseguì. «Al momento non sappiamo se sul Pianeta Tre ci sia questa sostanza, e in che quantità, ma è probabile che ce ne sia. Ne segue che il principale pericolo, su quel pianeta, pare essere quello di incontrare depositi di quel composto chimico. Sono certo di riuscire a isolare una tuta in modo che non subisca eccessive perdite di calore per conduzione o convezione nei gas atmosferici, indipendentemente dalla natura di questi gas.» Ken cominciava a sospettare che Feth, ai suoi tempi, fosse stato qualcosa di più che un semplice meccanico, ma non lo disse. Si limitò all’argomento della conversazione. «Sembra giusto» disse. «Io ho visto quella sostanza, ed è facile riconoscerla, cosicché non dovrei avere difficoltà a evitarla.» «Voi avete visto la forma solida» disse Feth «che sublimava in un vuoto quasi assoluto. Il Pianeta Tre ha una notevole pressione atmosferica, e il composto può anche trovarsi allo stato liquido. Se vi capita di vedere da qualche parte una chiazza di liquido, quale che sia, vi consiglio di tenervi bene alla larga da essa.» «Mi sembra giusto… però, se il pianeta è simile a Sarr, c’è una possibilità su mille di arrivare nei pressi di una zona liquida.» «I nostri guai» fece notare Feth, asciutto «finora sono sempre nati dal fatto che questo pianeta non è affatto simile a Sarr.» Ken dovette ammettere che il collega aveva ragione, e aggiunse anche questa affermazione al lungo elenco di casi in cui Feth si era comportato in modo imprevedibile. Il riserbo di Feth era sparito a tal punto che adesso il meccanico gli sembrava una persona completamente diversa. Portarono in laboratorio le tute e le esaminarono con estrema attenzione. Quella usata sul Pianeta Quattro non pareva avere subito danni, e Ken e Feth passarono gran parte del tempo a esaminare l’altra. Questa volta l’esame fu molto più accurato di quello svolto da Ken all’interno dell’astronave, e vennero scoperti due nuovi particolari. Oltre al deposito azzurrognolo notato da Ken sul metallo, e che ora, a quanto poterono finalmente accertare, risultò contenere ossidi, altre incrostazioni in punti meglio protetti mostrarono le righe spettroscopiche del potassio: uno tra i pochi spettri che Ken era in grado di riconoscere. Quando poi le incrostazioni vennero riscaldate, Ken avvertì distintamente l’odore del bisolfuro di carbonio, la cui presenza, agli occhi del chimico, era del tutto inesplicabile. Ken conosceva i composti gassosi di entrambi gli elementi, ma non riusciva a capire come si fosse potuta formare, da quelli, una sostanza che rimaneva solida alla temperatura che era normale per un sarriano. Naturalmente, Ken non conosceva la costituzione dei pianeti di tipo terrestre, e non aveva visto il fuoco che, con i suoi resti, aveva tanto sorpreso Roger Wing. Anche la migliore immaginazione ha dei limiti, quando mancano i dati. Come predetto da Feth, le guarnizioni di tenuta avevano ceduto in corrispondenza delle articolazioni, e nel materiale isolante poterono rintracciare tracce di ossidi. A quanto pareva, l’aria del pianeta era entrata all’interno della tuta, o per diffusione, o per caduta della pressione interna quando il solfo si era solidificato. «Credete che possa succedere anche quando le guarnizioni sono strette alla giusta pressione?» domandò Ken, dopo avere controllato l’isolante. «No, a meno che non si guasti il sistema interno di riscaldamento» disse Feth. «In questo caso, però, ve ne accorgereste. Le fasce troppo strette hanno bloccato la circolazione del liquido di riscaldamento all’interno dello strato che equalizza la temperatura, e al primo grave raffreddamento locale non c’è stato l’intervento dei riscaldatori centrali. I riscaldatori locali non sono sufficienti, e una volta che il liquido si congela in corrispondenza delle articolazioni, la tuta si blocca nel giro di pochi istanti. «Suppongo che come liquido di riscaldamento potremmo usare qualcosa con un punto di congelamento inferiore a quello dello zinco… da questo punto di vista, i migliori sarebbero potassio e sodio, ma a causa della loro facilità di reazione chimica sono complicati da maneggiare. Stagno e bismuto vanno bene come temperatura, ma la loro capacità termica è molto più bassa di quella dello zinco. Secondo me, il miglior compromesso è rappresentato dal selenio.» «Vedo che avete dedicato molta attenzione a questi argomenti» commentò Ken. «Che difetti hanno i liquidi a bassa capacità termica?» «Devono circolare molto più in fretta, e non so se le pompe sono in grado di reggere: entrambi questi elementi sono molto più densi dello zinco. Il selenio non sarebbe sufficiente come capacità termica, ma con la sua bassa densità non sovraccarica le pompe. L’unico guaio è che non possiamo procurarcelo. Era solo un’idea, tanto per parlare. Se non succede niente di strano, lo zinco va bene. Comunque, potremo accertarcene nel corso della prossima prova.» «E come giustificherete la prossima prova, quando Drai ve ne chiederà la ragione?» volle sapere Ken. «Non starò a spiegargliela nei particolari» disse Feth. «Drai non me li chiederà. Gli piace vantarsi di non conoscere le scienze… per poi dire che assume i cervelli quando ne ha bisogno. Noi ci limiteremo a dire che abbiamo trovato il modo di superare gli inconvenienti che hanno portato all’insuccesso del primo, tentativo… cosa del resto abbastanza vera.» «E nel corso della prossima prova, non potremmo far scendere anche una telecamera, in modo da vedere cosa succede?» «Non saprei come nascondere la cosa: i segnali che possiamo raccogliere qui, li possono raccogliere ancor meglio di noi all’osservatorio. Potremmo dire che vi è venuta un’idea anche sulle telecamere, e che la vogliamo sottoporre a una prova.» «Sì» disse Ken «ma forse è meglio fare un passo alla volta. Non vorrei che Drai cominciasse a pensare che siete uno sciocco… o, peggio ancora, un imbroglione mistificatore.» «Grazie… speravo che lo teneste presente. Comunque, la cosa ha poca importanza: non vedo perché non si possa prendere la Karella, metterla in orbita attorno a Tre e fare le prove da laggiù. Il viaggio richiede pochi minuti, e se le prove avessero buon esito potreste subito scendere sul pianeta anche voi. «So che dovranno passare diversi giorni prima che Drai abbia bisogno della nave: anzi, probabilmente passeranno settimane. Ricevono otto o dieci consegne di tafacco dal pianeta durante la ‘stagione, e tra una consegna e l’altra passano alcuni giorni. Dato che l’intero commercio viene svolto mediante le sonde, Lee non ha niente da fare per tutto il periodo.» «L’idea mi attira. La caduta libera continua a piacermi poco, ma preferisco qualche ora di caduta libera a giorni e giorni d’attesa. Andate a dirlo a Drai. Un’altra cosa, portiamo qualche tuta di riserva, questa volta. Per qualche momento, la mancanza di tute di scorta mi ha dato delle preoccupazioni, su Quattro.» «Giusto» disse Feth. «Controllerò tre tute, e poi andrò a fare visita a Drai.» La conversazione s’interruppe, e per alcune ore venne svolta una notevole mole di lavoro costruttivo. Le tre armature vennero controllate nel modo dovuto, questa volta, e Feth non si tirò indietro. Pompe, valvole, articolazioni, riscaldatori: ogni cosa venne controllata, sia da sola, sia collegata al resto. «Un vero professionista le metterebbe alla prova nel mercurio liquido, come controllo finale» disse Feth, togliendosi di dosso l’ultima delle tute corazzate «ma noi non abbiamo mercurio, non abbiamo un posto dove provare le tute, e la prova non ci direbbe niente sulle effettive condizioni di temperatura che queste tute dovranno sopportare. «Vedrò cosa mi dirà Drai sull’impiego della nave: non possiamo far partire tre sonde alla volta, e vorrei essere certo che le tute funzionino, per evitare la sorpresa che una si rompa quando è su Tre.» Mentre parlava, aveva messo via i suoi attrezzi. Una volta fatto questo, si avviò in direzione del telefono interno, ma poi ci ripensò e si fermò prima di prenderlo. «Meglio parlargli di persona» disse, uscendo dal laboratorio. «Drai è uno strano tipo.» Ritornò qualche minuto più tardi. Sorrideva. «Dobbiamo andare tutt’e due» disse. «L’ha fatto presente senza lasciare alcun margine agli equivoci. Voi non siete ancora mai stato in crisi di astinenza da tafacco, e lui ha paura che facciate qualche colpo di testa, se vi lascia da solo. Inoltre, in questo modo è sicuro che vi riporterò alla base in tempo per prendere la mia solita dose. Drai non mi ha detto tutto questo, capite, ma era abbastanza facile capire che cosa aveva in mente.» «Non possiamo nascondere a bordo una quantità di tafacco sufficiente a permetterci di ritornare su Sarr?» «Parlando per me, io non sarei in grado di ritornare su Sarr. E mi pare che non conosciate la direzione neppure voi. Inoltre, dato che lo stesso Drai non riesce a contrabbandare fino a Sarr la sua roba, come pensate che io possa fargliela passare sotto il naso senza che lui se ne accorga? Io non posso mettermi un refrigeratore sulla schiena, e sapete anche voi cosa succede se quella roba si scalda.» «Va bene. Per qualche tempo giocheremo con le carte che sono in tavola. Andiamo.» Mezz’ora più tardi, la Karella si tuffava nel gelido buio. Pressappoco nello stesso tempo, Roger Wing cominciò a sentire freddo anche lui, e decise di rinunciare, per quella notte, alla guardia. Cominciava a sentirsi un po scoraggiato, e rientrando poco più tardi nella sua stanza da letto, per la via della finestra e fra elaborate precauzioni di silenzio, e nascondendo sotto il letto la corda, si chiese seriamente se fosse il caso di continuare la vigilanza. Forse lo strano visitatore non sarebbe mai più ritornato, e se avesse ancora aspettato a parlarne al padre, sarebbe stato più difficile portargli qualche prova concreta di ciò che era successo. Si addormentò senza risolvere il problema… all’incirca nel momento in cui la sonda che provava le tute entrava nell’atmosfera, qualche chilometro sopra di lui. 13 La Karella era sospesa in orbita, immersa nell’ombra della Terra, molto al di là delle ultime tracce dell’atmosfera. La bussola sferica indicava una direzione che sarebbe stata quella del filo a piombo se ci fosse stata gravità. Ordon Lee era occupato a leggere, e dava automaticamente un’occhiata al suo amato quadro di comando ogni volta che una spia luminosa si metteva a lampeggiare: cosa che accadeva spesso, poiché Ken e Feth svolgevano i test delle tute corazzate con una tecnica da catena di montaggio. Una delle tute era già ritornata ed era stata controllata; Feth si trovava all’interno della camera di decompressione, il cui portello esterno era aperto, e indossava una normale tuta spaziale. Era intento a staccare dalla sonda la seconda corazza e a mettere al suo posto la terza. Si teneva in contatto radio con Ken, che era all’interno della nave, davanti al quadro di comando delle sonde. Lo scienziato teneva la sonda, come meglio poteva, parzialmente all’interno della camera di decompressione, che però non era fatta per quel tipo di manovre e che non era abbastanza grande per l’intera lunghezza del proiettile. Anche Feth aveva i suoi guai a causa di questo, e la spia che segnalava che il portello era ingombro, sul quadro di comando di Lee, lampeggiava freneticamente. Quando la sonda si tuffò ancora una volta verso la buia superficie sottostante, le cose si tranquillizzarono per qualche tempo… ma solo per qualche tempo. Feth portò all’interno della nave la seconda tuta, e dovette chiudere il portello esterno per farlo, cosa questa che diede origine a uri nuovo spiegamento di luci colorate che disturbarono le letture del pilota. Poi rimase soltanto la spia che segnalava la distanza della sonda e che diventava sempre più debole, e il compito di dover badare a due cose nello stesso tempo passò a Ken. Doveva rimanere al suo quadro di comando, ma cercò disperatamente di vedere cosa facesse Feth. Ken sapeva già che la prima delle tute si poteva indossare: la sua temperatura interna era scesa solamente di una quarantina di gradi, cifra che rappresentava una perdita di calore perfettamente sopportabile dal suo metabolismo; inoltre, il sistema di riscaldamento era stato regolato da Feth sul minimo, in modo da poter misurare le perdite di calore. Una volta regolato il riscaldamento sui valori normali, Ken doveva trovarsi a proprio agio sul Pianeta dei Ghiacci: almeno, quanto lo poteva essere una persona che si portava addosso settanta chili di metallo. Saputo questo, la seconda tuta, che in quel momento veniva controllata da Feth, non destava in lui eccessive preoccupazioni; ma si accorse di non riuscire a dedicare molta attenzione al lavoro che stava svolgendo. Rimase un poco stupito quando udì suonare un segnale posto sul quadro di comando della sonda: il segnale indicava che la sonda era sottoposta a una pressione esterna. Ken non aveva ridotto la velocità, ed era ben lontano dai margini di sicurezza, cosicché, per qualche minuto, ebbe molto da fare; e quando finalmente la sonda giunse a terra… senza niente di rotto, si augurò Ken… Feth aveva terminato i suoi controlli. Adesso le tute utilizzabili erano due. Questo tolse di mente a scienziato e meccanico la principale delle loro preoccupazioni, e non se la presero quando la terza tuta fallì la prova. Ken sospettava quale potesse essere il motivo: Feth aveva trovato che le perdite si erano verificate in corrispondenza delle articolazioni del ginocchio e del «gomito», due punti che dovevano essere stati messi sotto forte sforzo durante le manovre di accelerazione. Non parlò di questa sua ipotesi, e Feth non fece domande. Ma Ken aveva l’inquietante impressione che il meccanico, con le sue strane conoscenze di chimica e di fisica, fosse perfettamente in grado di capire da solo com’erano andate le cose. Questa preoccupazione, ammesso che così la si potesse chiamare, sparì comunque subito nell’agitazione degli ultimi preparativi per la discesa. Ordon Lee si rifiutò decisamente di abbassare la sua astronave per farla entrare nell’atmosfera della Terra, da lui ritenuta un pericoloso assorbitore di calore, anche dopo il ritorno di due delle tute; di conseguenza, Ken fu costretto a scendere nello stesso modo in cui erano scese le tute vuote, ossia appeso a una sonda. Occorreva però spostare gli attacchi in modo che lo stesso Ken fosse in grado di staccarsi dalla sonda da solo, e questo richiese un po di tempo. Ken consumò un buon pasto, e prese l’inconsueta precauzione di bere. Di solito, i sarriani metabolizzavano nei propri tessuti tutto il liquido loro occorrente. Forse lo scienziato ebbe dei dubbi, infilandosi nella massa metallica che nelle prossime ore doveva essere la sua unica difesa nei riguardi del più orrendo ambiente che poteva immaginare, ma il suo orgoglio non gli permise di mostrarli. Non fece commenti mentre Feth collocava attentamente al suo posto la parte più alta della tuta… in quelle tute si entrava dalla cima… e mentre ascoltava con un minuscolo stetoscopio il funzionamento delle pompe che facevano circolare il liquido di riscaldamento. Poi, soddisfatto, il meccanico rivolse un cenno d’assenso allo scienziato chiuso nell’armatura; Ken si afferrò a un corrimano con uno dei suoi manipolatori, e così spinse in direzione del portello quella sorta di carro armato che indossava. Dovette attendere nel corridoio mentre Feth tornava a indossare la tuta leggera, e poi all’interno della camera di decompressione, pazientemente, mentre Feth legava l’armatura alla parte esterna della sonda. Lee si era finalmente deciso a dare loro una mano, e pilotava la sonda in modo da farla rimanere all’interno della camera di decompressione nonostante la spinta dei repulsori di meteore, che non aveva voluto spegnere neppure per un istante. Anche dopo che il portello esterno fu chiuso tra lui e il resto dello spazio abitabile entro centinaia di milioni di chilometri, Ken riuscì a mantenere l’autocontrollo. Fortunatamente, ormai si era abituato all’assenza di peso: una sensazione che aveva gravi effetti mentali su molte persone. E non gli dava fastidio neppure il vuoto dello spazio che lo circondava, poiché riusciva a distinguere un numero di oggetti sufficiente a orientarlo. Le stelle visibili da quel sistema erano quasi altrettanto numerose quanto quelle che poteva vedere dal suo pianeta natale, poiché duecento parsec significano poco, rispetto alle dimensioni della galassia. Infatti, conservò la calma finché anche gli occhi, oltre al senso di equilibrio, non gli dissero che stava cadendo. La Karella era ormai svanita da tempo dietro, o sopra, di lui. Il sole era pressappoco nella stessa direzione, poiché non c’era stato bisogno di discussioni per decidere di scendere nella zona illuminata del pianeta. Era stata invece necessaria una lunga discussione prima di scegliere il solito vecchio punto di atterraggio: Ken, naturalmente, voleva vedere gli indigeni, ma anche la sua curiosità scientifica era disposta ad arrendersi di fronte alle considerazioni dettate dalla cautela. Feth, che considerava quella discesa unicamente alla stregua di un’ulteriore prova dell’armatura, si era opposto a eventuali contatti con gli indigeni perché a suo parere costituivano unicamente una complicazione in più; ma poi la curiosità l’aveva avuta vinta. Ken scendeva in direzione del radiofaro presso cui si svolgeva il commercio: l’intesa era che lo avrebbero fatto posare un poco più a ovest. Lui era più che disposto a conoscere il «suo» indigeno, ma non voleva disturbare il commercio. Comprendeva, naturalmente, che era molto probabile che le creature che abitavano sul pianeta fossero in grado di muoversi con i propri mezzi, ma evitava decisamente di pensare a quel che poteva essere successo se la creatura da lui spaventata si fosse messa in contatto con quelle che commerciavano; le considerava ipotesi da cui non c’era niente da guadagnare, che era appunto il rischio che correvano tutti. Il risultato di tutte le discussioni, comunque, era stato che adesso poteva vedere chiaramente allargarsi il pianeta sotto di lui: la sensazione, infatti, era che il pianeta fosse sotto, perché in quel momento Feth faceva rallentare la discesa della sonda. Ken non poteva vedere lo scafo a cui era legato, perché la sua armatura era in contatto con la sonda dalla parte della schiena, e le aperture posteriori di osservazione erano quasi completamente a contatto con il metallo. Cominciava perciò a sentirsi come un uomo che si calava a pancia in giù in un precipizio mediante un cavo la cui resistenza era dubbia. Se il suo apparato vocale fosse stato strettamente collegato a quello respiratorio come accade per gli esseri umani, la radio avrebbe certo rivelato le sue ansie agli ascoltatori che stavano sopra di lui. Invece, dall’astronave non furono in grado di udire il suo respiro affannato, e Ken dovette vincere da solo e in silenzio i suoi terrori. E probabilmente fu meglio così; la reazione di Ordon Lee non sarebbe certo stata di comprensione, e quanto a Feth, anche se avesse preso parte alle sue angustie, era poco probabile che esprimesse a voce i suoi sentimenti. Intorno c’era adesso dell’aria: o quanto meno, la miscela gassosa che costituiva l’atmosfera di quel pianeta. L’aria fischiava attorno a lui, ed era udibile perfino all’interno dell’armatura. Non poteva, distare più di sette o otto chilometri dalla superficie, e la discesa era ancora rapida… troppo rapida, anzi, a parer suo. Come in risposta a questo pensiero, il suo peso aumentò improvvisamente: Ken capì che Feth, dall’astronave, aveva dato potenza ai motori. Con uno sforzo, Ken distolse l’attenzione dallo spettacolo del paesaggio che, sotto di lui, si allargava sempre di più, e dal cigolio delle catene che si tendevano al di sopra della sua testa, e si concentrò sui particolari. Una volta che ebbe iniziato, la cosa divenne più facile, perché gli aspetti fuori dell’ordinario, attorno a lui, erano numerosi e non si limitavano soltanto alla temperatura. Naturalmente, non poteva vedere molto lontano. Occhi la cui massima sensibilità sta nel campo dell’azzurro e del violetto non sono molto efficienti nell’atmosfera velata della Terra. Comunque, il territorio sotto di lui continuava ad acquisire sempre nuovi dettagli. Era un terreno molto corrugato, come avevano dedotto nelle loro osservazioni dall’orbita. Anche se le montagne non si presentano certo nel loro aspetto migliore quando sono osservate dall’alto, l’esperienza di Ken era sufficiente a fargli capire che si trattava di altezze del tutto rispettabili secondo i criteri di Sarr. La superficie era sepolta sotto una confusione di colori, soprattutto sfumature di verde, marrone e grigio. Qua e là, qualche distesa piana, dalla lucentezza metallica, gli ricordava con inquietudine le vaste, lisce aree dove abitavano le intelligenze del pianeta, misteriose e ostili. Forse le piccole aree lucenti erano dei loro avamposti… ma, si disse Ken, non avevano mai interferito con le sonde commerciali che da anni continuavano a scendere in quell’area. Quando la sua quota si fu ridotta, vide che alcune delle alture grige avevano una forma molto strana: molte di esse erano più grandi in alto che in basso. Dovette però scendere molto di più, prima di accorgersi che quegli oggetti non facevano parte del paesaggio, ma in realtà erano sospesi nell’aria. Le uniche nubi che aveva visto in precedenza erano le grandi tempeste di polvere sollevate dai furiosi venti di Sarr, ma pensò che avessero la stessa natura. Probabilmente erano costituite di particelle molto più piccole, per permettere loro di rimanere in sospensione: un pianeta così freddo non poteva avere venti molto forti. Descrisse il fenomeno ai suoi ascoltatori con tutta la precisione di cui fu capace. Feth riferì che stava registrando le trasmissioni di Ken, e gli fornì alcune utili informazioni. «La vostra discesa si è quasi fermata, adesso. Siete a circa un chilometro è mezzo al di sopra del trasmettitore, e a un centinaio di metri al di sopra del punto dove avete fatto i test sull’atmosfera. Volete scendere subito, oppure preferite rimanere fermo dove siete, e osservare per qualche tempo la zona circostante?» «Fatemi scendere a moderata velocità, per favore. Non è possibile vedere molto lontano, e vorrei scendere in un punto dove si possano scorgere dei particolari interessanti. Sembra una regione montuosa… cercherò di darvi delle indicazioni esatte, per farmi scendere vicino a una cima, in modo di posarmi su un punto fermo, da cui si possa osservare una zona estesa.» «Benissimo, vi faccio scendere.» Passarono due o tre minuti senza che nessuno parlasse; poi Ken riprese la parola. «Mi state facendo muovere anche in senso orizzontale?» «No, siete già a una certa distanza dal trasmettitore… cinque o sei chilometri.» «Allora, in questa atmosfera ci sono delle correnti più forti di quanto mi aspettavo. Mi sto spostando in modo assai visibile, anche se non rapidamente. È difficile definire la direzione… il sole non è molto lontano dalla verticale, e lo scafo della sonda me lo nasconde.» «Quando sarete quasi a terra, datemi la direzione rispetto all’orientamento della sonda. Vi farò fermare prima di toccare il suolo.» Gradualmente, i particolari divennero più chiari. Le parti di colore verde parevano essere costituite da una massa intricata di materiale che assomigliava a certe crescite cristalline che in passato Ken aveva preparato a partire da varie soluzioni; come ipotesi di lavoro, le etichettò come forme di vita vegetale, e cominciò a farsi una certa idea sull’origine dei crepitii da lui uditi quando era scesa a terra la sonda con i test chimici. Dalle zone verdi emergevano aree che erano certamente costituite di roccia nuda. Sembravano quasi tutte collocate in corrispondenza della cima delle montagne; e con infinita attenzione Ken diresse il suo invisibile pilota in modo da avvicinarsi a una di queste. Quando infine si trovò sospeso a un’altezza di sei o sette metri al di sopra di una superficie che anche in quella luce relativamente pallida sembrava costituita di roccia, diede l’ordine di farlo scendere. A due metri da terra fece fermare la sonda una seconda volta, e con attenzione sciolse le catene che gli legavano le gambe allo scafo: subito l’armatura, non più trattenuta, penzolò fin quasi a toccare il terreno con le gambe; con poche parole al microfono fece scendere la sonda ancora di quel tanto che gli mancava per appoggiare a terra i piedi. Staccò una delle catene superiori, e questo lo fece ruotare su se stesso finché non si fermò con l’altro gomito contro lo scafo. Con una sorta di contorsione riuscì ad appoggiarsi sul treppiede costituito dalle due gambe e dall’appoggio posteriore, e infine staccò anche l’ultima catena. Era sul Pianeta dei Ghiacci, e si reggeva sulla sua superficie con le proprie gambe! Si sentiva pesante, ma non in modo insopportabile. Tutte le cautele da lui adottate per non atterrare in posizione sdraiata erano certo giustificate: in quella gravità era poco probabile che riuscisse con la sola forza dei muscoli a sollevare se stesso e la tuta fino a rimettersi in piedi. Anche camminare sarebbe stato difficile… forse addirittura pericoloso; quella roccia era tutt’altro che piana. La cosa, comunque, non aveva importanza. Per parecchi minuti, dopo essersi staccato dalla sonda, Ken non cercò neppure di muoversi: si limitò a starsene fermo dov’era, ascoltando il ronzio quasi impercettibile delle pompe e chiedendosi quanto mancava prima che cominciasse a sentire freddo ai piedi. Però, non gli parve che succedesse niente, e dopo un poco cominciò a muovere con cautela qualche passo. Le articolazioni della corazza si muovevano ancora; evidentemente lo zinco non si era congelato. La sonda si era spostata dalla verticale; a quanto pareva, soffiava un debole vento. Dietro suggerimento di Ken, Feth fece posare a terra la macchina. Anche se la curiosità l’aveva ormai avuta vinta sulla paura, Ken non aveva intenzione di allontanarsi troppo dal suo mezzo di trasporto. Assicuratosi che rimanesse fermo al suo posto, si mise al lavoro. Con una breve ricerca trovò vari frammenti di roccia. Li raccolse e li infilò nel vano di carico della sonda, poiché ogni cosa poteva essere interessante per le sue ricerche; ma la cosa che gli interessava maggiormente era il terriccio… terriccio in cui crescessero delle forme viventi. Esaminò diversi campioni di roccia, con tutta l’attenzione possibile, sperando di trovare qualcosa che assomigliasse alle minuscole piante del Pianeta Quattro; pure, non riconobbe come forme viventi i licheni grigi e neri, simili a croste, che effettivamente crescevano su alcuni sassi. Ma quel paesaggio era tutt’altro che spoglio. A cominciare da poche centinaia di metri dal suo punto d’atterraggio, c’erano degli arbusti e delle macchie di muschio che spuntavano con sempre maggiore frequenza man mano che si scendeva lungo il fianco della montagna, e che gradualmente lasciavano il posto ad alberi nani e, dove la roccia finalmente spariva sotto il terriccio, ad abeti adulti. Ken vide questa vegetazione e si diresse subito verso la più vicina macchia di arbusti. Un attimo dopo, avvertì Feth di ciò che stava facendo, in modo che la sonda potesse seguirlo. Era inutile, si disse, risalire in cima alla montagna con tutti i suoi campioni. L’avanzata fu piuttosto difficile, poiché una fessura di trenta centimetri fra due rocce rappresentava un grave ostacolo per l’armatura. Dopo alcuni minuti di cammino interrotti da frequenti pause di riposo, osservò: «La prossima volta, sarà meglio allungare le catene delle spalle. Così potrò restare appeso alla sonda, evitando tutto questo cammino.» «Giusto» rispose Feth. «Non sarà difficile. Volete tornare subito sulla nave per cambiarvi o intendete raccogliere ancora dei campioni?» «Oh, intendo fermarmi ancora un po, adesso che sono qui. Non devo fare molta strada per arrivare a quelle piante, sempre che siano piante. Quelle maledette cose sono verdi, almeno in parte. Suppongo però che non ci sia niente di strano in questo, obiettivamente parlando. Bene, adesso riparto.» Sollevò da terra l’appoggio posteriore e ripartì ancora una volta. Un paio di minuti fu sufficiente a portarlo nei pressi di quella strana vegetazione. Era alta soltanto qualche decina di centimetri e lui incontrava difficoltà a piegarsi, ancor più che sul Pianeta Quattro; perciò allungò un manipolatore per afferrare un ramo. L’effetto fu stupefacente. Il ramo si staccò senza difficoltà. Tutto come previsto. Però, prima che avesse il tempo di sollevarlo all’altezza degli occhi, una nuvoletta di fumo si allargò intorno al punto in cui lo toccava con il manipolatore, e il tessuto nelle immediate vicinanze del metallo divenne nero. I ricordi destati da questo fenomeno indussero Ken ad abbandonare immediatamente il ramo: avrebbe senza dubbio fatto un passo indietro se l’armatura fosse stata meno ingombrante. Ma subito si ricordò che nessun gas poteva oltrepassare le sue difese metalliche, e raccolse un altro ramo. Il fumo ricomparve e divenne più spesso quando si portò il ramo davanti agli occhi. Ken ebbe qualche secondo a disposizione per esaminare la sua struttura prima che il rametto fumante prendesse fuoco. Le fiamme lo sorpresero quasi quanto il precedente fenomeno, ma trattenne il ramo col manipolatore. Osservò con interesse il legno che si arricciava, diventava prima nero e poi ardente, e infine prendeva fuoco; vide che le foglie più secche prendevano fuoco a loro volta, mentre quelle verdi diventavano leggermente più scure. Cercò di raccogliere le tracce di cenere rimaste alla fine del processo, ma riuscì soltanto a salvare qualche pezzo delle parti che non erano completamente bruciate. Mise tutto nella sonda, che intanto era stata portata fino a lui da Feth, in base alle sue istruzioni. Un frammento di terriccio, raccolto sotto la pianta, si mise a fumare ma non bruciò. Ken prelevò dal vano di carico della sonda una serie di contenitori a tenuta d’aria e li riempì di campioni di terra. Inoltre riempì un cilindro di aria sotto pressione, comprimendola con una piccola pompa a pistone da cui Feth aveva attentamente tolto ogni traccia di lubrificante. Non teneva molto la pressione, ma le sue parti mobili si muovevano, e la cosa costituiva una lieta sorpresa. «Ecco» disse Ken, quando ebbe terminato questi lavori. «Se in questo terreno ci sono dei semi, saremo in grado di costruire un piccolo vivaio e di scoprire finalmente qualcosa su questa forma di vita e le sue caratteristiche.» «Avete un equilibrio tra produttori e consumatori?» domandò Feth. «Supponiamo che queste piante siano tutte… come si può dire, ossidatrici?… e che non abbiate i necessari organismi… riducenti? Penso che ci debba essere sempre un equilibrio, qualunque sia la forma di vita. Altrimenti si avrebbe il moto perpetuo.» «Non posso dire niente, ovviamente, finché non avremo provato. Però, potrei scendere un poco più in basso, lungo il fianco della montagna, e raccogliere una più ampia varietà di campioni, visto che ho ancora dei contenitori vuoti.» «Un’altra cosa» disse Feth. «Non mi pare che abbiate preso qualche provvedimento per tenerli alla giusta temperatura. So che sono freddi quasi come lo spazio interplanetario, ma c’è differenza tra quasi e come.» «Lasceremo le scatole nella sonda finché non saremo ritornati su Uno» disse Ken. «Prive di aria, la loro temperatura cambierà molto lentamente, e potremo lasciare la sonda in qualche punto della zona crepuscolare di Uno, dove rimarrà pressappoco alla giusta temperatura finché non avremo preparato una camera con termostati e refrigeratore. Non occorre che sia molto grande; io ho solo un paio di metri cubi d’aria.» «Sì, penso che abbiate ragione. Se non funziona, non sarà una grave perdita. I vostri piedi, cominciate a sentire freddo?» «Finora, no, non sento freddo e dovete credermi, faccio molta attenzione!» «Non so se posso credervi» disse Feth. «Ho l’impressione di sapere dove sta la vostra attenzione. Avete visto qualche forma di vita animale? Ho di nuovo sentito quel ronzio, almeno un paio di volte.» «L’avete sentito? Io non me ne sono accorto. I suoni che ricevo sono quelli che vengono raccolti dal microfono della sonda, e quindi dovrei sentire tutto quello che sentite voi.» «Ve l’ho detto, stavate attento ad altre cose. Benissimo, vi chiamerò io, se sentirò di nuovo quel suono.» Tacque, e Ken riprese il suo faticoso viaggio verso la base della montagna. Con frequenti pause di riposo, riuscì finalmente a riempire tutti i suoi contenitori e a chiuderli, e li depose nel vano di carico della sonda. Una volta, venne interrotto da Feth, che riferì di udire nuovamente il ronzio; ma anche se poté sentirlo lui stesso, Ken non riuscì a scoprirne l’origine. Le mosche non sono creature molto grandi, e inoltre la luce era un po bassa, secondo i criteri sarriani. Poiché non c’era molto di interessante neppure per una mosca nel vano di carico al di sopra del quale era collocato il microfono, presto il ronzio cessò. Ken diede un’ultima occhiata al paesaggio, descrivendo ogni cosa nel modo più completo possibile, in modo che la registrazione effettuata sulla nave potesse essere utile anche in seguito. Le cime, adesso, sembravano più alte, poiché alcune di esse erano più elevate della posizione in cui si trovava Ken. Cercando di non guardare la vegetazione che copriva i fianchi di quei monti, e immaginando di trovarsi al tramonto, dopo una tempesta di polvere particolarmente robusta, fu addirittura capace di ritrovare nella scena qualcosa di domestico: c’erano dei momenti in cui perfino il sole biancoazzurro di Sarr poteva sembrare opaco come l’astro di quel mondo glaciale. In quei momenti, naturalmente, c’era sempre un vento che avrebbe destato l’invidia del più forte uragano terrestre, e il silenzio che circondava Ken sarebbe stato fuori luogo nel paesaggio di Sarr; ma al momento la sua immaginazione riuscì a fargli attraversare duecento parsec di vuoto interstellare fino a raggiungere un mondo di calore e di vita. Ritornò in sé con una certa sorpresa. Quel posto non era affatto simile al paesaggio di casa: non era esattamente morto, ma si avvicinava a esserlo; morto come il vuoto dello spazio a cui assomigliava così tanto. Il suo gelo cominciava a penetrare in lui, mentalmente sotto forma di un ritorno dell’orrore che aveva provato la prima volta che aveva visto il pianeta, e fisicamente sotto forma di un leggero dolore ai piedi. Neppure il miracolo di ingegneria da lui indossato poteva tenere eternamente lontane da lui le dita del gelo. Fece per chiamare feth, perché sollevasse la sonda in modo da fargli raggiungere le catene e i morsetti; ma la richiesta non venne mai pronunciata. All’improvviso, così come era successo alcuni giorni prima, una voce umana interruppe seccamente il silenzio del Pianeta dei Ghiacci. 14 Non era stata comunque la delusione a mettere la parola fine alle vigilanze notturne di Roger. La notte che i sarriani misero alla prova le armature ci fu effettivamente l’ultima delle sue uscite; ma questo per motivi non certo dipendenti dalla volontà del ragazzo. Quando Roger scese al piano di sotto, l’indomani mattina, suo padre si alzò ad accoglierlo e lo accompagnò fuori. Là giunti, gli indicò certe impronte di piedi. Poi salirono insieme fino alla stanza di Roger, e saltò fuori anche la corda. Wing padre concluse l’istruttoria con la richiesta di una spiegazione. «Non pensare che qualcuno abbia parlato» concluse. «Anzi, non so neppure se tu faccia delle confidenze a qualcuno. Ma tua madre e io abbiamo notato che la maggior parte del tuo riposo te lo fai durante il giorno. Allora, cos’è successo?» Roger non ebbe neppure per un momento la tentazione di mentire. La convenzione di famiglia di dovere dimostrare, dietro richiesta, le affermazioni poco convincenti aveva insegnato a lui e ai fratelli a riconoscere i fatti e a evitare le negazioni inutili. L’unico dubbio era se dire tutto oppure no. Sapeva che se si fosse rifiutato di raccontare la sua storia, nessuno lo avrebbe punito; ma non avrebbe ricevuto dal padre alcun aiuto per risolvere un problema che si era dimostrato superiore alle sue capacità, e non avrebbe potuto riprendere i suoi itinerari notturni alla ricerca di veicoli spaziali. Riferì perciò quanto gli era successo, con tutti i particolari che la sua memoria di ragazzo, quasi perfetta, poteva ricordare. Quando finì, suo padre rimase in silenzio per qualche momento. «Lasciamo perdere il fatto di avere seguito me e Don» disse infine. «Non ti è mai stato vietato espressamente di farlo, e la curiosità è una caratteristica positiva. Naturalmente ti sei fatto cogliere alla sprovvista nella foresta, di notte, senza cibo, acqua, e luce, e questa è una faccenda più grave, anche perché queste cose dovresti saperle. Comunque, visto che la tua storia è molto interessante, lasciamo in sospeso la punizione per questa colpa.» Roger sorrise. «In che cosa consisteva la punizione?» domandò. «La punizione logica consisteva nel vietarti l’uscita dal cerchio di un chilometro di raggio intorno alla casa, per una settimana o due. Del resto ti sei comportato come un bambino di sei anni. Diciamo che la punizione resta sospesa sulla tua testa, e passiamo a questioni più urgenti. Suppongo che Edie sappia tutto.» «Sa quello che è successo quella notte» disse Roger. «Non sa che sono uscito le notti seguenti.» «Benissimo. Quando avrete fatto colazione, prendi tua sorella e venite con me. Dobbiamo discutere di varie cose.» Alla riunione, comunque, prese parte anche Don. Si recarono a parlare in un piccolo anfiteatro naturale, qualche decina di metri al di sopra della casa, dove molto tempo prima avevano messo delle panchine di tronchi d’albero. Wing padre non perse tempo, e riferì ai due figli più giovani la stessa storia che aveva raccontato a Don qualche giorno prima. Poi Roger ripeté il suo racconto, soprattutto a beneficio del fratello Don che, ovviamente, aveva già avuto modo di vedere una sonda sarriana, allorché era stato «consegnato» il primo carico di sigarette, qualche giorno prima; e non parevano esserci dubbi che l’oggetto incontrato da Roger avesse la stessa origine. «Non capisco perché dopo tutti questi anni vogliano spostare la loro base di operazione» disse Wing padre, perplesso. «Sono sempre scesi accanto a quella loro macchina, che secondo noi è un trasmettitore direzionale. Ogni estate, fin da prima della nascita di Don.» «Non sappiamo se siano davvero scesi solo in questo posto» osservò Don. «L’unica cosa che è successa con certezza è che Roger si è imbattuto in una delle loro sonde. Potrebbero averne inviate molte altre, in qualsiasi punto della Terra.» «Questo è vero, certo» disse Wing padre. «Roger, hai trovato altre tracce di atterraggio, nel corso delle tue escursioni notturne?» «Non ne sono sicuro, papà. C’è una piccola macchia di rovi, un po isolata, in cima a una collinetta poco distante, e mi sono accorto che è completamente bruciata. Non ho trovato alcun segno di bivacchi, e non ci sono stati fulmini. Ho pensato che forse, da una di quelle macchine, è caduto qualcosa di simile alla scatola con cui mi sono bruciato la mano, e che così sia iniziato il fuoco; ma non ho trovato niente del genere. Non saprei davvero dire che cosa ha provocato l’incendio.» «Capisco. Allora, riassumendo, noi abbiamo da molto tempo rapporti commerciali con creature che non sono del nostro pianeta; forse siamo gli unici, forse non lo siamo; e gli alieni, per la prima volta, hanno mandato una navicella che non aveva scopi direttamente commerciali.» «A meno che la luce vista da Roger non avesse lo scopo di attirare l’attenzione, come in effetti è successo» osservò Donald. «In tal caso, l’oro non sarebbe stato così caldo da non poter essere toccato. Inoltre, io ho sempre rifiutato l’oro… i regolari cercatori costituiscono già un fastidio sufficiente, e non volevo scatenare una corsa all’oro anche da parte dei dilettanti.» «Forse le altre persone che commerciano con loro, ammesso che esistano, hanno altre preferenze» disse Donald. «Credo però che tu abbia ragione per quanto riguarda la temperatura. Probabilmente stavano conducendo qualche loro esperimento, e l’offerta di fare uno scambio dev’essere stata una sorta di ripensamento, quando hanno udito la voce di Roger.» «È stato uno sporco scherzo» brontolò Roger. «Non penso che ne avessero l’intenzione» disse Wing padre. «La loro conoscenza della nostra lingua è molto limitata, e a quanto pare non riescono a vedere cosa succede attorno a una delle loro sonde. O non hanno il concetto della televisione, o non possono montare su quelle loro navicelle un trasmettitore video. Inoltre, se tu sei piombato su di loro senza che se lo aspettassero, possono essersi dimenticati, nell’eccitazione del momento, del fatto che l’oro era caldo. Hai detto che la luce giungeva da un altro contenitore. Comunque, è una cosa sulla quale potremmo discutere all’infinito. «Non intendevo fare questo passo finché Roger ed Edie non fossero cresciuti ancora un po, e avessero conoscenze tecniche sufficienti a renderli più utili; ma sotto questo aspetto pare che le cose mi siano sfuggite di mano. Quello che intendo fare, e per farlo mi occorre la collaborazione di tutti voi, è scoprire da dove provengono quelle navicelle, che tipo di esseri le inviano, e, se possibile, il loro funzionamento. «Non devo dirvi quanto potrebbe essere importante saperlo. Non ho mai cercato di affidare questo lavoro a esperti estranei, perché, come dicevo a Don, temevo che dimenticassero la prudenza per soddisfare la loro curiosità. Non voglio che quelle navette fuggano via, spaventate da qualche azione sconsiderata. Tanto per dirne una, sono troppo vecchio per imparare un altro mestiere.» «Sciocchezze!» esclamò Edie. Era il suo primo contributo alla conversazione, anche se aveva ascoltato con attenzione tutto quello che era stato detto fino a quel momento. «Che cosa dobbiamo fare?» domandò Roger, più pratico. «Per prima cosa, voi due verrete con noi, la prossima volta che andremo a consegnare un carico. Potrei portare anche i piccoli, ma temo che sarebbe una camminata troppo lunga per loro. Potrete ascoltare, guardare, seguire di persona l’intero svolgimento. E a questo punto, mi aspetto che tiriate fuori delle idee. Speravo che tu, Roger, fossi già un esperto di elettronica, il giorno in cui ti avrei mostrato tutto questo. Comunque, faremo quello che potremo.» «Potremmo cercare di sfruttare i miei guai dell’altra notte» suggerì Roger. «Se gli occorre il tabacco così disperatamente da pagarlo in platino e iridio, potrebbero sentire il desiderio di farci delle scuse.» «Ammesso che sappiano di averti fatto del male, e ammesso che trovino il modo di comunicare le loro scuse. Non rifiuterò qualche pepita in più, se avranno voglia di mandarla, ma non credo che le pepite ci darebbero molte informazioni.» «Già. Comunque, andrò a controllare meglio sia la zona dove ho visto la sonda, sia quella dove svolgete i vostri traffici, e ci andrò di giorno. Se sono scesi di nuovo in mezzo agli alberi, me ne accorgerò certamente… dove li ho visti io, hanno rotto un mucchio di rami, e hanno lasciato sul terreno una depressione che aveva la forma della loro navetta.» «Se pensi che ne valga la pena» disse Don. «Per che motivo dovrebbero essere di nuovo scesi nella stessa zona? La Terra è abbastanza grande.» «Eppure l’hanno già fatto una volta, e scommetto di saperne il motivo!» lo rimbeccò Roger. «Perché hanno il trasmettitore in questa zona! Se tu dovessi esplorare un nuovo mondo, o anche solo un nuovo paese, scenderesti una volta qui e una là, a mille chilometri di distanza? No, non lo faresti. Prima cercheresti di conoscere bene una zona, e stabiliresti laggiù un avamposto, e poi lo useresti come base per allargarti.» Cadde per alcuni secondi il silenzio, mentre gli altri assimilavano queste considerazioni. «Tu quindi supponi» disse infine Wing padre «che dopo vent’anni di semplice commercio, all’improvviso hanno preso la decisione di esplorare il nostro pianeta? Perché non l’hanno fatto prima?» «La tua domanda è poco sportiva.» «Giusto. D’accordo, possiamo usarla come ipotesi di lavoro. Puoi continuare la tua esplorazione… e può farlo anche Edie, se lo vuole. La tua idea non mi convince del tutto; almeno, non fino al punto di spingermi a fare delle ricerche di persona, ma tra un giorno o due invierò il segnale che fa scendere un’altra sonda. Questo vi darà il tempo necessario per fare le vostre esplorazioni, spero.» «Be…» Le attività cartografiche dei giorni precedenti avevano dato a Roger un’idea molto più chiara di cosa significasse esaminare anche un solo chilometro quadro di foresta. «Possiamo cominciare a farlo, comunque. Parto subito, se nessuno ha da suggerire altre idee. Vieni anche tu, Edie?» La ragazza si alzò in piedi, senza parlare, e lo seguì fino alla casa. Per qualche istante, il padre li guardò allontanarsi, divertito. «La cosa continua a preoccuparmi» disse poi all’improvviso a Donald. «Mi riferisco all’ipotesi di Roger. Potrebbe avere ragione… quelle creature potrebbero essersi stancate di pagare il tabacco che gli mando, e certo conoscono le scienze fisiche meglio di noi.» «Avranno da divertirsi, se cercheranno piante di tabacco selvatiche in questa zona» commentò Donald. «Faranno meglio a restare con noi in termini amichevoli.» «Vaglielo a dire…» commentò Wing padre. Roger e la sorella non persero tempo. Questa volta non ci furono sbagli per quanto riguardava le vettovaglie; prepararono in fretta alcuni sandwich… la loro madre ormai si era rassegnata al fatto che le incursioni nella dispensa erano inseparabili dalle regole fondamentali della vita nei boschi… e con una borraccia d’acqua ciascuno si diressero verso est. Billy e Marge giocavano da qualche parte, fuori vista, e quindi non sorse il problema di lasciarli a casa. Le indicazioni date loro dal padre erano abbastanza chiare; non incontrarono difficoltà a trovare il trasmettitore sarriano, e da quel punto i due ragazzi cominciarono la loro ricerca. Dietro suggerimento di Edie, si divisero la zona: lei esaminò i pendii posti a sud, lungo il cammino che portava alla loro casa, e Roger quelli a nord. Di comune accordo, decisero di tenersi quanto più in alto possibile, e così facendo riuscirono a restare quasi sempre a contatto di voce. Nel limitato tempo disponibile non potevano cercare tracce sotto gli alberi, ma dall’alto era possibile scorgere sia eventuali zone bruciate come quella che Roger aveva visto, sia zone dove erano rotti i rami più alti. Soprattutto, si poteva controllare più territorio. Nessuno dei due ragazzi aveva mai avuto dubbi se fosse preferibile conoscere bene un’area piccola oppure controllarne superficialmente una grande. Al momento della discesa di Ken, né Roger né Edith si trovavano sulla montagna dove era sceso. La natura aveva fatto in modo che fossero nelle vicinanze, ma la coincidenza si rifiutò d’intervenire ulteriormente. Tuttavia, la natura aveva in serbo ancora una carta. Roger, fino a quella mattina, aveva dato più o meno per scontato che le future visite della sonda si sarebbero verificate di notte, come la prima. Il racconto di suo padre era venuto a smentire quella convinzione; e da quando lo aveva ascoltato, tre o quattro ore prima, continuava a dare frequenti occhiate al cielo. Niente di strano, dunque, che vedesse la sonda durante la discesa. Era ancora a un paio di chilometri sopra di lui, e Roger non riusciva a distinguerne i particolari; ma certamente non si trattava di un uccello. L’irregolarità causata dalla forma penzolante di Ken dava soltanto l’impressione di qualcosa di strano, vista da quella distanza. Che i particolari fossero visibili o no, comunque, Roger non ebbe alcun dubbio sulla natura dell’oggetto che vedeva nel cielo, e con un grido che, per quello che interessava a lui, poteva raggiungere oppure no la sorella, si precipitò giù per la discesa a rotta di collo. Per breve tempo riuscì a mantenere una notevole velocità, e le irregolarità della roccia non presentarono ostacoli che non riuscisse a superare grazie agli occhi attenti e alle gambe agili. Raggiunta la foresta, la sua andatura cominciò a rallentare: per una breve distanza continuò alla velocità con cui era partito; poi, comprendendo che doveva attraversare almeno una montagna e salire su quella successiva, rallentò un poco. Aveva i piedi bagnati, le gambe graffiate e il fiato decisamente corto quando raggiunse la vetta su cui aveva visto scendere la sonda, circa tre quarti d’ora prima. Non aveva visto segno di Edith… anzi, in effetti si era totalmente scordato di lei. Forse stava per tornargli in mente quando si fermò sulla cima della bassa montagna per riprendere fiato e per cercare il suo obiettivo; ma caso volle che la sonda fosse in vista, sull’altro versante della valle, poco al di sotto della sua quota. E così era in vista Sallman Ken. Roger aveva già visto fotografie degli scafandri per altissime pressioni che ogni tanto venivano costruiti per esplorare i fondali marini. La figura di Ken, pertanto, non lo sorprese molto: certo sarebbe rimasto più sorpreso se avesse visto un sarriano senza armatura. La corazza indossata dallo scienziato umanizzava notevolmente il suo aspetto, dato che un uomo vi sarebbe potuto entrare senza dover subire troppe distorsioni. Le gambe, per motivi di costruzione, avevano un solo ginocchio, corrispondente all’articolazione superiore dell’arto sarriano; il corpo aveva dimensione pari, o quasi a quella del torace dell’uomo, e aveva forma cilindrica; gli arti superiori erano soltanto due. Erano più flessibili di quelli che sarebbero stati necessari a un essere umano in una tuta come quella, ma non lasciavano capire che la creatura all’interno li muoveva con due tentacoli per braccio. I manipolatori collocati alle estremità avevano un aspetto abbastanza naturale, anche se erano più complicati dei dispositivi simili a uncini che il ragazzo aveva visto nelle fotografie degli scafandri. Da quella distanza, non poteva vedere chiaramente che cosa c’era dietro la finestrella trasparente dell’elmetto; e fu così che, nei primi momenti, non riuscì a comprendere quanto fosse diversa dall’uomo la creatura che indossava quella goffa copertura. Per una ventina di secondi, Roger non poté fare altro che fissare a bocca aperta la creatura; poi lanciò il grido che interruppe l’«imbarco» di Ken. Lo scienziato, fino a quel momento, aveva dedicato tutta la sua attenzione al lavoro, e non si era accorto della presenza di Roger finché questi non aveva gridato; da quel momento in poi, non ebbe occhi per altro. Ken non era rivolto nella direzione da cui era giunto il grido, ma lo era una delle finestrelle trasparenti del casco, e lui era troppo interessato agli indigeni del pianeta per dedicare la sua attenzione a qualcosa di così prosaico come girare da quella parte l’armatura, dopo la prima occhiata da lui data all’essere che piombava su di lui alla carica. Rimase fermo dov’era, e si limitò a osservare con l’unico occhio che riuscì a portare in quella direzione. Non gli venne in mente neppure per un attimo che quella creatura potesse essere ostile. Neanche Roger pensò mai a quella possibilità. La sua mente rassomigliava troppo a quella di Ken, nonostante le enormi differenze fisiche. Rimasero fermi l’uno davanti all’altro… Ken si decise finalmente a girare l’armatura nella nuova direzione, in modo da usare entrambi gli occhi… e in silenzio assorbirono tutti i particolari concessi loro dai rispettivi sistemi ottici. Ciascuno dei due aveva un vantaggio sull’altro: Roger per il fatto che la luce era per lui normale, Ken perché il ragazzo non era nascosto dentro una settantina di chili di metallo. Roger poteva adesso vedere la faccia del sarriano, e tutta la sua attenzione era rivolta ai grandi occhi che potevano muoversi indipendentemente, allo spazio vuoto dove si sarebbe dovuto trovare il naso, alla bocca larga, dalle labbra sottili, che aveva un aspetto straordinariamente umano. Il silenzio si prolungò. Venne poi rotto da Feth, la cui ansia era andata aumentando di secondo in secondo dopo il grido di Roger. «Cosa succede?» domandò il meccanico. «C’è qualcosa che non va? State bene, Ken?» Lo scienziato ritrovò la voce. «Tutto a posto» disse. «Abbiamo compagnia, come forse avevate già capito.» Cominciò a descrivere Roger nel modo più dettagliato possibile, ma dopo qualche istante venne interrotto dal meccanico. «Non si può continuare così. Dobbiamo portare sul pianeta una telecamera o una macchina fotografica, anche a costo di inventare qualche nuovo sistema. Lasciate perdere la descrizione della creatura… guardate se riuscite a parlare con essa!» Roger non aveva udito questo dialogo, perché Feth non aveva dato energia all’altoparlante collocato sulla sonda. Ora il meccanico rimediò a questa mancanza, e le successive parole di Ken giunsero chiaramente al ragazzo. «Ma che cosa posso dirgli, per la Galassia? Supponiamo che questo indigeno sia venuto a conoscenza del nostro errore dell’altra, notte… anzi, supponiamo che si tratti addirittura dello stesso individuo! Se pronunciassi la parola «Oro», si metterebbe a scappare, oppure diventerebbe ostile. Non ho paura per me, ma certo la cosa non lo spingerebbe alla collaborazione.» «Be, avete appena pronunciato la parola fatidica. Che reazioni ha avuto? Ho collegato l’altoparlante esterno.» Ken, che lo scopriva soltanto adesso, lanciò un’occhiata stupita in direzione di Roger. Il ragazzo, naturalmente, aveva capito solo la parola «Oro». Probabilmente non l’avrebbe notata, se Ken non l’avesse pronunciata in un tono un po particolare, come si fa con le parole straniere; ma stando così le cose, si fece l’idea che la precedente conversazione fosse stata indirizzata a lui. Non si era accorto che le voci erano due; inoltre, i suoni provenivano sempre dalla sonda, che era ferma nell’aria al di sopra della testa di Ken. «Non voglio il vostro oro… soprattutto se è come quello dell’altra volta!» Anche ora, gli ascoltatori capirono una parola sola. Ken sentì crescere le sue speranze. Forse la creatura non era al corrente, o forse lui e Feth avevano completamente frainteso i suoni uditi durante il test dell’atmosfera. «Oro?» domandò. «No!» esclamò Roger, scuotendo negativamente la testa e facendo un passo indietro per dare particolare intensità alla sua risposta. Agli occhi del sarriano che lo osservava, il primo gesto non significava niente, ma il secondo era abbastanza chiaro. «Avete registrato questo suono, Feth?» domandò Ken. «A giudicare dalle azioni, nel suo linguaggio corrisponde alla negazione.» Oro, no! «disse poi, dopo una breve pausa. Roger si tranquillizzò, ma continuò a parlare a voce molto alta.» «Oro, no, platino, no… io no tabacco» disse il ragazzo. Allargò le mani per far veder che erano vuote e rovesciò le tasche, dando così allo scienziato sarriano il suggerimento che attendeva da tempo per capire fino a che punto fosse artificiale la copertura che portava. «Indicate delle cose, e dite il loro nome!» li interruppe Feth, dall’alto. «In che altro modo volete imparare una lingua? Queste vostre chiacchiere sono la cosa più stupida che io abbia mai udito!» «D’accordo… ma tenete presente un particolare. Io posso vedere, oltre che ascoltare, e la cosa è molto diversa. Se volete che ottenga dei risultati, cercate di stare tranquillo; altrimenti, questa creatura come può capire chi le sta parlando? Tutte le voci arrivano dallo stesso altoparlante. Vi chiamerò io, quando avrò bisogno di voi.» L’osservazione di Ken era giusta, e Feth non parlò più; dopo avere atteso un istante, Ken cominciò a seguire il suggerimento del meccanico. Dato che aveva pensato pressappoco alla stessa cosa, Roger afferrò subito il concetto, e di conseguenza il sarriano cominciò a pensare che l’intelligenza dei terrestri fosse un tantino superiore a quanto gli aveva fatto credere in precedenza Laj Drai. Le parole inglesi per dire roccia, albero, cespuglio, montagna, nuvola, e i numeri da uno a dieci vennero imparati in poco tempo. Alcuni verbi vennero comunicati senza difficoltà. A questo punto pareva probabile che le operazioni venissero sospese, e Roger si sentì un po sollevato quando un lontano richiamo gli fece cambiare argomento. «Dio mio! Mi sono dimenticato di Edie! Crederà che sono cascato in un burrone o qualcosa di simile!» Si voltò nella direzione da cui pareva giungere la debole voce, e mise nel grido di risposta tutto il fiato che aveva in corpo. La sorella udì il grido e gli rispose a sua volta; poi, con un quarto d’ora di corsa tra i boschi, la ragazza arrivò sulla scena. Con grande sorpresa di Roger, non pareva molto intenzionata ad avvicinarsi a Ken. «Cos’hai?» le chiese il fratello. «Vuole solo parlare, a quanto mi pare di capire.» «Non ti sei di nuovo scottato?» «No. Perché dovrei essermi scottato?» «Non ti accorgi di com’è caldo?» Stranamente, Roger non se n’era accorto. Non si era mai avvicinato a meno di quattro metri dallo scienziato. Il calore irradiato dall’armatura si poteva percepire già a quella distanza senza provare alcun fastidio, ma lui non se n’era neppure accorto, tanto forte era l’attrazione per il resto. Per Edith, invece, che pensava agli alieni soprattutto basandosi sull’esperienza vissuta dal fratello qualche sera prima, il calore era la principale caratteristica della creatura che le stava davanti. Adesso che la sorella gli aveva fatto notare quel particolare, Roger si avvicinò maggiormente all’alieno e tese una mano verso il metallo, con cautela. Ma si fermò a una trentina di centimetri di distanza. «Dio mio, scotta veramente!» esclamò. «Forse è questo, il motivo del guaio. Non hanno mai pensato che potessi bruciarmi con quell’oro. Cosa ne dici?» «Può darsi. Però, mi piacerebbe sapere come fa a vivere, con tutto quel calore. E piacerebbe anche a papà. Dovrebbe venire lui, comunque. Vado ad avvertirlo, mentre tu lo tieni ancora qui con te?» «Non so come potrei tenerlo» disse il fratello. «Inoltre, comincerebbe a essere un po troppo tardi, se aspettassimo l’arrivo di papà. Cerchiamo di darci un appuntamento per domani.» E tornò a rivolgersi verso Ken senza attendere la logica domanda della sorella: «Come?». In realtà, il «come» non risultò molto difficile. Il tempo è una quantità astratta, ma, quando viene misurato in base a fenomeni come il moto apparente del sole, se ne può parlare con i segni, con una precisione più che sufficiente ai fini pratici. Quando Roger ebbe finito di roteare le braccia, Ken aveva capito senza difficoltà che i due indigeni intendevano ritornare in quello stesso luogo poco più tardi del levar del sole, il giorno seguente. Anche lo scienziato era lieto di aggiornare all’indomani quelle loro conversazioni, perché aveva ormai i piedi insensibili a causa del freddo. Tornò a dedicarsi al compito di legarsi alla sonda che si librava nell’aria sopra di lui, e i ragazzi, voltandosi per dare un’ultima occhiata quando raggiunsero gli alberi, scorsero lo strano connubio di sonda e corazza salire nel cielo con velocità sempre crescente. L’osservarono finché non si ridusse a un minuscolo puntolino e svanì; poi, di comune accordo, si diressero verso casa. 15 Wing padre non fu soltanto interessato; fu affascinato dal racconto del ragazzo. Aveva buon senso sufficiente per capire che nessuna delle azioni dei suoi familiari poteva essere responsabile del fatto che gli alieni si fossero messi a esplorare di persona la Terra, ma il fatto che si fossero decisi a farlo prometteva di favorire i suoi piani. Il pasto di quella sera fu costituito soprattutto di conversazioni, poiché venne abbandonato ogni tentativo di tenere ancora segreta la cosa a qualcuno della famiglia. La signora Wing, ovviamente, aveva sempre saputo tutto fin dall’inizio; Roger ed Edie erano stati ragguagliati quella mattina; ma Billy e Margie non avevano né i dati specifici né le conoscenze di base che erano richiesti per comprendere appieno la situazione. Facevano domande che tendevano a far perdere il filo del discorso, ma soltanto Roger pareva infastidito dalla cosa. E poiché neppure lui osava mostrare apertamente il suo disprezzo nei riguardi della loro ignoranza, il tono generale della conversazione rimase sereno e vennero prese alcune importanti decisioni. «Mi sembra» disse Wing padre «che questi «cosi»… forse potremmo cominciare a pensare a essi come a delle persone, adesso che abbiamo qualche idea del loro aspetto… devono avere messo finalmente al lavoro qualcuno dei loro scienziati. Non riesco però a capire le ragioni del ritardo.» «Da un’occhiata a una foto della Via Lattea, e capirai» lo interruppe Don. «Indipendentemente dalle ragioni, il fatto in sé ci può essere utile. Faranno scendere esploratori e apparecchiature, non c’è dubbio; e avranno certo in previsione di perdere una parte delle apparecchiature. Non intendo incoraggiare nei miei figli la disonestà, ma se potessimo avere a disposizione qualcuno di quegli apparati, almeno per il tempo sufficiente a esaminarne l’interno, la cosa mi farebbe piacere.» «Ne deduco che non hai più timore che si allontanino spaventati» disse la signora Wing, in tono più di affermazione che di domanda. «No. La questione se vogliano continuare il commercio è ormai fuori delle mie possibilità d’intervento… probabilmente dipenderà dai risultati che i loro scienziati otterranno. Ma non mi preoccupo; è chiaro che hanno un disperato bisogno di tabacco, e ho i miei dubbi che si riesca a coltivarlo su altri pianeti. Potrei parlare con maggiore sicurezza, però, se sapessi cosa se ne fanno. Una volta pensavo che lo usassero per fumarlo, come facciamo noi, ma la conoscenza di quella che per loro è una temperatura normale fa diventare un poco improbabile la cosa. «Torniamo comunque al punto di partenza. Chiunque parlerà con loro in una delle prossime occasioni farà bene a consigliare di far scendere un altro trasmettitore, in modo che possano posarsi vicino alla casa. Non vedo l’utilità di fare tutte le volte dieci chilometri avanti e indietro soltanto per fare quattro chiacchiere in famiglia. Detto per inciso, Rog, mi chiedo se non avremmo fatto una migliore impressione cercando di imparare le loro parole, invece di insegnargli le nostre.» «Può darsi. Ma sul momento non mi è venuto in mente.» «E il commercio, padre?» domandò Don. «Continui come sempre, o cerchi di dare la nostra merce a quegli esploratori?» Il padre rifletté sulla cosa. «Credo sia meglio attenerci ai vecchi criteri» disse alla fine. «Non abbiamo nessuna prova che commercianti e scienziati siano collegati tra loro, e sarebbe un errore deludere i nostri clienti abituali. Forse, quando ci recheremo domani all’appuntamento, potresti spingerti fino al trasmettitore per dare il segnale. E porta con te un pacchetto di sigarette. Di solito, naturalmente, occorrono due o tre giorni per avere la risposta, ma se adesso sono con gli scienziati, possono essere molto più vicini del solito. Meglio essere pronti, nel caso che arrivi subito la risposta.» «Vuoi dire che dovrò stare tutto il giorno accanto al trasmettitore, se necessario?» chiese Donald. «Be, non c’è bisogno di arrivare a questi estremi» disse il padre. «Resta ad aspettare per qualche tempo nei paraggi, e poi vieni pure a raggiungerci dove siamo. Possiamo tenere d’occhio noi la giusta direzione, nel caso scenda un’altra sonda… in linea d’aria non possono esserci più di due o tre chilometri, e non dovremmo avere difficoltà per vederla.» «Va bene. Io devo mandare il segnale, e gli altri devono parlare, suggerendo in particolare di far scendere un altro trasmettitore… sempre che ciascuno impari la lingua dell’altro quanto basta per comunicare una simile richiesta.» Don cambiò bruscamente argomento. «Senti, papà, mi è venuta un’idea. Tu dici che non occorre sempre aspettare la stessa quantità di tempo tra il segnale e l’arrivo della sonda?» «Esatto. Mai meno di due giorni, mai più di tre.» «Puoi darmi qualche data esatta in cui hai inviato il segnale, e la corrispondente data di arrivo? Più me ne dai, meglio è. Penso di poterle utilizzare.» Wing padre rifletté per un momento. «Alcune date, almeno» disse. «Ricordo bene quelle degli ultimi due anni, e probabilmente anche qualcuna degli anni precedenti, se mi sforzo. Che idea avevi?» «Preferirei non parlarne, finché non sarò più sicuro. Vediamo cosa riesci a ricordare.» Con l’aiuto della famiglia, che ricordava i giorni delle sue assenze… e a questo proposito fu molto utile il diario di Edie… venne trovata una ventina di date abbastanza precise da soddisfare Don. Il giovane si affrettò a salire nella sua stanza, portando con sé gli appunti. Da quel momento in poi, la conversazione scivolò impercettibilmente nella fantasticheria, e all’ora di andare a letto circolavano già da tempo molti meravigliosi disegni del probabile pianeta natale di quei visitatori fiammeggianti. Quello della piccola Margie era il più interessante, anche se il meno accurato. Sallman Ken, invece, non sprecava tempo in fantasticherie. Non aveva ancora studiato un dettagliato piano d’azione, ma certe idee, mentre lavorava, cominciavano ad affacciarglisi alla mente. Subito dopo essere rientrato nella Karella ed essere uscito dalla massiccia armatura, Ken si era recato a discutere con Feth di argomenti scientifici. All’inizio era presente anche Lee, e li aveva perfino accompagnati nella cabina di Ken quando lo scienziato aveva cominciato a parlare; ma Ken e Feth si erano scambiati un’occhiata significativa, e la conversazione aveva preso una piega alquanto astrusa. Aveva giusto quel po di significato che bastava a dare l’impressione che si discutessero questioni avanzatissime di fisica e di chimica, relative al problema di mantenere in vita, senza danneggiarli, i semi contenuti nei campioni di terreno… ammesso che ce ne fossero. Per qualche minuto parve che Lee intendesse rimanere a sorbirsi quelle chiacchiere, ma Feth ebbe all’improvviso l’ispirazione di chiedere al pilota la sua opinione su qualche particolare. Dopo un po di quel trattamento, Ordon Lee tornò a veleggiare verso la sua cabina di comando. «Non è stupido» commentò Feth, guardando la sua figura allontanarsi «ma è tanto insicuro delle sue conoscenze! Allora, cosa volete nascondere a Drai?» «Mi è venuto in mente» disse Ken «che il nostro datore di lavoro vorrà ascoltare tutto quello che si dirà sul Pianeta Tre, non appena instaureremo una decente comunicazione con gli indigeni. Ho delle vaghe idee sulle sue possibili intenzioni riguardo a quelle creature, e preferirei che Drai non udisse tutte le nostre conversazioni. «Poiché al momento non abbiamo il modo di evitarlo, vorrei sapere se è possibile collegarmi all’altoparlante della sonda senza che le mie parole giungano qui. La cosa migliore, suppongo, sarebbe quella di poter accendere e spegnere il contatto a volontà, in modo da fargli ascoltare quanto basta perché non abbia sospetti.» «Penso che si possa fare. D’accordo» disse lentamente il meccanico. «Temo che occorra più lavoro del previsto, però. Non sarebbe più semplice portare con voi, nella sonda, un altro trasmettitore? Dalla tuta potete collegarvi con il trasmettitore e il ricevitore, e potete passare a volontà da uno all’altro degli altoparlanti.» «E non si accorgeranno della mancanza dell’apparecchio?» «No, a meno che Drai non cominci a prestare molta più attenzione che in passato alle scorte di materiale elettronico.» «D’accordo, facciamo come dite. Passiamo a un altro argomento. Ho già parlato, mi pare, di sospendere l’armatura verticalmente, invece che orizzontalmente, in modo da farmi trasportare invece di dover trascinare tutto quel peso sotto una forte gravità. Vero?» «Sì. Non ci sono problemi.» «La nuova sistemazione avrà un ulteriore effetto positivo. L’unico disagio da me provato sul pianeta è stato il freddo ai piedi, diversamente da quanto temevamo. Se sarò sospeso alla sonda, non dovrò toccare il terreno, e non ci saranno perdite di calore per conduzione. «Un’ultima cosa che mi è venuta in mente riguarda la guida della sonda. Non si potrebbe costruire un quadro di comando così piccolo che io possa utilizzarlo per muovermi da solo sulla superficie del pianeta, invece di dirvi ogni volta dove voglio essere spostato?» Feth aggrottò la fronte. «Ho pensato anche a questo, mentre cercavo di tenere la sonda accanto a voi» disse. «A dire il vero, dubito di poterlo costruire… non voglio dire che non si possa fare un quadro di comando così piccolo: dico solo che non posso farlo con i materiali che ho a disposizione. Comunque, vedrò cosa si potrà combinare quando ritorneremo su Uno. Suppongo che non abbiate niente in contrario a comunicare a Drai questi due ultimi suggerimenti.» «Niente in contrario» disse Ken. «Queste notizie dovrebbero farlo felice. Pensate che sia troppo sperare che sia disposto a scendere laggiù di persona, una volta accertato che il viaggio non comporta rischi?» Nell’udire il suggerimento dello scienziato, Feth gli rivolse un aperto sorriso. «Temo che per instillargli tanta fiducia nei suoi simili» disse «ci voglia uno psicologo assai migliore di noi. E poi, a cosa potrebbe servire? Non ci sarebbe niente da guadagnare a lasciarlo laggiù, anche se la cosa suona molto piacevole, ed è inutile minacciarlo, perché non si sognerebbe mai di mantenere una promessa sgradevole che gli è stata estorta con un ricatto.» «Non mi aspettavo molto dall’idea» ammise Ken. «Benissimo, visto che siamo d’accordo sul resto, è meglio portare quei campioni su Uno, prima che congelino, e allestire un vivaio. Se riusciremo a coltivare qualcosa, Drai per qualche tempo starà tranquillo.» La sonda che aveva riportato Ken e i suoi campioni galleggiava ai limiti del campo di repulsione fin dal momento in cui Ken si era staccato da essa. Feth ritornò in cabina di comando e cominciò a pilotare la piccola nave in modo da farla accostare allo scafo della nave più grande, perché venisse trascinata anch’essa dal campo propulsivo della Karella; e Lee, dietro richiesta di Ken, si diresse di nuovo verso il Sole. A un migliaio di chilometri al di sopra della superficie di Mercurio, la sonda venne di nuovo lasciata libera, e Feth la fece scendere lentamente fino a un punto d’atterraggio posto nei pressi delle caverne: in quella zona era stata montata in passato una telecamera, e Feth se ne servì per orientarsi durante la discesa. Feth preparò le cose in modo che circa un metro della parte anteriore della sonda rimanesse al sole, mentre il resto era all’ombra di una grande massa di roccia. Questa disposizione, secondo lui, doveva mantenere all’incirca la temperatura desiderata, almeno per qualche ora. Non appena la Karella fu scesa a terra, Feth e Ken si affrettarono a recarsi nel laboratorio. Laggiù venne rapidamente preparata una cassa metallica che misurava alla base un metro quadro e che era alta una sessantina di centimetri. Feth saldò attentamente tutti gli spigoli e controllò la loro tenuta sotto la piena pressione atmosferica. Prepararono anche un coperchio di vetro, che venne reso ermetico mediante la plastica al silicone per uso nel vuoto che veniva di solito impiegata nelle astronavi; anche il coperchio venne controllato a una pressione atmosferica corrispondente a milleduecentocinquanta millimetri di mercurio. Erano intenti a costruire una seconda cassa, simile alla prima ma grande a sufficienza per contenerla, quando fece la sua comparsa Drai. A quanto pareva, aveva finalmente notato che la nave aveva fatto ritorno. «Bene, ho saputo da Lee che avete effettivamente parlato con un indigeno. Ottimo lavoro, ottimo. Avete scoperto qualcosa su come fabbricano quel loro tafacco?» «Non abbiamo ancora imparato a sufficienza la loro lingua» rispose Ken, cercando di non sembrare sarcastico. «E seguivamo una linea d’indagine leggermente diversa.» Indicò il vivaio che stavano costruendo. Drai lo guardò e aggrottò la fronte, come se cercasse di indovinarne lo scopo. «È un piccolo ambiente in cui vogliamo riprodurre le condizioni del Pianeta Tre; una sorta di esperimento» spiegò. «La cassa più grande sta all’esterno, e tra l’una e l’altra facciamo il vuoto. Feth dice che con uno dei refrigeratori a fluoruro di solfo da lui costruiti qualche anno fa riuscirà a mantenerlo alla temperatura del pianeta. Inoltre abbiamo prelevato un campione di aria del Pianeta Tre sufficiente a riempire il doppio di quel volume, a temperatura e pressione locali.» Drai continuava a mostrarsi perplesso. «Ma non è un po piccolo per uno degli indigeni?» chiese. «Lee dice che dalla vostra descrizione sono alti un metro e mezzo. E non mi ha accennato a piani di questo tipo.» «Indigeni?» fece Ken. «Credevo che voleste coltivare la vegetazione del Pianeta Tre. Cosa ce ne facciamo, qui, di un indigeno?» La faccia di Drai si rischiarò. «Oh, capisco» disse. «Non sapevo che aveste già raccolto campioni di vegetazione. Comunque, ora che penso alla cosa, avere con noi un indigeno o due potrebbe anche essere utile. Se è una razza civile, potremmo servircene per farci dare uno stupendo riscatto in tafacco… e potremmo impiegarli nelle caverne, dopo averle messe nelle giuste condizioni ambientali, per prendersi cura del tafacco e per raccoglierlo. Grazie per avermi suggerito l’idea.» «Finora» obiettò Ken «non so fin dove esattamente giunga l’intelligenza degli indigeni, ma non credo che siano talmente stupidi da entrare in qualche trappola da noi allestita. Se la cosa non vi disturba, preferirei lasciare questo espediente come ultima risorsa… sarà già abbastanza complicato prendere dai loro attuali contenitori il terriccio e i semi da me raccolti e trasferirli in questo vivaio senza esporli alla nostra atmosfera o al vuoto dello spazio. Far entrare un indigeno in una di quelle caverne sarebbe cento volte più difficile.» «Sì, forse avete ragione. Ma continuo a pensare che ci procurerebbe una maggiore quantità di tafacco.» «Lo penso anch’io, se sono abbastanza civili. Ma non vedo perché dobbiate lamentarvi della cosa… Dio sa che il tafacco vi costa abbastanza poco, ora come ora.» «No, non mi dà fastidio il prezzo» disse Drai «ma la quantità. Riusciamo ad avere soltanto un paio di centinaia di cilindri l’anno… mi riferisco a un anno del Pianeta Tre. Questo non ci permette di operare su una scala abbastanza grande. Comunque, fate la cosa che vi sembra migliore… ammesso che riusciate a convincere anche me che è la migliore.» E con queste parole se ne andò, sorridendo; ma sia Feth che Ken ebbero l’impressione che quel sorriso contenesse dei sottintesi molto spiacevoli. Feth guardò con inquietudine la forma di Drai che si allontanava, fece per riprendere il lavoro, s’interruppe di nuovo, diede un’occhiata a Ken, come per scusarsi, e infine si mise a seguire Drai. Lo scienziato si ricordò che Feth aveva preso la sua ultima dose della droga qualche tempo prima di lui. Questo lo portò a domandarsi quanto tempo mancava ancora, prima che sentisse anche lui la mancanza del narcotico. Feth aveva parlato di cinque o sei giorni sarriani, ciascuno dei quali era lungo circa tredici ore terrestri. Da quando Ken aveva ripreso i sensi, circa mezza giornata era trascorsa in discussioni, preparazione delle tute corazzate e viaggio fino a Tre; poi, più di un giorno era stato occupato dai test delle tute e dall’incontro con l’indigeno; infine, dal rientro su Uno fino a quel momento era passata un’ulteriore mezza giornata. Guardando invece al futuro, doveva trascorrere ancora una mezza giornata prima del nuovo incontro con gli indigeni di Tre. Nessuno poteva dire quanto era destinato a durare l’incontro, ma, a quanto pareva, aveva ancora a disposizione almeno un paio di giorni, prima della crisi di astinenza. Cessò di preoccuparsi e rivolse nuovamente l’attenzione al vivaio quasi completo. Non era un saldatore esperto, ma i campioni che attendevano pazientemente a una distanza di tremila chilometri dalla base non sarebbero sopravvissuti per molto, e lui non sapeva per quanto tempo Feth non era disponibile. Prese il saldatore e tornò al lavoro sulla cassa esterna. Osservando Feth, aveva imparato a controllare le saldature, e rimase piacevolmente sopreso quando risultò che le sue erano a tenuta d’aria. Comunque, non osò spingersi oltre; il meccanico non aveva lasciato progetti scritti, e Ken non aveva idea di come intendesse collegare la pompa e il refrigeratore. Interruppe perciò il lavoro e si dedicò al problema di cui aveva parlato con Drai: trasferire i campioni nel nuovo bellissimo vivaio, una volta che questo fosse completato. Perse del tempo cercando di inventare il sistema di aprire le scatole a distanza, prima che gli venisse in mente la soluzione. Poi si diede un calcio per non averci pensato prima… le gambe a doppia articolazione dei sarriani rendevano particolarmente agevole questa operazione. Infine si rilassò fino al ritorno di Feth, avvicinandosi al sonno quanto era possibile alla sua razza. Il meccanico ritornò dopo circa quattro ore. Pareva in ottima forma; il tafacco evidentemente non lasciava postumi visibili, neppure dopo anni di uso, e la constatazione servì a rassicurarlo leggermente. Ken gli fece vedere il lavoro da lui fatto in sua assenza, e Feth si complimentò con lui. Parve un poco deluso, comunque, quando udì i progetti dello scienziato per riempirlo; come gli confessò in seguito, lui non ci aveva pensato. «Siamo stati sciocchi a prendere dei campioni prima di avere il posto dove metterli» disse Ken. «Nei contenitori corriamo il rischio di rovinarli, e inoltre c’è il problema di trasferirli. Sarebbe stato più saggio costruire per prima cosa questo vivaio, e in un secondo tempo portarlo sulla superficie di Tre per riempirlo sul posto. Perché non l’abbiamo fatto?» «Se volete che risponda a questa domanda» disse Feth «è perché eravamo troppo ansiosi di fare il viaggio. Non intendete usare i campioni che già possediamo, allora?» «Potremmo controllare la loro temperatura» disse Ken. «Se è ancora ragionevole, possiamo riportarli su Tre e fare il trasferimento laggiù. Sarà interessante vedere se i semi sono sopravvissuti al viaggio, sempre che ci siano dei semi nei campioni… con questo però non voglio dire che un’eventuale mancanza di crescite significhi qualcosa.» «Si potrebbero esaminare i campioni al microscopio per cercare i semi in essi contenuti» disse Feth, dimenticandosi per un attimo di quella che era la realtà della situazione. «E come faccio?» domandò Ken in tono interessato. «Cuocio il campione o congelo l’osservatore?» Feth lasciò perdere i suggerimenti e ritornò al suo lavoro: in breve tempo, il vivaio prese forma sotto i suoi abili tentacoli. Ken vide che il refrigeratore e la pompa erano due apparecchiature straordinariamente piccole, robustamente fissate al fianco della cassa. I comandi erano semplici: una leva acceso-spento per la pompa, un cursore graduato per il refrigeratore. «Non l’ho ancora calibrato» disse Feth, indicando il cursore. «Metterò un termometro all’interno, dove sarà possibile vederlo attraverso il coperchio, e voi dovrete regolare la leva finché non si troverà alla giusta temperatura.» «Perfetto» commentò Ken. E aggiunse: «Per delle attrezzature fabbricate con quel poco che avete a disposizione, mi sembra che costruiate meccanismi altamente professionali. Anche volendo, non riuscirei a trovare nessun difetto.» Mancavano alcune ore all’appuntamento sul Pianeta Tre. Oziarono e chiacchierarono per qualche tempo, e Ken perfezionò progressivamente i suoi piani. Parlarono delle singolarità del Pianeta dei Ghiacci. Feth cercò fra i suoi equipaggiamenti e riferì di non avere trovato niente con cui si potesse costruire il quadro di comando portatile che avrebbe permesso a Ken di manovrare direttamente la sua sonda. Fu poi il turno del meccanico di prendersi a calci quando lo scienziato gli suggerì di collegarlo via cavo ai comandi: lui, Ken, non aveva bisogno di mandare gli impulsi via radio. Trenta minuti più tardi, nel laboratorio c’era una sonda da cui, in corrispondenza di un minuscolo foro sullo scafo, usciva un lungo cavo elettrico che terminava con una piccola scatola provvista di sei o sette levette. Manipolando le levette, Ken non ebbe difficoltà a far fare alla navicella i movimenti voluti. «Mi pare che siamo della stessa forza, nel non accorgerci delle cose più ovvie» disse Ken, alla fine. «Non sarebbe meglio prepararci alla partenza?» «Lo penso anch’io. Tra l’altro, visto che non potete leggere gli strumenti della sonda, è meglio che vi piloti io finché non sarete sulla superficie del pianeta. Poi potrete andare dove vorrete.» «Giusto» rispose Ken. «A una distanza di cinquemila chilometri dalla superficie, non credo di poter giudicare bene la quota e la velocità…» S’infilarono la tuta spaziale, e cominciarono a trasportare sulla Karella le loro apparecchiature. Lasciarono il vivaio nella camera di decompressione, perché dovevano in seguito legarlo alla sonda; ma Lee si imbatté in esso, qualche minuto più tardi, e cominciò a fare dei commenti corrosivi sulle persone che ostruiscono l’uscita delle navi spaziali. Umilmente, Ken portò la scatola all’interno, senza chiedere aiuto a nessuno, perché Feth era in cabina di comando, intento a far entrare nel suo alloggiamento sullo scafo la sonda a cui aveva applicato i dispositivi manuali. Erano pronti a partire, se non fosse stato per la mancanza di un’ultima cosa, e nessuno dei due ne aveva notato l’assenza. Se ne accorsero all’ultimo minuto prima dell’ora fissata per il decollo, allorché un’altra figura che indossava la tuta veleggiò dalla camera di decompressione della base a quella della nave. Lee rimase in attesa che salisse, senza mostrare alcuna sorpresa; e un momento più tardi Laj Drai entrò nella cabina di comando. «Possiamo partire, se tutte le vostre apparecchiature sono a bordo» disse. Senza fare commenti, Ken rivolse un cenno affermativo al pilota. 16 Ken si era già infilato a metà nella tuta corazzata, ma agitò tutt’e quattro i tentacoli in segno di protesta. «Se pensate che parli senza capire le cose, perché mi avete assunto?» domandò. «Raccoglierò e coltiverò per voi quelle piante il più in fretta possibile. Il nostro recipiente non è molto grande… laggiù ci sono delle piante che sono più grandi di questa nave, mi crediate o no. Non so più di voi che aspetto abbia questo tafacco quando cresce… anzi, non sono neppure sicuro che sia una pianta. Toglietevi di testa l’idea che io riempia di piante questo vivaio finché non avranno neppure lo spazio per respirare, e cercate di avere un po di pazienza. Ci sono voluti duemila anni per esplorare Sarr, ed è stata un’esplorazione molto più facile di questa!» Tornò a infilarsi nella tuta d’acciaio. «Farete quello che vi viene ordinato, signor Ken. Non m’importa il modo in cui lo farete, ve l’ho già detto; ma se in un tempo ragionevole non coltiverete il tafacco, qualcuno finirà per pentirsene.» La risposta di Ken giunse alquanto attutita, poiché dalla tuta gli usciva solo la testa. «Potete farlo, certo; non posso fermarvi. Comunque, se mi lascerete condurre le cose a modo mio, credo onestamente che tutto sarà più veloce. Usate la testa… in fin dei conti, chi è che conosce bene questo pianeta?» Fece una pausa troppo lenta perché la domanda potesse avere una portata superiore a quella retorica, e poi proseguì: «Gli indigeni, naturalmente. Non soltanto conoscono il pianeta, ma presumibilmente conoscono anche il posto dove il tafacco si può trovare, visto che lo vendono a voi. Non riuscirete ad allontanarmi dalla mia convinzione che il miglior modo di imparare quanto vogliamo sapere è quello di farselo dire dagli indigeni.» «Ma occorre troppo tempo per imparare una lingua!» «Certo. E occorre molto tempo per esplorare cinquecento milioni di chilometri quadrati di territorio, anche se escludete i tre quarti che sono costituiti dalle pianure azzurre… cosa che in realtà non potete fare, perché questi indigeni potrebbero essere in buoni rapporti commerciali con quelli delle pianure, e farsi dare il tafacco da loro. Che ne dite di questa possibilità? Mi pare che vi siete stancato di esplorare le pianure già molto tempo fa… com’è andata, avete perso diciannove sonde su venti, oppure venti su venti? La percentuale è abbastanza preoccupante in entrambi i casi.» «Ma supponiamo che non vogliano farci sapere dove lo possiamo trovare?» disse Drai. «Potrebbero aver paura che ce lo procuriamo da noi, invece di pagarglielo.» «La cosa non richiede molta intelligenza da parte loro» ammise Ken. «Certo, possono avere dei sospetti. Ho sempre detto che queste trattative devono essere condotte con un po di tatto. Se pensate che non sia capace di condurmi in modo diplomatico, ve lo ripeto… andateci voi. Abbiamo delle altre tute. Io intendo scendere lo stesso, perché voglio studiare il posto, ma potete venire anche voi… la sonda può portare senza difficoltà me, voi e la cassa!» «Non sarò un genio» disse Drai «ma non sono del tutto pazzo. Sarò laggiù per mezzo della radio. E se non mi piacerà la vostra diplomazia, potrete fare a meno di tornare.» «Non pensate di recuperare almeno la tuta?» domandò Ken, in tono angelico. «Pensavo che fossero molto costose.» E così dicendo chiuse con un tonfo il pesante elmetto. Feth, che era lì ad ascoltare, serrò le ultime viti della tuta. Era leggermente preoccupato; lui stesso non aveva più parlato con Drai in questo modo, da anni, e aveva ancora degli spiacevoli ricordi dell’ultima volta che lo aveva fatto. Conosceva, naturalmente, lo scopo di quegli atteggiamenti di sfida da parte di Ken: lo scienziato voleva infastidire Drai quanto bastava a non fargli sospettare più di una cosa alla volta. E la cosa di cui sospettava era quella voluta da Ken. Feth dovette ammettere con se stesso che Ken aveva condotto bene quella parte della conversazione. Però, gli piaceva poco l’espressione che vide sulla faccia di Laj Drai, quando questi si stese su una spalliera a poca distanza dalla radio. Smise di pensare alla cosa perché gli giunse una chiamata da Ken, che era nella camera di decompressione e che gli riferiva di essersi legato alla sonda. «Fatemi uscire di qui con i miei comandi, perché voglio muovermi un po attorno, mantenendomi abbastanza vicino alla nave da poter vedere l’effetto delle mie manovre» terminò. «Voglio imparare a usare questi dispositivi finché ho solo da pensare alla forza d’inerzia, e non anche al peso.» «Giusto» ammise Feth, e staccò i tentacoli dai comandi. Con un occhio continuò a fissare l’indicatore, e con l’altro cercò il finestrino più vicino. In pochi istanti gli si presentò alla vista il cilindro affusolato di metallo, che schizzava da una parte e dall’altra, facendo dondolare la figura dello scienziato, chiusa nell’armatura e legata a poppa, vicino alla scatola rettangolare del vivaio… anche questo troppo grande per entrare nel vano di carico. Ken non parve incontrare problemi nel controllare il suo veicolo dalla goffa apparenza, e alla fine comunicò di essere pronto per la discesa. «Bene» disse Feth. «Riprendo i comandi. Controllate che le vostre leve siano sullo zero, perché sono messe in serie con le mie, e gli impulsi si sommerebbero. A proposito, tutta la roba è nel vano di carico.» L’altra sonda con i campioni era stata recuperata dal suo esilio sulla superficie di Mercurio, e Laj Drai lo sapeva; Feth sperava che non avesse notato l’enfasi sulla parola «tutta». Il meccanico aveva infilato nel vano, insieme con gli altri oggetti, anche una seconda radio, ma l’aveva fatto all’ultimo momento e non aveva avuto il tempo di dirlo a Ken. Sperava che lo scienziato ne conoscesse il funzionamento. Ken, a dire la verità, non aveva capito l’accenno di Feth. Era troppo occupato a farsi coraggio per la imminente discesa, che la volta precedente aveva messo a dura prova i suoi nervi. Questa volta, l’esperienza risultò meno inquietante, soprattutto perché cercò di non pensarci, concentrandosi sui problemi che lo attendevano sulla superficie del pianeta, e che erano abbastanza numerosi. Non incontrò difficoltà nel rintracciare la scena dell’incontro precedente, anche se Feth non riuscì a farlo scendere esattamente nello stesso luogo. Si accorse che era in anticipo: il sole si era appena levato. Meglio così, si disse. Comunicò a Feth, come misura di sicurezza, il suo arrivo, gli disse che prendeva i comandi della sonda, e si accinse al lavoro. Il primo passo fu quello di far scendere la sonda fino ai limiti di una vasta macchia di piante. Prima di procedere, controllò che la macchia fosse isolata; la reazione dei vegetali di quel pianeta a contatto con il metallo caldo l’aveva impressionato fortemente, e lui aveva una buona immaginazione e capiva quello che poteva succedere. Poi abbassò la sonda finché il vivaio non toccò il suolo, e staccò dalla sonda lo scomodo scatolone. Il doppio coperchio si aprì senza difficoltà… Feth aveva previsto il probabile effetto della bassa temperatura sulle cerniere metalliche… e Ken si mise all’opera. Recuperò in fretta dal vano di carico i campioni di terreno e li infilò nella scatola, tutti dalla stessa parte. Usando una striscia di metallo che aveva portato con sé, livellò il mucchietto di materiale scuro e ne fece uno strato spesso sette o otto centimetri e largo trenta; poi iniziò a usare la striscia di metallo come se fosse stata una paletta. Lo scienziato staccò dal terreno piccoli cespugli, muschi, altra vegetazione, prestando attenzione a non toccarli con la sua armatura, e posando frequentemente sul terreno la sua striscia metallica perché si raffreddasse. Esaminò con attenzione i sistemi di radici di quelle piante, tutti assai diversi tra loro, e prelevò con cura un’ulteriore quantità di terreno dai punti dove prima spuntava ciascuna delle piantine, in modo che nel vivaio, sotto di esse, ci fosse un sufficiente spessore di terreno. Uno alla volta trasferì nel vivaio i suoi esemplari, mettendoli forse un potroppo vicini tra loro per accontentare un giardiniere terrestre, ma piantandoli saldamente nel terreno, in modo che rimanessero in piedi, così come lo erano prima. Una volta o due guardò con desiderio i cespugli più grandi, ma rinunciò a prenderli. Erano troppo alti, e un breve controllo gli mostrò che avevano le radici troppo lunghe. Aveva riempito circa un terzo della superficie quando arrivò la famiglia Wing. Roger ed Edie erano piuttosto avanti rispetto agli altri; i due bambini piccoli sarebbero arrivati probabilmente insieme a loro se quel luogo non fosse stato così lontano da casa. Invece, dato che cominciavano a essere un po stanchi, arrivarono con i genitori. Ken non li sentì sopraggiungere; il microfono della sonda non era molto sensibile, e questa volta Roger non emise nessun richiamo nel vedere l’alieno. I ragazzi si avvicinarono quanto più poterono, cercando di capire cosa stesse facendo. L’attività di Ken era abbastanza ovvia, ma fu soltanto dopo avere soddisfatto la sua curiosità che Roger lo salutò. «Siete in anticipo» disse. «Perché non mi avete avvertito che stavano arrivando?» li interruppe dall’altoparlante la voce di Laj Drai. «Non li ho visti; stavo lavorando» rispose con calma Ken. «Però, se volete che entriamo in comunicazione con questi indigeni, vi prego di non dire niente. Non sono in grado di capire quando sono io quello che parla, e un numero eccessivo di suoni finirebbe per confonderli.» S’interruppe, e osservò attentamente il resto del gruppo di esseri umani che si avvicinava. La dimensione della signora Wing e di suo marito lo sorprese un poco; gli occorsero alcuni secondi per capire che gli individui che aveva visto per primi erano probabilmente dei bambini. Gli adulti erano molto più impressionanti, se uno si lasciava impressionare dalla dimensione; Ken si disse che ciascuno di essi doveva pesare più di un sarriano. Almeno il venticinque per cento in più, supponendo che riempissero totalmente le loro strane coperture e che la loro carne avesse pari densità. Inoltre, nel modo di comportarsi degli indigeni più adulti c’era qualcosa di autorevole; una serietà di intenti, una decisione che, si disse Ken, mancava negli esemplari immaturi. Per la prima volta, Ken pensò agli indigeni della Terra come a delle creature «probabilmente civili». E senza dubbio le azioni dell’indigeno più massiccio indicavano la presenza di una mente ben disciplinata. Wing padre non perse tempo. Sedette davanti a Ken, tirò fuori un taccuino su cui aveva già scritto le parole che Roger diceva di avere insegnato all’alieno e le passò in rassegna. Osservando Ken, le pronunciò una alla volta; lo scienziato rispose indicando ogni volta l’oggetto corrispondente. Accertatosi che capiva quelle parole, l’uomo diede subito inizio a una lezione di lingua, con una precisione di intenti e un’efficacia d’esecuzione che indussero Ken a pensare a lui come a un fratello spirituale prima ancora che iniziasse tra loro una vera e propria comunicazione. A questa non si giunse in un colpo solo, ma occorse un tempo assai inferiore a quello che molti potrebbero credere necessario. Come potrebbe confermare chiunque insegni per professione la propria lingua agli stranieri, di gran parte delle cose di tutti i giorni si può discutere soddisfacentemente servendosi di un vocabolario inferiore alle mille parole. La situazione in cui si trovava Ken non era di tutti i giorni, in nessun senso del termine, ma tra l’abilità della signora Wing nel disegno e la disponibilità dei bambini a illustrare praticamente le azioni richieste, i progressi da entrambe le parti furono soddisfacenti. Per l’intera lezione, Ken era rimasto nello stesso punto, e aveva riscaldato la roccia su cui posava i piedi; di conseguenza passarono almeno tre ore prima che sentisse la prima fitta di dolore causata dal freddo. Quando la sentì, comunque, gli venne in mente che da quando erano arrivati gli indigeni non aveva più riempito la sua scatola di campioni di vegetazione; e, dopo avere educatamente atteso che Wing padre terminasse una spiegazione, indicò la zona vuota. L’uomo annuì, e gli mostrò con la mano la roccia. Da quando era iniziata la lezione, Ken non aveva più prestato attenzione alle azioni dei due bambini più piccoli; aveva pensato che giocassero, come facevano anche i bambini della sua razza. Adesso si sorprese nel vedere posate sulle rocce, a poca distanza dal vivaio, alcune decine di piante delle più varie forme e dimensioni. Evidentemente i bambini avevano visto che cosa stava facendo, e avevano deciso di aiutarlo. Con crescente sorpresa, scoprì che tra gli esemplari non c’erano duplicati. Quella razza doveva davvero essere intelligente; non aveva visto nessuno degli adulti dare ordini. Con un’espressione orale di gratitudine che certamente non sarebbe stata compresa dai suoi compagni, cominciò goffamente a infilare le piante nella cassa, servendosi della sua striscia di metallo. Quando raccolse la prima, la indicò con il manipolatore libero e disse: «Parola!» Tutti capirono cosa volesse dire, e Roger rispose: «Felce.» Dopo avere osservato per un istante quanto fossero goffe le sue azioni, Wing padre gli indicò di allontanarsi dalla cassa, e mise al lavoro i bambini. Ken li osservò con grande interesse, perché per la prima volta notava quanto fosse efficace, come organo prensile, la mano umana. In particolare, le agili dita delle ragazze infilavano saldamente le piantine nel terreno, a una velocità e con una facilità tali che lui stesso non sarebbe riuscito a uguagliarle, neppure senza l’impedimento dell’armatura e della temperatura diversa. Ogni volta che prendevano un esemplare, lo chiamavano con il suo nome. In seguito risultò che qualche nome era stato usato più volte, anche per piante che si assomigliavano soltanto superficialmente, o che non si assomigliavano affatto. Gli occorse qualche tempo per risolvere quella sorta di indovinello, anche se sapeva già che la lingua degli indigeni comprendeva sia i nomi individuali sia quelli di genere. Pochissimi minuti furono sufficienti per coprire di piantine ben sistemate l’intera base della scatola; e non una sola volta Ken udì la parola così importante per Laj Drai che li ascoltava. Quanto a lui, preferiva così: la menzione del «tafacco» da parte di un indigeno in un posto dove Drai poteva udirlo avrebbe intralciato gravemente i piani di Ken. Anche se aveva già prelevato dal vano di carico della sonda i contenitori con gli esemplari raccolti durante la sua visita precedente, fu soltanto nel rimettere a posto i contenitori vuoti che Ken scoprì la radio collocata laggiù da Feth. Per un momento si irritò sia con se stesso che con il meccanico, perché si era ormai dimenticato dell’avviso che Feth gli aveva rivolto alla partenza; poi si disse che era meglio così. Se Drai aveva continuato ad ascoltare fin dall’inizio della lezione di lingua, ormai doveva essere convinto che Ken non aveva grilli per la testa. Non c’erano state interruzioni che potessero insospettirlo. Mentre nella mente di Ken passavano questi pensieri, anche Wing padre stava facendo le sue riflessioni. Sembrava evidente che lo straniero… non si erano ancora comunicati i rispettivi nomi… era sul piede di partenza. Quel viaggio era stato un’uscita abbastanza piacevole per la famiglia, questo è vero; ma una ripetizione quotidiana sarebbe stata un po troppo anche per una cosa piacevole, e a casa c’erano molti oggetti che potevano venire utili nelle lezioni di lingua. Pareva dunque giunto il momento di compiere il tentativo che in precedenza aveva suggerito agli altri membri della famiglia: cercare di convincere l’alieno ad atterrare più vicino alla casa. Di conseguenza, quando Ken finì di sistemare i contenitori vuoti, di chiudere il vivaio e di legarlo alla sonda, trovò davanti a sé il più grande degli indigeni che gli presentava un disegno ben eseguito, ma assolutamente incomprensibile, e che pareva desideroso di comunicare informazioni di qualche genere. Occorsero quattro o cinque minuti per chiarire il significato della mappa, anche se Ken capì in generale l’idea fin dai primi secondi. La difficoltà stava nella scala. Alla fine, comunque, il sarriano capì. Prima passò qualche minuto a descrivere in dettaglio la mappa a Feth, in modo da poterla studiare e riprodurre in seguito, e poi disse: «Sì» a Wing padre. «Domani… un giorno dopo oggi… qui» ripeté l’uomo, e Ken agitò la testa. Aveva notato che, come prevedibile, quelle creature univano al loro linguaggio vocale anche quello dei gesti. «Qui.» Indicò lo stesso punto, come meglio poté, con un manipolatore, e la carta divenne scura prima che si affrettasse a toglierlo. Poi gli tornò in mente qualcosa d’altro. «Non domani. Non un giorno dopo oggi. Due giorni.» Wing padre aggrottò la fronte. «Non domani?» «No. Due giorni. Partire adesso; freddo.» E Sallman Ken si voltò, prese dal vano di carico la radio, la posò in terra, disse: «Portare!» e si dedicò al compito di legarsi nuovamente alla sonda. Si era staccato, contrariamente ai suoi progetti originali, quando si era accorto che non poteva raggiungere il vano di carico mentre era incatenato alla chiglia della sonda. L’indigeno, fortunatamente, non disse niente mentre lui si legava allo scafo. In realtà, Wing padre era troppo stupito dagli ultimi avvenimenti e non era in grado di dire niente; persino i bambini si chiedevano come avesse fatto. Ken si sollevò in aria tra un mortale silenzio, finché i due più piccoli, ricordando l’educazione, esclamarono: «Arrivederci!» all’indirizzo della forma che si allontanava. Udì a malapena le parole, ma riuscì a indovinarne il significato. Al ritorno sulla Karella, la sua prima preoccupazione fu quella di portare all’interno il vivaio. Aveva già svuotato l’interstizio tra le due casse aprendo per alcuni istanti una piccola valvola durante il viaggio nello spazio; ora accese il refrigeratore e non staccò gli occhi dal termometro collocato all’interno del vivaio finché non fu certo che le fluttuazioni fossero terminate. Allora, e soltanto allora, cominciò a riascoltare la registrazione, insieme con Feth, per essere certo di ricordare il centinaio di parole che aveva imparato durante la discesa. Laj Drai, con una certa sorpresa di Ken, vietò di interromperlo, anche se Feth disse che aveva ascoltato attentamente i colloqui durante l’intera permanenza di Ken sul pianeta. Mentre ripassava le parole, Ken riuscì a dire al meccanico cosa aveva fatto della radio, e Feth ammise che era stata una buona mossa. Non c’era più da temere che Drai o Lee finissero per scoprire accidentalmente il contenuto della sonda. Pareva che Ken fosse stato più convincente di quanto si era aspettato lui stesso, nel suo discorso a Drai prima della partenza. Era rimasto un po sorpreso quando il padrone aveva evitato di interromperlo al suo ritorno; ora si accorse che Drai non stava nella pelle dal desiderio di farlo, ma temeva di mettersi di nuovo dalla parte del torto. Quando il colloquio tra Ken e Feth giunse alla fine, Drai si precipitò al fianco dello scienziato, chiedendogli di completare con le sue impressioni visive le descrizioni che aveva dato per radio. «Mi occorrerebbe una macchina fotografica per dare una buona idea del loro aspetto» rispose Ken. «M’ero sbagliato per ciò che riguardava la loro dimensione; quelli che ho visto inizialmente dovevano essere i bambini. Gli adulti sono leggermente più grossi di noi. «Non credo che la loro lingua sia difficile e mi pare che questo gruppo, almeno, sia intenzionato a collaborare con noi.» E parlò di come l’avessero aiutato a raccogliere le piante. «Infatti, ho dato loro un’occhiata» disse Drai. «Non credo che una di quelle sia la cosa che cerchiamo, vero?» «No, a meno che non usino nomi diversi per la pianta viva e per il prodotto. Mi hanno detto il nome di ciascuna pianta mentre la mettevano nel vivaio, e avreste sentito anche voi se avessero detto «tafacco» anche una sola volta.» Drai rifletté per un momento, prima di riprendere la parola. «Bambini, eh?» disse. «Forse, se vi metteste a lavorare con loro e riusciste a sbarazzarvi degli adulti, le cose potrebbero essere più semplici. Dovrebbe essere più facile ingannare i bambini.» «Qualcosa di simile è venuto in mente anche a me» disse Ken. «Forse dovremmo costruire delle altre casse da portare giù; potrei darle da riempire ai bambini durante le prossime lezioni di lingua, e alla fine avrei una buona scusa per parlarne con loro. Qualcosa potrebbe venire fuori, se non interferissero i genitori.» «Genitori? Come sapete che sono i genitori?» «Non lo so, ovviamente; ma sembra probabile. Cosa ne dite?» «Buona idea, mi sembra. Potete fare una scatola per ciascun bambino prima di domani?» «No, non conto di scendere così presto. Devo tener conto di quelli che, a quanto mi ha detto Feth, sono gli effetti del tafacco sull’organismo, e penso di non farcela.» Drai tacque quanto bastava per fare alcuni calcoli mentali. «Probabilmente» disse «avete ragione. Dovremo ritornare su Uno per farvi avere la vostra dose; non so neanch’io il perché, ma non mi piace portarmi dietro quella roba, col rischio che cada nelle mani sbagliate.» E sorrise, in quel suo modo carico di sottintesi antipatici che portava Ken, ogni volta che lo scorgeva, a odiare lo spacciatore un poco di più. 17 «Papà, vuoi per favore spiegarmi come sei riuscito a fartela dare?» Don fissava a occhi spalancati la radio sarriana. Roger rise. «Non è stato lui a farsela dare. Ha passato tutto il pomeriggio a insegnare l’inglese all’extraterrestre, e quello, proprio mentre stava per andarsene via, si è voltato e ha posato per terra quell’oggetto. «Portare!» ha gridato, ed è partito. Cosa credi che sia, papà?» «Non posso saperlo fino al suo ritorno, Rog. Può essere un apparecchio che intende usare nella sua prossima visita; può essere un dono per ringraziarvi di averlo aiutato a raccogliere le piante. Mi pare che sia meglio portarlo a casa, come ci ha detto lui, e non fare niente fino al suo ritorno.» «Ma se non ritornerà prima di due giorni…» «So che la curiosità è una malattia dolorosa, Rog; ne soffro anch’io. Ma continuo a credere che risulterà vincitore in questa nuova sorta di commercio colui che procederà con maggiore cautela e che terrà nascosti più a lungo i suoi veri interessi. Non siamo ancora sicuri che le sue indagini scientifiche non abbiano un solo scopo: evitare di dover pagare il tabacco. In fin dei conti, perché questo tizio ha cominciato proprio con le piante? C’è un mucchio di altre cose che potrebbero interessargli.» «Se la sua forma di vita è tanto diversa dalla nostra, come può sapere che il tabacco viene da una pianta?» rispose Roger. «Alla sua temperatura, certamente brucerà subito e non gli permetterà di guardare i pezzi al microscopio o qualcosa di simile, e una sigaretta non assomiglia certo a una pianta.» «Vero» ammise il padre. «Be, io dico solo che non abbiamo nessuna prova che le sue intenzioni non siano quelle. E che mi sembra probabile che invece lo siano.» Stranamente, anche Ken pensò a un argomento simile, nell’intervallo tra quella visita e la successiva; e quando scese nella radura accanto alla casa dei Wing, con quattro scatole legate alla navicella, per prima cosa fece capire che voleva mettere dei minerali in una cassa che era priva di apparecchio refrigeratore. Indicandone poi una seconda, anch’essa senza refrigeratore, disse: «Oggetto… buono caldo… buono freddo.» I Wing si guardarono tra loro per un attimo; fu poi Edith a prendere la parola. «Volete dire, oggetti che sono buoni sia al caldo che al freddo? Roba che non occorre mettere ne! refrigeratore?» Nella frase c’erano molte parole nuove, ma Ken tentò lo stesso. «Sì. Caldo, buono» disse. Era ancora sospeso a mezzo metro dal terreno, poiché questa volta aveva legato il carico in modo da poterlo staccare senza essere costretto a scendere a terra. Ora si posò lentamente sul terreno, e cominciarono a succedere delle cose. Il sottobosco, come capita spesso nelle foreste di conifere, era composto prevalentemente di aghi di pino. Intorno alla casa, in parte erano stati scopati via, ma il terreno era decisamente infiammabile. Naturalmente, nel momento in cui il piede di Ken, chiuso nello stivale d’acciaio, toccò lo strato di aghi secchi, si alzò una nube di fumo, e solo la sua rapidità nel sollevarsi nuovamente in aria evitò che s’incendiassero. Comunque, nessuno si sentì al sicuro finché Roger non ebbe versato sul luogo un secchio d’acqua. Questo, però, fece nascere complicazioni di altro genere. Ken non ricordava di avere mai visto l’acqua, e certo non aveva mai visto delle attrezzature capaci di dispensare quantità di liquido apparentemente illimitate. Il rubinetto utilizzato per riempire il secchio suscitò in lui un notevole interesse; e in base a una sua richiesta, fatta in una mescolanza di segni e di parole inglesi, Roger riempì un altro secchio, lo posò sul muretto di cemento, ai piedi degli scalini davanti alla porta, e poi si allontanò. Ken, che in tal modo poteva esaminare l’oggetto senza entrare in contatto con altro, lo studiò a lungo; e terminò tuffando con cautela un manipolatore in quel curioso liquido trasparente. La nube di vapore che ne fuoriuscì lo sorprese quasi quanto la momentanea e intensa sensazione di freddo che gli giunse dal metallo, e si affrettò a tirarsi indietro. Cominciava a sospettare la natura di quel liquido, e mentalmente si tolse il cappello davanti a Feth. Il meccanico, ammesso che fosse veramente un meccanico, era davvero capace di pensare. Alla fine, Ken venne installato sopra un forno all’aria aperta, nei pressi della casa; le scatole per i campioni vennero appoggiate per terra e i bambini scomparvero in varie direzioni per riempirle. Riprese la lezione di lingua, e per circa un’ora si fecero notevoli progressi. Alla fine di quel periodo, maestro e allievo rimasero piacevolmente sorpresi nel constatare di riuscire a scambiarsi frasi accessibili: frasi goffe e grezze, piene di circonlocuzioni, ma comprensibili. Sulla faccia di Wing padre si disegnò un sorriso quando se ne accorse; si disse che era giunto il momento di dare una leggera sorpresa al suo ospite, e forse di riuscire in tal modo a ricavarne qualche informazione utile. Ricordava cosa si erano detti lui e Don la sera prima, e pensando al figlio provò una sorta di tranquilla soddisfazione: quel tipo di soddisfazione che talvolta trasforma i padri in solenni seccature. «Non mi hai fornito molte date» gli aveva detto Don «ma sono state sufficienti. Concordano con altre informazioni. L’intervallo tra l’invio del segnale e l’arrivo della sonda varia con un periodo di circa centoventi giorni, considerando i dati di vari anni. Naturalmente, in molti di questi «periodi» non sono arrivate sonde, ma il ciclo è quello: prima due giorni, e poi tre giorni. E centoventi giorni è il periodo sinodico di Mercurio: il tempo occorrente perché Mercurio raggiunga la Terra nel corso di due successive rivoluzioni attorno al sole. Ricordavo la posizione di Mercurio perché l’ho studiata a scuola questa primavera, e ho fatto alcuni calcoli: gli intervalli brevi tra segnalazione e arrivo cadevano quando Mercurio era più vicino, e quelli lunghi quando era dall’altra parte del sole, a una distanza circa doppia. A quanto pare, quelle sonde arrivano da Mercurio con un’accelerazione di circa una volta e un quarto quella di gravità.» Wing padre non era un fisico, ma aveva capito a sufficienza il discorso del figlio. Il concetto era diventato di dominio pubblico in collegamento con il volo degli aeroplani. Aveva controllato le cifre di Don, che erano abbastanza facili da seguire, e gli erano sembrate giuste; dietro sua richiesta, il ragazzo aveva disegnato uno schema delle orbite dei pianeti interni del sistema solare, indicando su di esse la presente posizione dei pianeti stessi. In quel momento, Wing padre aveva la piantina in tasca. Con l’extraterrestre avevano appena finito di parlare della parola «casa», a cui erano giunti per combinazione. Wing padre pensava di avere sufficientemente chiarito il concetto, e gli pareva che fosse giunto il tempo di mettere sul tavolo uno degli assi che fino a quel momento aveva tenuto nella manica. Cominciò sollevando un braccio in modo da indicare l’intero orizzonte. «Terra» disse. Il sarriano ripeté la parola, senza fare gesti che indicassero che aveva capito. L’uomo pronunciò di nuovo la parola, pestando in terra il piede; poi prese un foglio del suo taccuino e fece uno schizzo del pianeta, disegnandolo come, secondo lui, doveva apparire dallo spazio. Come spiegazione finale, fece una sfera servendosi di un pezzetto di creta da modellare che aveva trovato nella stanza dei giochi e che aveva portato con sé. Indicò la sfera, il disegno e il terreno, ripetendo ogni volta la parola. Ken comprese. Lo dimostrò sporgendosi oltre l’orlo del forno e usando la sua striscia metallica per disegnare a sua volta una figura sul terreno. Tracciò un disegno perfettamente riconoscibile del Sole e delle orbite dei primi tre pianeti. Sapeva che, così facendo, rischiava di andare al di là delle conoscenze astronomiche locali, ma il fatto che l’indigeno conoscesse la forma del proprio mondo era incoraggiante. Wing padre si affrettò a tirare fuori il disegno di Don, che sostanzialmente era identico a quello di Ken, a parte il fatto che vi erano indicate anche l’orbita e la posizione di Marte. Passò vari minuti a dirgli il nome dei pianeti, chiarendo anche il significato della parola «pianeta». Poi fecero una sorta di gara; Ken aggiunse allo schema anche Giove e Saturno per scoprire fino a che punto giungessero le conoscenze astronomiche dell’indigeno. Wing padre disse il nome dei due pianeti, e aggiunse Urano, Nettuno e Plutone; Don, che fino a quel momento non aveva preso parte alla lezione, corresse l’orbita di Plutone in modo da farla passare attraverso quella di Nettuno e si mise ad aggiungere satelliti. Padre e figlio poi ritennero che la sfilza di suoni sarriani che giùnse dall’altoparlante significasse che erano rimasti sorpresi, e ne trassero una certa soddisfazione. Ken era rimasto sorpreso per vari motivi. «Drai» disse «se siete in ascolto, questi indigeni non sono affatto dei selvaggi. Devono avere una scienza abbastanza progredita. A quanto pare, conoscono nove pianeti di questo sistema, mentre noi ne conosciamo soltanto sei; e uno di loro mi sta elencando un gran numero di lune… ne ha addirittura messe due attorno al Pianeta Quattro, mentre noi non ne abbiamo vista nessuna. O posseggono il viaggio nello spazio, o hanno dei telescopi molto buoni.» «In vent’anni di osservazione, non abbiamo visto nessuna astronave su questo pianeta» gli rammentò Feth. Ken non rispose; Wing padre aveva ripreso a parlare. Indicava sul proprio disegno il Pianeta Tre e ripeteva il nome che gli aveva dato. «Terra… casa io.» Indicò se stesso con la mano per dare maggiore evidenza al pronome personale. Poi posò il dito sul pianeta più vicino al sole. «Mercurio… casa voi.» E indicò Sallman Ken. Wing padre rimase un po deluso dalla reazione, ma non lo sarebbe stato se fosse stato in grado di riconoscere le espressioni facciali dei sarriani. Lo scienziato rimase stupefatto per una buona decina di secondi; quando riprese il controllo della voce, si rivolse ai suoi lontani ascoltatori e non all’uomo della Terra. «Sono certo che v’interesserà sapere che è a conoscenza del fatto che veniamo dal Pianeta Uno. Penso che creda che noi viviamo laggiù, ma l’errore non mi sembra molto grave, date le circostanze.» Questa volta gli rispose la voce di Drai. «Siete pazzo! Dovete averglielo detto voi stesso, stupido! Come può averlo saputo, senza aiuto da parte nostra?» esclamò. «Io non gli ho detto niente» rispose Ken. «Avete ascoltato anche voi quello che ci siamo detti, e dovreste saperlo. Inoltre, non mi sembra di dover essere io a spiegare come ha fatto a saperlo; io mi limito a riferirvi cosa succede qui, da un momento all’altro.» «Be, cercate di togliergli dalla testa quella idea! Negate tutto! Sa già troppe cose!» «Non vedo cosa ci sia di male» osservò Ken, in tono ragionevole. «Supponiamo che abbiano davvero il volo spaziale! Non vogliamo che ci piombino addosso! Come… Sono riuscito a tenere segreto questo luogo per vent’anni.» Ken non si preoccupò di segnalargli i difetti del suo ragionamento. Si limitò a dire: «Non so fino a che punto siano certi della loro affermazione, e temo che una negazione da parte mia possa essere pericolosa. Se fossero davvero certi di quello che affermano, capirebbero che mento, e la cosa potrebbe risultare controproducente.» Drai non fece commenti, e Ken tornò a dedicarsi al terrestre, che era rimasto ad ascoltare la conversazione senza capire. «Sì, Mercurio» disse il sarriano. «Capire. Caldo» rispose Wing padre. «No, freddo» Ken s’interruppe, cercando le parole adatte. «Poco caldo. Caldo per voi. Caldo per…» alzò un braccio della tuta e descrisse un largo cerchio «… piante, per cose. Freddo per noi.» Don mormorò, rivolto al padre: «Se giudica Mercurio troppo freddo, deve provenire dall’interno di qualche vulcano. Gli astronomi non pensano che ci siano pianeti tra Mercurio e il Sole, e lui stesso non ne ha messi nel suo schema, se l’hai notato.» «Sarebbe interessante sapere qual è il grado di calore che gli sembra giusto» disse Wing padre. Stava per rivolgersi di nuovo a Ken per chiedergli informazioni su questo particolare, quando dall’altoparlante della sonda scaturì una scarica di parole aliene. Lo stesso Ken ne comprese il significato soltanto in parte. «Ken! Qui…» Solo queste due parole, pronunciate da Feth; poi la trasmissione cessò, con lo scatto che indicava che era stata interrotta la comunicazione. Ken ripeté varie volte il nome di Feth nel suo microfono, ma non ottenne risposta. Tacque anche lui, e rifletté sulla situazione. Gli indigeni ora si limitavano a guardarlo senza parlare, poiché evidentemente avevano capito che era successo qualcosa di grave; ma in quel momento Ken non voleva pensare a loro. Era come un palombaro che sente scoppiare un litigio tra la squadra addetta a pompare l’aria fino a lui, e non aveva orecchi per altro. Che combinavano, là sopra, per la Galassia? Che Drai avesse deciso di abbandonarlo laggiù? No; anche se il capo spacciatore avesse improvvisamente deciso che Ken era inutile, non avrebbe abbandonato un mucchio di costose attrezzature al solo scopo di sbarazzarsi di lui. Inoltre, Ken sospettava che lo spacciatore preferisse vederlo morire per una crisi di astinenza, anche se questo sospetto era forse un’ingiustizia. Oppure? Che Drai si fosse messo ad agire con astuzia, e avesse interrotto la trasmissione perché sperava che Ken si tradisse in qualche modo? Poco probabile. Se non altro, Feth lo avrebbe avvisato in qualche modo indiretto, mentre nelle parole che erano giunte a Ken prima che la comunicazione fosse interrotta c’era troppa ansia. Forse la sfiducia di Drai… abbastanza giustificabile, date le circostanze… era giunta al punto da spingerlo a scendere di persona per controllare le azioni del suo scienziato addomesticato. Comunque, Ken non riusciva a immaginarselo sul Pianeta dei Ghiacci, infilato in una tuta, per importante che fosse quello che voleva scoprire. C’era però un altro modo di scendere di persona. Lee non l’avrebbe gradito, naturalmente. Forse sarebbe addirittura riuscito a convincere il suo datore di lavoro che era troppo pericoloso. O almeno avrebbe cercato di farlo, perché, se Drai aveva davvero in mente quell’idea, probabilmente non si sarebbe lasciato convincere da nessuna ragione. In tal caso, da un momento all’altro poteva scendere su di loro l’ombra della Karella. La cosa spiegava il tentativo di avvertirlo, da parte di Feth, nonché l’improvvisa interruzione delle comunicazioni. Se così stavano le cose, lui non aveva di che preoccuparsi: Drai era padronissimo di controllare quanto voleva, fino a congelarsi gli occhi sull’oblò. Non s’era vista da nessuna parte la benché minima traccia di tafacco, anche se i bambini indigeni erano già ritornati diverse volte con dei nuovi campioni di vegetazione da infilare nelle scatole e ne avevano insegnato il nome a Ken. Ken stesso, del resto, non aveva ancora fatto niente per dare inizio al proprio piano. Era appena giunto a questo punto delle sue considerazioni, e cominciava a tranquillizzarsi, allorché l’indigeno che gli insegnava le parole tirò fuori una sigaretta e l’accese. Wing padre, in realtà, non aveva intenzione di fare niente del genere. Aveva una buona idea dei valore che quelle creature attribuivano al tabacco, e non voleva distrarre lo scienziato da quelle che sembrava una conversazione ricca di notizie. Anzi, avrebbe preferito far credere alla creatura che il commercio veniva svolto da tutt’altre persone. La forza dell’abitudine, però, fece naufragare tutte le sue buone intenzioni; tutto preso a chiedersi i motivi dell’interruzione, soltanto alla prima boccata si accorse di avere acceso la sigaretta. L’alieno, constatò Wing padre, puntava entrambi gli occhi sul piccolo cilindro, e già questo era un fatto abbastanza inconsueto. Di solito, uno degli occhi girava qua e là, in un modo che riusciva a dare fastidio perfino a Roger. Il motivo di quell’improvvisa attenzione sembrava ovvio; Wing padre s’immaginò mentalmente che l’alieno passasse in rassegna la lista di ciò che aveva con sé, chiedendosi cosa potesse dare in cambio del resto del pacchetto. E non era molto lontano dal vero. Quel tipo di pensieri, comunque, non portava a niente, e Ken lo sapeva. In quel momento, il vero problema era togliere di mezzo la micidiale sostanza, prima dell’arrivo di Drai… sempre che Drai intendesse arrivare. Per un momento, Ken si chiese se poteva usare l’altra radio: l’aveva vista al suo arrivo, posata in terra accanto alla porta d’ingresso della casa. Bastava il buon senso a dirgli che era impossibile. Anche se fosse riuscito a convincere uno degli indigeni a portargli la radio e a trascinare via la sonda, conducendola fuori portata del suo microfono, non sarebbe riuscito a farlo in tempo. Poteva soltanto sperare: il cilindro si stava consumando lentamente, e c’era la possibilità che, prima dell’arrivo della nave, si consumasse del tutto. Cosa non avrebbe dato per sapere che sulla nave avevano chiuso anche il ricevitore, quando avevano chiuso il trasmettitore! Se Drai era ancora in ascolto, il silenzio degli ultimi istanti avrebbe ulteriormente destato i suoi sospetti, pensò Ken. Ma si rassegnò pensando che non poteva farci niente. In realtà, ci fu poi tutto il tempo perché la sigaretta si consumasse, e questo fu merito di Ordon Lee. Feth aveva cercato di dare l’avviso non appena aveva capito quali fossero le intenzioni di Drai, ma, prima che potesse finire, l’altro l’aveva cacciato via dal quadro di comando e l’aveva sbattuto fino in fondo alla cabina. Quando si era ripreso e si era rialzato, Feth si era visto puntare contro una pistola, il cui calcio a forma di disco era saldamente appoggiato al busto del trafficante. «Allora, voialtri due state davvero meditando qualche trucco!» aveva detto Drai. «La cosa non mi sorprende. Lee, cercate il raggio portante di quella sonda e puntate su di essa!» «Ma, signore… nell’atmosfera di Tre? Non resisteremo…» «Resisteremo, sciocco schiumatore spaziale. Quel mio scienziato domestico l’ha sopportata per più di tre ore in una tuta corazzata, e vorreste farmi credere che lo scafo di questa nave non può sopportarla?» «Ma gli oblò… e le piastre motrici esterne… e…» «Ho detto di scendere laggiù! Ci sono dei finestrini anche in una tuta, e le piastre del fondo della nave sono state in grado di resistere al suolo del Pianeta Quattro. E non parlatemi della minaccia costituita dagli indigeni delle pianure azzurre! Sappiamo entrambi che lo scafo di questa nave è protetto anche nei riguardi del radar a modulazione di frequenza, oltre che dei raggi normali che gli indigeni usano… ho speso un occhio della testa per quel rivestimento, e ci ha permesso di passare inosservati in mezzo alla guardia costiera di Sarr. Su, muovete quelle leve!» Ordon Lee si arrese, ma gli si leggeva sulla faccia l’insoddisfazione. Regolò la bussola con un’aria ancora leggermente speranzosa, che presto svanì quando si accorse che la sonda di Ken continuava a emettere la sua onda portante. Con la faccia scura, attivò un vettore di forza che aveva la medesima direzione. Al di là dell’oblò, la macchia di luce che era il Pianeta Tre cominciò a ingrandirsi. Quando sul quadro di comando si accese l’indicatore che segnalava la presenza di pressione atmosferica esterna, Lee fermò la nave e rivolse al suo datore di lavoro un’occhiata titubante. Drai gli fece segno di scendere, con la canna della pistola. Rassegnato, Lee alzò le spalle, accese i riscaldatori dello scafo, e cominciò a scendere lentamente nell’oceano di gelidi gas, brontolando tra sé e facendo una faccia da «ve l’avevo detto» ogni volta che sentiva scricchiolare una lastra della carenatura che si contraeva a causa del freddo. Feth, ormai convinto di non potere più sperare niente dalla radio, dedicò la sua attenzione a uno degli oblò. Anche Drai lo imitò, con uno solo degli occhi, e non cambiò espressione nel constatare che Ken aveva detto la verità. Grandi montagne, aria velata dalla foschia, vegetazione verde, lucenti distese che ricordavano le grandi pianure azzurre i cui abitanti avevano abbattuto le sonde; c’era tutto quello che aveva detto lo scienziato: era illuminato debolmente dal pallido sole di quel sistema ma risultava chiaramente visibile. Feth, senza badare alla pistola di Drai, si gettò all’improvviso verso la porta, gridando: «La macchina fotografica!» e scomparve in fondo al corridoio. Drai posò la pistola. «Perché non siete anche voi come quei due?» domandò, rivolto al pilota. «Basta trovargli qualcosa d’interessante, e si dimenticano di qualsiasi pericolo che ci può essere nell’universo.» Il pilota non rispose; e, a quanto pareva, Drai non si aspettava risposta, perché si avvicinò all’oblò senza attendere un istante. Poi, senza alzare gli occhi dal suo quadro di comando, Lee domandò in tono acido: «Se pensate che Ken si interessi soltanto del suo lavoro e di nient’altro, perché vi è venuta tutta questa voglia, all’improvviso, di andare a controllarlo?» «Soprattutto perché non so bene quale sia il lavoro che gli interessa. Ditemi, Lee, secondo voi, di chi è la colpa, se soltanto oggi scendiamo per la prima volta su questo mondo che conosciamo da vent’anni?» Il pilota non diede nessuna risposta a voce, ma girò un occhio in direzione del suo datore di lavoro e incontrò per un attimo il suo sguardo. Evidentemente, la domanda lo aveva spinto a pensare a qualcosa d’altro, e non solo a congelamenti e a piastre che si rompevano per il freddo; Laj Drai non era forse un genio, come lui stesso aveva avuto occasione di dire, ma la sua psicologia spicciola era di prima qualità. La Karella continuò a scendere. Ormai la cima delle montagne era al livello dei suoi finestrini; sotto la nave si stendeva una distesa pressoché ininterrotta di verde, ma la bussola puntava verso di essa, senza esitazione. A una quota di centocinquanta metri si cominciarono a distinguere i singoli alberi, e in mezzo a essi il tetto della casa dei Wing. Non c’era traccia di Ken e della sua sonda, ma nessuno dei due sarriani che si trovavano nella cabina di comando ebbe alcun dubbio: si trattava della casa di cui aveva parlato lo scienziato. Entrambi si erano completamente dimenticati di Feth. «Spostatevi di qualche metro, Lee. Voglio essere in grado di vedere dall’oblò. Mi pare di scorgere la tuta corazzata di Feth… sì. Il terreno è in discesa; scendiamo un poco al di sopra della casa, sul fianco della montagna. Tra queste piante si può vedere a una certa distanza.» Il pilota obbedì in silenzio. Anche se udì l’urlo di Feth, che echeggiava nel corridoio, proveniente dalla cabina nella quale il meccanico scattava fotografie, non diede segno di averlo sentito; e in ogni caso le parole erano inudibili a causa dell’eco. Il significato, comunque, divenne chiaro un istante più tardi. All’interno della nave, il rumore dello scafo che si faceva strada in mezzo ai rami non riusciva a penetrare; ma l’altro segno del suo arrivo era perfettamente percettibile. All’improvviso si era alzata una nube di fumo che aveva oscurato tutti gli oblò, e mentre Laj Drai faceva un passo indietro per la sorpresa, una lingua di fiamma guizzò verso l’alto, accarezzando la curva del grande scafo. 18 Feth non fu l’unico che gridò al pilota di fermarsi. Anche Ken gridò alla radio cose che mai avrebbe detto davanti ai suoi allievi; ma naturalmente non c’era nessuno, a bordo della nave, che lo ascoltasse. Wing padre e Don, che avevano capito al volo la causa della sua agitazione, si unirono al coro; la signora Wing, udendo quel chiasso, si affacciò alla finestra in tempo per vedere il cilindro nero e lucido posarsi fra gli alberi, a una cinquantina di metri di distanza dalla casa. Nessuno si stupì dell’accaduto… almeno, nessuno di coloro che stavano all’esterno della nave. Don e suo padre si lanciarono di corsa verso la stalla, dove venivano conservati gli estintori portatili. La signora Wing uscì sulla veranda e gridò con voce un po allarmata: «Don, dove sono i bambini?» La risposta giunse da sola prima che il padre o il figlio facesse in tempo a parlare, poiché Margie e Billy uscirono dai boschi, da direzioni opposte della radura, portando ancora con sé dei campioni di piante che, nel trambusto generale, si erano dimenticati di gettare via. «Papà! Il fuoco!» gridò il bambino, non appena vide il padre. «Lo so, Billy. Andate tutt’e due da vostra madre, cominciate a pompare, aiutatela a bagnare il terreno attorno alla casa. Non credo che il fuoco scenda verso di noi, a meno che non giri il vento, ma è meglio non correre rischi.» «Dove sono Roger ed Edith?» domandò la signora Wing, rivolta ai bambini più piccoli. «Sono andati a prendere sassi per l’uomo di fuoco» rispose Margie. «Non so dove volessero andare a prenderli. Torneranno indietro quando vedranno il fuoco.» «Lo penso anch’io.» Alla madre, la faccenda piaceva poco, ma prese a rimorchio i figli più piccoli e andò a cercare i tubi per innaffiare. Don e il padre si misero in spalla gli estintori, e risalirono il fianco della montagna in direzione della nube di fumo e fiamme, che si faceva sempre più spessa. Ken non aveva atteso che gli esseri umani entrassero in azione. Dopo un attimo di pausa, in cui si era accertato che la sua armatura fosse ancora saldamente attaccata alla sonda, afferrò i comandi della sonda e s’innalzò in verticale. Era una manovra rischiosa, ma pensava che la sua navetta, ormai relativamente fredda, potesse aprirsi la strada tra i rami sottili senza dare inizio alla combustione. Riuscì infatti a passare senza danni, come prevedeva, anche se vide innalzarsi al suo passaggio un sottile filo di fumo. Anche la Karella, notò, aveva fatto come lui; adesso era ferma nell’aria, a una quota di cinquecento metri al di sopra dell’incendio da essa stessa provocato. Non perse tempo in recriminazioni, anche se era probabile che coloro che erano a bordo avessero ripreso l’ascolto. Il fuoco non si estendeva in tutte le direzioni con la velocità temuta da Ken. Dalla parte della casa pareva non avere fatto progressi, e lungo il fianco della montagna la sua avanzata era molto lenta. Invece, verso l’alto, sotto l’influsso delle proprie correnti e della brezza che già in precedenza si muoveva in quella direzione, balzava rapidamente da un albero all’altro. Ken vide pezzi fiammeggianti di tessuto vegetale salire molto in alto, trasportati dalle colonne ascendenti di aria calda; alcuni si riducevano completamente in cenere prima di cadere a terra, altri finivano per posarsi sugli alberi situati a una quota superiore e davano origine a nuovi centri di combustione. Una crescita vegetale di colore scuro, che pareva morta, ad alcuni metri di distanza dal fronte avanzante delle fiamme, fumò per qualche istante sotto la feroce radiazione ed esplose all’improvviso con un boato, consumandosi completamente in meno di quindici secondi e precipitando a terra sotto forma di una pioggia di carboni ardenti. Ken, senza preoccuparsi dei gas roventi che potevano sollevarlo e portarlo via, si avvicinò alla zona critica. Uno dei motivi che impedivano al fuoco di scendere rapidamente verso il basso gli divenne subito chiaro; in mezzo agli alberi si potevano scorgere i due indigeni con cui aveva parlato, che spargevano su tutti gli oggetti visibili dei minuscoli getti di un liquido la cui natura era ignota a Ken. Li osservò per qualche tempo, e vide che di tanto in tanto dovevano di nuovo riempire di liquido i loro contenitori, e che lo prelevavano da un grosso rivolo che scorreva dietro la casa: un rivolo della cui esistenza Ken non s’era accorto fino a quel momento. Si chiese da dove nascesse quel liquido e, per scoprirlo, decise di seguire verso l’alto il corso del rivolo. Quando si sollevò, rimase nuovamente impressionato dall’estensione della foresta e cominciò a chiedersi la vastità della catastrofe causata dalla Karella. Se la reazione di combustione si fosse estesa sull’intera regione, si disse, l’effetto sugli indigeni sarebbe stato senza dubbio negativo. Notò che il fuoco si era esteso alla sponda opposta del ruscello, poco più in alto; a quanto pareva, il liquido doveva essere direttamente a contatto con i vegetali per fermare la combustione. Le fiamme e il fumo gli impedivano di seguire il letto del ruscello; Ken si abbassò, dicendosi a ragione che la temperatura della sua tuta non poteva recare danni alla vegetazione che era già in fiamme, e avanzò mantenendosi sospeso pochi metri al di sopra del fiume, ma anche a così bassa quota il fumo gli impediva di vedere bene. Per la prima volta scorse altre forme di vita, diverse da quella degli indigeni intelligenti: piccole creature, di solito a quattro gambe… almeno quelle che si muovevano abbastanza lentamente da permettergli di contarle… che correvano follemente verso l’alto. Ken si chiese come facessero a respirare: a giudicare dal fumo, l’aria doveva essere piena di prodotti della combustione, e probabilmente era troppo calda per quegli animali; non conosceva il fenomeno, assai semplice, della presenza di aria relativamente pura nella zona che sta davanti a un incendio. Anche su Sarr si verificavano combustioni su vasta scala, ma lui non era un pompiere. Era già uscito dalle fiamme, ma si trovava ancora nella zona invasa dal fumo, quando trovò la sorgente del ruscello. Ebbe qualche difficoltà a capire che era veramente la sorgente: non era un geologo, ma anche un geologo della sua razza avrebbe incontrato qualche difficoltà a capire il meccanismo di una sorgente. Ken sospettò che il fenomeno venisse alimentato artificialmente, ma non osò toccare il liquido per esaminarlo meglio. Avrebbe avuto seri motivi per preoccuparsi se avesse saputo che a volte un incendio di boschi può dare luogo a una pioggia locale; ma anche questo andava troppo al di là della sua esperienza. Su Sarr, l’evento che si avvicinava maggiormente al fenomeno della pioggia si verificava ai poli, dove in rare occasioni le forze meteorologiche si combinavano in modo da aumentare la pressione e abbassare la temperatura al punto che si aveva una piccola precipitazione di solfo liquido. Comprendendo che laggiù, per il momento, non c’era altro da imparare, Ken sollevò nuovamente la tuta, in modo da trovarsi nell’aria più limpida. In basso, sotto di lui, gli indigeni parevano vicini alla vittoria; sul bordo della regione in fiamme c’era una stretta zona di vegetazione annerita che indicava come laggiù il fuoco non avesse più niente da bruciare. Ai lati, la direzione del fuoco era meno definita, ma in generale l’incendio aveva preso l’aspetto di un grosso ventaglio, con l’impugnatura in direzione della casa e ali larghe trecento o quattrocento metri, dirette verso la zona alta della montagna. Attraverso le nubi di fumo, Ken vide che in quella zona i grandi alberi erano alquanto radi, e lasciavano il posto a piante più piccole, che a loro volta seguivano il solito schema di fermarsi poco al di sotto della cima della montagna, dove restava solo la roccia nuda. Ken, osservando la zona dalla sua posizione elevata, si disse che molto probabilmente il fuoco si sarebbe fermato da solo entro poche ore; gli indigeni non avevano bisogno di aiuto per occuparsi dei pochi focolai rimasti. Il pensiero di possibili aiuti gliene fece venire in mente un altro; il fumo si alzava sotto forma di una colonna che doveva essere visibile a molti chilometri di distanza. Rischiava di fare accorrere altri indigeni desiderosi di prestare aiuto, oppure sarebbe stata presa per una normale nuvola? Gli occhi di Ken vedevano i colori in modo diverso da come li vedevano gli umani; non poteva essere certo che la tinta della colonna di fumo fosse diversa, ma la forma della colonna era abbastanza caratteristica da richiamare l’attenzione. Con questo pensiero in mente, decise di chiamare la nave; ma quando guardò in alto non riuscì a scorgere la Karella. Mosse avanti e indietro la sonda, in modo da far altalenare la tuta e di scorgere la parte di cielo che stava direttamente sopra di lui, ma non vide traccia del cilindro scuro. A quanto pareva, un breve assaggio del Pianeta Tre era stato più che sufficiente a Laj Drai. Per completare la dose, Ken trasmise le sue considerazioni sul possibile arrivo di nuovi indigeni, e poi tornò a studiare l’incendio. Entro pochi secondi si dimenticò totalmente dell’esistenza della nave. Come aveva già avuto occasione di osservare, dentro l’area circoscritta dalle fiamme non si poteva vedere molto. Questa volta perciò scese davanti al fuoco, e in mezzo alle nubi di fumo osservò come le foglie dei cespugli e degli arboscelli sfrigolassero, fumassero e si incendiassero anche ad alcuni metri di distanza dalle lingue di fiamma. Di solito, osservò, i rami più spessi non si accendevano finché non entravano in contatto con fiamme già esistenti, ma anche questa legge aveva le sue eccezioni. Ricordò di avere visto esplodere un albero. Rimpianse di non avere un termometro, che avrebbe potuto dargli un’idea della temperatura d’accensione e di combustione di quei vegetali. Si chiese se una reazione così attiva fosse da imputare unicamente all’ossigeno, o se vi prendesse parte anche l’azoto, che costituiva una così elevata percentuale dell’atmosfera. In fin dei conti, l’azoto si era combinato con il suo campione di titanio. Non pareva esserci modo di raccogliere campioni dei gas combusti, ma forse qualcuno dei residui solidi della combustione avrebbe potuto dirglielo. Ken scese in mezzo al fuoco, fece posare a terra la sonda, aprì il portello di carico e gettò al suo interno vari campioni di legno carbonizzato. Poi scese un poco più a valle, trovò un mucchio di ceneri grigiastre e aggiunse anche quelle alla collezione. Momentaneamente soddisfatto, si staccò di nuovo dal terreno, chiedendosi vagamente se il soggiorno fra le fiamme gli avrebbe permesso di allungare il suo periodo di permanenza sul pianeta. Si era accorto che i termostati dell’armatura erano scattati, e che di conseguenza alcuni dei riscaldatori si erano spenti: nel corso degli ultimi minuti, gli strati esterni della corazza dovevano essersi notevolmente riscaldati. Per vedere quanto tempo avrebbe impiegato l’incendio per spegnersi, Ken avanzò di una cinquantina di metri rispetto al fronte delle fiamme, e cominciò a misurare la velocità a cui procedeva il fuoco in vari punti. Il sistema però non gli disse molto, poiché la velocità delle fiamme era assai variabile… come avrebbe potuto insegnargli qualsiasi guardia forestale. Dipendeva soprattutto dal tipo di combustibile di una data zona, e dalla configurazione del terreno, che faceva variare le correnti d’aria che alimentavano il fuoco; si trattava di dati difficili da raccogliere, e Ken non poté apprendere molto. Rinunciò dunque al suo tentativo, si spostò un poco in avanti, e cercò di studiare gli animali che cercavano di allontanarsi dal più grave pericolo che avesse mai minacciato le loro piccole vite. In quel momento, il microfono della sonda raccolse un crepitio assai diverso da quello del fuoco, una specie di soffio pesante che ricordò a Ken i suoni da lui uditi quando aveva visto per la prima volta Roger. Ricordando che non aveva più visto due degli indigeni da quando era scoppiato l’incendio, lo scienziato cominciò a preoccuparsi; e dopo una breve ricerca vide che le sue preoccupazioni erano giuste. Roger ed Edith Wing ansimavano e tossivano per il fumo e la stanchezza, e si muovevano alla cieca in mezzo ai cespugli. La prima idea di Roger era stata quella di attraversare il cammino delle fiamme, per allontanarsi dalla zona incendiata: data la situazione, era la cosa più sensata da fare. Molte cose, però, non gli avevano permesso di farlo. Per prima cosa, il fumo aveva ridotto a pochi metri la visibilità, e fratello e sorella erano finiti in una depressione del terreno. Servendosi come guida dell’inclinazione della montagna, avevano fatto parecchie volte il giro della depressione prima di accorgersi di cosa stesse succedendo. Ormai le fiamme erano giunte fin quasi a loro, e l’unica possibilità che rimanesse ai due ragazzi era quella di attraversare il cerchio di fuoco per arrivare nella zona dove le fiamme si erano già spente. Ma non sapevano quanto fosse esteso il fronte delle fiamme, e muoversi parallelamente a esso era follia. Avevano cercato di aggirare il fuoco e di tenersi a una certa distanza da esso, ma cominciavano a essere stanchi: soltanto per tenersi lontano dalle fiamme, dovevano fare appello a tutte le loro energie. Il fumo li accecava, avevano gli occhi pieni di lacrime e la faccia sporca di fuliggine. Nel caso di Edith, poi, le lacrime non erano dovute unicamente al fumo; piangeva per la stanchezza e per la paura, e anche il ragazzo faticava a conservare la padronanza di sé. Nessuno di questi fatti era precisamente chiaro agli occhi dello scienziato poiché la faccia umana, con o senza emozioni, era uno spettacolo relativamente nuovo per lui; ma la scena destò tutta la sua commozione. Forse, se la stessa situazione si fosse presentata quando aveva visto per la prima volta gli indigeni, Ken sarebbe rimasto a osservare spassionatamente la scena, per vedere cosa facevano quelle creature in un momento di pericolo. Ora, però, dopo i suoi colloqui con Wing padre e dopo avere avuto la prova della loro cultura e delle loro conoscenze scientifiche, il sarriano sentiva una sorta di fratellanza intellettuale nei riguardi delle creature che stavano davanti a lui; erano persone, e non animali. Inoltre, erano finiti nel pericolo mentre lavoravano per lui; ricordava che quei due si erano allontanati per cercargli dei campioni. Dopo averli visti, non ebbe un solo istante di esitazione. Scese verso i bambini e ripeté con l’altoparlante della sonda una delle poche parole della loro lingua che conosceva: «Portare!». Si fermò davanti a loro, che lo fissarono con stupore, e cercò di non entrare in contatto con la vegetazione. Edith fece per recarsi da lui, ma, per sua fortuna, Roger era ancora in grado di ragionare. «No, Edie!» disse. «Ti bruci. Dobbiamo salire sulla macchina che lo porta.» Anche Ken l’aveva già capito, e manovrava i comandi in modo da portare accanto ai ragazzi la coda della sonda, senza però toccare i cespugli con la corazza. Avrebbe potuto dare fuoco senza preoccupazione a quei cespugli, perché in ogni caso erano destinati a incendiarsi poco più tardi, ma gli pareva che i giovani indigeni avessero già le loro preoccupazioni, anche senza dover badare a un altro fuoco. Il problema del trasporto dei ragazzi era un po complicato, poiché tra i piedi di Ken e lo scafo della sonda a cui era appeso c’era una distanza di due metri, e la sonda aveva dei circuiti automatici che la tenevano orizzontale quando si trovava in un campo di gravità. Però, poteva ruotare su qualsiasi asse, a parte il fatto che Ken non aveva mai fatto quella manovra e che quindi aveva bisogno di un po di tempo per trovare la giusta combinazione di comandi. Parve anche a lui che passasse un’eternità, prima che riuscisse a mettere la sonda nella posizione voluta; si era gettato di tutto cuore nel salvataggio e la sua ansia era pari a quella dei ragazzi; ma alla fine l’estremità posteriore del cilindro, larga un metro, distava da terra poche decine di centimetri. I bambini cercarono immediatamente di salire a bordo, ma non ebbero fortuna: il metallo era troppo liscio, non c’erano appigli a cui si potessero tenere, ed essi stessi erano troppo esausti. Roger fece con le mani una scaletta per la sorella e riuscì a farla salire sulla sonda, ma dopo un istante la ragazzina scivolò a terra e riprese a piangere per la disperazione. Roger si fermò, senza sapere che decisione prendere. Un soffio di aria rovente e satura di fumo lo fece boccheggiare privo di fiato, e pensò che rimanevano loro pochi secondi prima di essere avvolti dalle fiamme. Per un istante fissò con invidia la forma del sarriano appesa all’altra estremità del lungo siluro: per lui probabilmente il soffio delle fiamme era soltanto una brezzolina rinfrescante; poi vide i morsetti a cui venivano appese le scatole contenenti i campioni. Per un attimo, anche quelli gli parvero inutili. Non pensava di poter resistere a lungo, appeso a quelle piccole sporgenze di metallo, e la sorella non era in grado di resistere neppure per pochi istanti, perché era troppo esausta. Poi gli venne un’idea. I morsetti erano simili a ganci, e si potevano chiudere e aprire come i fermagli delle spille; quando erano chiusi formavano un anello. Roger chiuse quello più vicino, si tolse la cintura e la infilò dentro, poi affibbiò di nuovo la cintura. Corse da Edie, la aiutò ad alzarsi… e la ragazzina si rianimò un poco, vedendo cosa faceva il fratello… si fece dare la sua cintura e la infilò in un altro morsetto, senza soffermarsi a ringraziare la loro buona fortuna per il fatto che la sorella aveva i jeans. I ragazzi li portavano sempre, nei boschi. Poi l’aiutò a salire, mostrandole come dovesse tenersi con le braccia a una delle cinture infilando nell’altra le gambe. Edie doveva fare un certo sforzo per tenersi, ma la maggior parte del suo peso gravava sulla cinghia che le sosteneva le gambe. Quando gli parve che la sorella fosse al sicuro, Roger indicò al sarriano di portarla via. Ken capì tutto e la sua ammirazione per la razza umana salì ancora di un grado o due. Non ebbe esitazioni e non fece discussioni: sapeva benissimo che il ragazzo aveva trovato il solo metodo possibile per trasportare uno di loro, e anche se Ken fosse stato in grado di parlare bene la loro lingua, una discussione sarebbe stata solo una perdita di tempo. Si affrettò a sollevarsi in volo: la ragazzina, stupefatta, era sospesa dietro di lui. Prima si sollevò al di sopra del fumo, per dare alla sua passeggera la possibilità di respirare; poi si guardò attorno con attenzione, per essere certo di ritrovare il punto da cui si era allontanato. Una momentanea interruzione della coltre di fumo gli mostrò la figura di Roger che cercava di risalire sul fianco del monte; e senza aspettare altro, Ken diresse la sonda verso la casa. La signora Wing li vide arrivare, e, meno di quarantacinque secondi più tardi, Ken ripartiva per andare a prendere il suo secondo passeggero. Anche se il tempo passato era poco e se prima di partire aveva osservato attentamente il punto dove aveva lasciato il ragazzo, Ken, quando si alzò in volo, capì che non sarebbe stato facile trovarlo. Non incontrò difficoltà a raggiungere il suo precedente punto di osservazione; ma, una volta arrivato laggiù, si accorse che non avendo a disposizione strumenti e a causa della presenza di correnti d’aria forti e imprevedibili, non poteva determinare se si era innalzato in verticale quando si era staccato da terra, e non era neppure sicuro di riuscire a scendere perfettamente in verticale. Naturalmente, aveva visto Roger quando era già in aria, ma il ragazzo non era rimasto fermo. Ken poteva togliere potenza alla sonda e cadere verticalmente, ma era una manovra poco raccomandabile. La sonda era pesante, e lui non voleva che gli urtasse contro l’armatura, soprattutto alla gravità di quel pianeta. Fece come meglio poté, scendendo a livello del terreno con la massima velocità possibile e cominciando a descrivere dei cerchi intorno al punto di discesa. Nel punto dov’era atterrato, il fuoco non era ancora giunto, solo i cespugli cominciavano a fumare. Il ragazzo non aveva lasciato tracce, e se anche ne avesse lasciate, Ken non era in grado di riconoscerle. Per scrupolo, l’alieno scese lungo il fianco del monte, fino a raggiungere i margini delle fiamme, ed esaminò la zona circostante, per una cinquantina di metri in entrambe le direzioni: distanza considerevole, dato che la visibilità era cinque metri o poco più. Poi cominciò a risalire. Roger aveva fatto più strada di quanto si potesse supporre, viste le condizioni in cui Ken lo aveva lasciato; passarono almeno dieci minuti prima che lo scienziato riuscisse a trovarlo, e, quando lo trovò, vide che cercava ancora di andare avanti, ma senza grandi successi. Comunque, era riuscito ad allontanarsi un po dal fuoco. Lo chiamò di nuovo con l’altoparlante, e abbassò nuovamente la parte posteriore della sonda. Roger, con un ultimo sforzo, infilò le gambe nell’anello di una delle cinghie e strinse fra le braccia l’altra. Aveva il viso a pochi centimetri dallo scafo della nave, che si era un po riscaldato durante il passaggio attraverso le fiamme; ma non poteva certo rimanere dove si trovava in quel momento, e quasi non si accorse delle leggere scottature sulle mani e sulla faccia. Ken, una volta certo che il ragazzo si teneva ben saldo, s’innalzò al di sopra del fumo e portò fino alla casa il suo secondo passeggero. Quando la sonda si fermò, Roger continuò a tenersi stretto ai suoi appigli, ma non si trattava di un’azione consapevole: la madre dovette aprirgli con la forza le mani. Ken vide che non aveva più niente da fare in quella zona vicino alla casa, e risalì al di sopra delle cime degli alberi per vedere come gli indigeni lottavano contro il fuoco: ormai, dei bambini da lui salvati, potevano prendersi cura gli adulti, che certo erano più competenti di lui. A quel punto, pareva che il momento di massimo pericolo fosse superato; la zona in cui si era sviluppato l’incendio era bruciata completamente, e il fuoco continuava ad ardere soltanto nella parte alta della montagna. I terrestri continuavano a innaffiare la parte di bosco accanto a quella incendiata, e progressivamente salivano sempre più in alto, ma il fronte delle fiamme era ormai lontano da loro. Come previsto da Ken, si dirigeva verso le rocce, dove era destinato a esaurirsi per mancanza di combustibile; ma in ogni caso dovevano ancora trascorrere molte ore perché si spegnesse del tutto. I Wing sapevano perfettamente che un simile incendio sarebbe stato pericoloso ancora per giorni, se fosse cambiato il vento, e stremati proseguirono nei loro tentativi di arginarlo finché non furono costretti a fermarsi. Per un paio di volte, durante quel periodo, Ken scese a terra in qualche zona brulla nei pressi della casa dei Wing e disegnò sul terreno una piantina della situazione. Una volta dovette nascondersi sotto gli alberi per alcuni minuti mentre ronzava sopra di lui una macchina volante dalle ali rigide e provvista di tre motori; poi tornò a nascondersi quando giunse dalla strada di Clark Fork un gruppo di uomini che si diresse, con pompe e altri arnesi, verso la parte alta del monte. Dopo questi due episodi, Ken non si allontanò più dalle vicinanze della casa; non aveva alcun desiderio di farsi vedere da quei nuovi indigeni, perché temeva che il suo avvistamento potesse intralciare le sue lezioni di inglese. E forse non aveva tutti i torti. Soltanto dopo l’arrivo di questo nuovo gruppo di uomini fecero finalmente ritorno Don e Wing padre, che erano prossimi a crollare per la stanchezza. Erano pieni di graffi, sporchi di cenere, bruciacchiati; perfino Ken riuscì a notare la diversità tra il loro aspetto precedente e quello attuale, perché parevano ancor più in cattivo stato di Roger ed Edith. Soltanto allora, Wing padre venne a sapere del rischio corso dai figli e del loro salvataggio, perché Ken non aveva neppure cercato di accennare all’argomento. Con la sua limitata conoscenza della lingua, era troppo difficile costruire le frasi opportune. Anche Wing padre incontrò le stesse difficoltà, dopo avere udito la storia. Ken aveva già avuto l’impressione che in quella razza i legami affettivi fossero molto sviluppati, e adesso ne ebbe la conferma. Wing padre ebbe forse difficoltà a trovare le parole adatte a esprimere i suoi sentimenti, ma coi fatti dimostrò chiaramente la sua gratitudine. 19 La Karella aveva lasciato l’atmosfera terrestre, ma non era ritornata all’orbita precedente. Era stata ristabilita la comunicazione con Ken… a lui sarebbe piaciuto sapere in che momento era successo… e la sonda che trasportava lo scienziato era di nuovo sotto il controllo di Feth. Il ritorno a bordo si svolse come ogni altra volta. Ken lasciò momentaneamente nella camera di decompressione le due casse dei vegetali, dopo avere regolato i frigoriferi allo stesso livello di potenza usato per il primo vivaio; quanto alle altre due casse, contenevano soltanto campioni di minerali, e le portò con sé. Quando Ken emerse dalla sua crisalide metallica, Drai lo salutò con aria un po acida. «Siete ritornato, finalmente. Cos’avete combinato, ammesso che abbiate combinato qualcosa?» Ken lo fissò con uno sguardo che assomigliava, più che in qualsiasi precedente occasione, a un’aria di sfida. «Ben poco» rispose. «Grazie alla leggera distrazione procurata, a quanto pare, da voi, gli indigeni avevano altro di cui occuparsi, invece di parlare con me.» «Come potevo sapere che lo scafo della nave avrebbe scatenato una reazione a catena nella vegetazione locale? Pensavo che se poteva succedere, doveva già essere successo molto tempo fa per qualche altro motivo.» «Mi sembra di avere accennato io stesso al pericolo. E può darsi che sia già successo altre volte. Gli indigeni hanno i loro mezzi per affrontare la situazione, sono organizzati.» «Allora, il fuoco è spento?» «Non completamente. È probabile che continui a reagire ancora per qualche ora. Quello che mi dà fastidio, però, è la vostra tendenza a dare per assodato che sono uno sciocco o un bugiardo. Vi ho spiegato cosa è successo alla vegetazione che ho preso in mano; vi ho detto cosa stavo facendo con l’indigeno per imparare la sua lingua. E voi siete stato a sentirmi per buona parte del tempo. Cosa vi è preso, per scendere in quella maniera?» «Mi è preso che non mi fido delle vostre parole» disse Drai, senza mezzi termini; evidentemente, si sentiva inattaccabile. «Avete detto che tra voi e l’indigeno non si è parlato di tafacco; avete detto che non era lo stesso indigeno con cui avviene il nostro commercio.» «Ho detto che non ero certo che fosse lo stesso» disse Ken. «Si tratta comunque di un particolare di secondaria importanza… continuate.» «Il primo giorno, mentre voi eravate sul pianeta a parlare con l’indigeno, è arrivato un segnale dal trasmettitore fisso, per comunicarci che erano pronti per lo scambio.» «Questa notizia» disse Ken «non fa che confermare le mie parole. Io non ero vicino al trasmettitore. Chiedetelo a Feth… è stato lui a farmi scendere.» «È quello che ho pensato io… per qualche tempo. Ma oggi, passato il solito intervallo di tempo tra segnale e arrivo della sonda, ho inviato un’altra sonda mentre voi eravate occupato con la vostra «lezione di lingua»… e non è successo niente! Non c’era nessuno!» «Volete dire che nessuno vi ha dato il tafacco?» «E che nessuno ha preso il metallo» continuò Drai. «Potrei pensare che cercassero di imbrogliarmi, se il metallo fosse scomparso senza lasciare qualcosa al suo posto; ma la cosa, così com’era successa, non mi quadrava. Ho pensato che dovevate esservi lasciato scappare qualcosa in un momento in cui non ascoltavo, e sono sceso a controllare cosa stavate combinando.» «Lasciando momentaneamente perdere la questione di come potevo sapere che eravate in ascolto oppure no, non so se rallegrarmi di essere giudicato soltanto stupido, e non disonesto. Ammesso e non concesso che il mio indigeno sia il vostro commerciante, poteva avere intenzione di raggiungere il trasmettitore più tardi, nel corso della giornata, dopo avere parlato con me. Sapeva che non mi fermavo molto. In tal caso, dovete ringraziare soltanto voi stesso, se poi non si è recato all’appuntamento: aveva troppo da fare. Inoltre, due dei piccoli hanno rischiato di rimanere uccisi nella reazione a catena; non credo che sia molto soddisfatto di voi, ora come ora, se ha collegato tra loro il commercio e la nave. Dopotutto, ricordate che già sapeva che le sonde vengono dal Pianeta Uno.» «Questo non posso crederlo. È impossibile che lo sapesse. Anzi, è un altro motivo che mi fa pensare che volete coprire delle vostre indiscrezioni. Come sapete che due indigeni sono stati minacciati dal fuoco?» «Perché li ho visti. Anzi, li ho salvati… li ho portati via dalla zona pericolosa servendomi della sonda. Ho passato del tempo a studiare l’incendio, anche perché non avevo più niente da fare, dopo che voi l’avete iniziato. Posso dimostrarlo: ho dei campioni di residui di vegetali che possono darci altre informazioni sul pianeta.» Drai lo fissò per alcuni istanti, senza parlare. «Non mi avete ancora convinto» disse poi «e farete bene a convincermi prima che arrivi la vostra prossima crisi di astinenza. Se smetteranno il commercio, io smetterò di distribuire campioni gratuiti.» Dalle retrovie, Feth si lasciò scappare un rumore incontrollabile che era l’equivalente di un «oh!» di stupore; Ken si concesse per un istante di mostrare un’espressione d’ansia. Aveva già sperimentato una breve crisi di astinenza, e non intendeva sperimentarne una più lunga. Drai vide la sua espressione e gli rivolse un cenno d’assenso. «Sì» disse «la scorta non è molto grande, e se dev’essere l’ultima, intendo venderla bene. Ma il vostro racconto mi ha fatto venire un’idea. Se è vera questa storia che avete salvato due indigeni, evitando loro la morte per eccesso di riscaldamento, potete scendere sul pianeta e fare leva sulla loro gratitudine. Potete spiegare che voi volete comprare da loro il tafacco. Certo verranno incontro ai desideri dell’eroe che li ha salvati da una morte terribile. Soprattutto se lui, l’eroe, spiegherà loro che andrà incontro a dei grossi guai se non riuscirà a procurarsi il tafacco. Scendete immediatamente; ormai la vostra armatura si è riscaldata abbastanza. Non abbiamo ancora fatto risalire l’altra sonda; non appena passerete ai comandi manuali, là sotto, vi manderemo l’altra sonda con il metallo per lo scambio, e sarete libero di mercanteggiare quanto volete.» Drai tacque, ma sulla faccia gli rimase una smorfia di derisione. «Il fatto che la mia conoscenza della lingua sia ancora frammentaria non vi preoccupa?» domandò Ken. «No. Secondo me, voi la sapete più lunga di quanto volete ammettere.» «E invece il fatto che ci sono, al momento, numerosi altri indigeni sulla scena dell’incendio? Quando sono arrivati, mi sono nascosto in mezzo agli alberi per non farmi vedere, ma non posso stare nascosto e portare avanti il commercio allo stesso tempo. Volete che faccia tutto all’aperto? Per qualche tempo, tutti gli indigeni saranno occupati a spegnere il fuoco, ma suppongo che in seguito vorranno il metallo.» Fece una pausa. «Non vedo come possano essere tutti l’indigeno con cui commerciavate voi. Ma penso che non vi disturbi aprire nuove trattative anche con gli altri…» Laj Drai lo interruppe. «Aspettate.» «Oh, basterebbero pochi carichi di metallo per accontentarli tutti, ne sono certo.» «Dicevo di aspettare.» Drai, probabilmente, si accorse dell’espressione soddisfatta che era comparsa sulla faccia dello scienziato, perché continuò: «Ho un’altra idea. La Karella scenderà con voi; osserveremo e ascolteremo. Tutt’al più, se l’indigeno facesse delle storie, si potrebbe accendere un altro fuoco.» «Adesso desiderate che gli indigeni diano una buona occhiata a una nave spaziale vera e propria. Non v’importa niente della legge, vero?» «Voi cosa ne dite? Inoltre, ormai l’hanno già vista. Comunque, noi aspetteremo… per un poco. Potremmo posarci a poca distanza dalla zona dell’incendio, per poi avvicinarci quando sarà spento. In questo modo» fissò entrambi gli occhi su Ken «sapremo sempre chi parla, e per quanto tempo.» Ciò detto, si voltò, fece forza coi tentacoli contro una parete e sparì veleggiando lungo il corridoio. Feth l’osservò con aria preoccupata. «Ken» disse poi «non dovreste usare con lui quel tono di voce. So che vi sta antipatico… sta antipatico a tutti… ma ricordate quello che può fare. Pensavo che dopo averne avuto un assaggio, vi foste un poco calmato. Ma adesso quasi sicuramente vi toglierà la vostra dose per il solo gusto di farlo.» «Lo so… mi spiace di avere messo nei guai anche voi» rispose lo scienziato. «Ma quando si arrabbia mi fa meno paura. Adesso, mentre lui non c’è, dobbiamo dirci in fretta delle cose. C’è del lavoro da fare. Prima di tutto, diceva la verità, quando ha detto che le scorte di tafacco sono limitate? Le tiene tutte in quella cassaforte frigorifera da cui prende le nostre dosi?» «Sì, e probabilmente ha detto la verità; la maggior parte della droga raggiunge il sistema sarriano alla fine della stagione, e lui non ne tiene una grossa quantità con sé.» «Quanto è una dose? Non ho mai potuto dare un’occhiata a ciò che c’era all’interno del mattoncino di aria congelata.» «Un piccolo cilindro di questa dimensione.» Feth gli fece vedere. «Ci arriva già in quella forma, ma in bastoncini più lunghi. Lui li taglia in dieci parti, e ne fa dieci dosi separate.» «Benissimo. Desideravo esserne certo. Adesso, che potenza hanno i piccoli frigoriferi che abbiamo installato nei vivai? Sono in grado di congelare la nostra aria?» «Sì. Perché?» «Lo vedrete. Al momento, penso di dovere fare un altro viaggio; non credo che Drai rinuncerà a scendere sulla superficie di Tre, come promesso.» Senza fornire altre spiegazioni, Ken si avviò verso la cabina di comando della nave interstellare. Aveva ragione; l’impaziente spacciatore di droga aveva già ordinato al pilota di scendere nuovamente. Lee questa volta non aveva fatto obiezioni, ma la sua espressione non era certo soddisfatta. La discesa non ebbe storia, e fu praticamente la ripetizione di quella precedente, a parte il fatto che si diressero verso il trasmettitore fisso, e di conseguenza si trovarono a una decina di chilometri di distanza dal loro precedente punto di atterraggio. Si fermarono a tre chilometri d’altezza al di sopra delle montagne, e si guardarono attorno per scorgere la nube di fumo. Con un certo fastidio, Drai infine la scorse; anche gli occhi dei sarriani riuscivano a distinguerla senza difficoltà, in mezzo alle normali nuvole. «Sembra che bruci ancora» commentò Ken, con aria innocente. «Continuiamo a galleggiare qui in piena vista finché non l’avranno spento?» «No. Scenderemo e ci nasconderemo.» «Tra le piante? Non funziona molto bene, come metodo per nascondere questa nave…» Drai fissò lo scienziato per alcuni istanti. Chiaramente, era al limite della sopportazione. «Mi sto già occupando io della cosa, grazie. La vegetazione non cresce dappertutto, come dovreste essere in grado di vedere anche voi. Laggiù, per esempio.» Indicò una zona a sud. In quella direzione si stendeva una spianata triangolare che rifletteva la luce del cielo come una lastra di metallo. Era una di quelle che Ken aveva notato nel corso della sua prima discesa. «Daremo un’occhiata laggiù» disse Drai. «Pare più bassa del territorio circostante e può costituire un ottimo nascondiglio. Se poi è come le aree dove vivono gli abitanti delle pianure azzurre, può darsi che questi indigeni delle montagne si tengano alla larga. Cosa ne dite, scienziato?» «La cosa potrebbe avere una sua logica» rispose Ken. Drai non rispose; si limitò a fare un gesto a Lee, e il pilota, obbediente, diresse la nave verso il liscio bassopiano. Quando l’altimetro radar segnalò una distanza di centocinquanta metri, Ken cominciò a esaminare attentamente l’area. Era più grande di quanto gli fosse parsa da lontano, e non riuscì a capire la sua natura. Su quel pianeta c’erano degli strani minerali, certo; se n’era accorto dalla breve occhiata che aveva potuto dare ai campioni che aveva portato con sé. Direttamente sotto la nave non riusciva a scorgere alcun particolare; ma ai bordi dell’area si riflettevano gli alberi che crescevano tutt’attorno a essa. «Lee! Fermatevi!» gridò, e il pilota obbedì senza pensare, colpito dal suo tono allarmato. «Cosa c’è?» Questa volta, nella voce di Drai non c’era l’eterna sfumatura di sospetto. «È un liquido! Guardate ai bordi, il riflesso degli oggetti… come trema alle correnti d’aria!» «E allora?» «L’unico liquido che ho incontrato su questo pianeta» spiegò Ken «si comportava come quello strano ossido che abbiamo trovato su Quattro… quello che per poco non mi congelava i piedi. Ne ho già visto una certa quantità anche su questo pianeta, e ho provato a toccarla con un manipolatore; la sostanza si è vaporizzata immediatamente, e ho dovuto aspettare parecchi minuti prima di poter di nuovo infilare il tentacolo nella manica. Credo che sia quel composto che assorbe il calore… protossido d’idrogeno.» «Perché non me lo avete detto prima?» chiese Drai. La sua voce era di nuovo carica di sospetto. «Non ne ho avuto il tempo. Inoltre, se voi volete rimanere su questo pianeta sotto forma di statua congelata, la cosa non mi riguarda… vi ho avvertito solo per il fatto che in questo momento ci sono anch’io qui con voi. Se non volete credermi, provate prima con una delle sonde. Ne avete a disposizione quante ne volete.» Neppure Drai poté trovare qualcosa da ridire sul suggerimento di Ken, e rivolse pertanto un’occhiata a Feth, perché eseguisse. Il meccanico, dopo avere dato a Ken un’occhiataccia, raggiunse il quadro di comando delle sonde e fece partire un’altra delle navicelle, senza fare commenti. Era disponibile anche quella usata da Ken, ma era l’unica su cui erano installati i comandi manuali, e Feth non voleva rischiare di perderla. Era convinto che l’ipotesi di Ken fosse sostanzialmente corretta. La navetta affusolata si fermò per un istante davanti all’oblò della cabina di comando, poi cominciò a scendere con leggerezza verso la superficie del lago. Il suo scafo era ancora caldo perché era rimasta fino a quel momento all’interno della nave; e il contatto con la superficie liquida fu contrassegnato dall’innalzarsi di una spessa nube di vapore. Feth si affrettò a sollevare la sonda, e attese che si raffreddasse. «Prova poco significativa» commentò. «Si è raffreddata troppo in fretta. Qualche suo sistema potrebbe cedere.» Quando giudicò che si fosse sufficientemente raffreddata, Feth fece riabbassare la sonda. Questa volta, sul punto di contatto col liquido, si videro soltanto delle increspature. Molto lentamente, Feth fece scendere la sonda ancora di più, mentre gli altri osservavano senza parlare. A quanto pareva, il freddo non influiva sul funzionamento di quella macchina. Il freddo no, ma qualcosa d’altro influì. Tutt’a un tratto si levò un’altra nube di vapore, e sul punto dove si era trovata la sonda si allargò un’onda considerevole. Si era trovata è la giusta espressione, perché non ci fu risposta quando il meccanico mosse i comandi per farla sollevare. Dopo un poco, Feth staccò gli occhi dal quadro di comando. «Purtroppo, soltanto i vani di carico di quelle sonde sono a tenuta d’aria» disse. «A quanto pare, il liquido danneggia le macchine elettriche. Probabilmente scioglie l’isolante.» Laj Drai aveva la faccia di chi ha appena visto un fantasma; non rispose direttamente alle parole del meccanico. «Ken!» disse tutt’a un tratto, con aria preoccupata. «Quando ci avete descritto per la prima volta questa distesa, avete detto che il suo aspetto vi faceva venire in mente le pianure azzurre. Esatto?» «Esatto.» Ken capì subito dove volesse andare a parare il trafficante di droga. «Vi sembra… vi sembra possibile che un pianeta contenga una tale quantità di liquido da coprire tre quarti della sua superficie?» «Non posso certamente dire che sia impossibile» rispose Ken. «Confesso però che è una cosa difficile da immaginare. Qualsiasi liquido… e soprattutto uno come questo, che sul nostro pianeta è così raro. Comunque, questo pianeta ha un diametro superiore a quello di Sarr, e quindi la sua velocità di fuga è più alta; inoltre è più freddo, quindi la velocità media delle molecole deve essere inferiore… vediamo…» S’interruppe per fare mentalmente alcuni calcoli. Poi riprese: «Sì, il pianeta potrebbe trattenere senza difficoltà quei gas; e ossigeno e idrogeno sono tra gli elementi più comuni dell’universo. Temo che la cosa sia perfettamente possibile, Drai.» L’altro non rispose; tutti capivano cos’avesse in mente. Quando riprese a parlare, Ken si sentì molto intelligente… aveva previsto con esattezza cosa avrebbe detto lo spacciatore. «Ma gli abitanti delle pianure» disse infatti Drai «riescono a vivere in questa sostanza?… O forse non sono mai esistiti; dev’essere stato il liquido a distruggere le sonde… Eppure, i loro radar? Li abbiamo intercettati!» Fissò Ken, come se avesse trovato l’argomento che tagliava la testa al toro. Ken aveva seguito il suo ragionamento perfettamente. Rispose: «Non avete nessuna prova che quei radar non appartengano alla razza con cui commerciate. Ho già fatto notare che hanno delle precise conoscenze astronomiche. Credo che negli ultimi venti anni vi siate costruito sul loro conto, un pezzo alla volta, una bella serie di fantasie, anche se ammetto di non esserne ancora sicuro al cento per cento.» Continuando a tenere un occhio sul misterioso liquido che si stendeva al di sotto della nave, Drai guardò con l’altro occhio il pilota. «Lee» disse «salite a una quota di una quindicina di chilometri, e fate andare avanti la nave. La direzione non ha importanza, penso.» Il pilota fece come ordinato, senza parlare. Non seguì la rotta più breve verso l’oceano, ma la velocità della nave, anche all’interno dell’atmosfera, era tale che pochi minuti più tardi si trovarono sopra una di quelle favoleggiate «pianure azzurre»: in venti anni sarriani, nessuno di loro aveva mai osato portarsi così vicino a esse. Senza dire niente, il trafficante fece segno di scendere, e poco più tardi la nave si fermò a poche decine di metri al di sopra delle onde. Drai osservò a lungo la superficie che si stendeva sotto di lui, poi disse a Ken tre sole parole: «Voglio un campione.» Lo scienziato rifletté un momento; poi recuperò la piccola bomba calorimetrica che aveva utilizzato per prelevare i campioni di ghiaccio del Pianeta Quattro, la svuotò dell’aria e chiuse la valvola. Si infilò l’armatura ed entrò nella camera di decompressione, dopo avere avvertito Lee di tenere quanto più ferma possibile la nave. Legò un filo alla bomba e un altro filo al comando della valvola; poi aprì il portello esterno e calò lentamente la bomba finché la differenza di peso non gli disse che ormai era immersa nel liquido. A questo punto Ken tirò il filo della valvola, attese un momento, recuperò la bomba, serrò ermeticamente la valvola e chiuse il portello esterno. Naturalmente, la bomba esplose con violenza dopo pochi secondi, quando il solfo cessò di condensarsi sulla sua superficie. Ken ringraziò di non essersi tolto l’armatura… alcuni pezzi della bomba colpirono il metallo… e dopo qualche riflessione decise di fare un secondo tentativo. Questa volta calò una minuscola spugna di lana di vetro, sperando che il liquido misterioso avesse una sufficiente tensione superficiale. Infilò la spugna in un’altra bomba, e, con lo stesso metodo seguito per il campione marziano, determinò il peso molecolare della sostanza. Era più alto del precedente, ma poi notò i depositi di sali sulla spugna, e sottrasse dal calcolo il loro peso. Questa volta, il risultato non lasciava dubbi: la sostanza era davvero protossido d’idrogeno. Per qualche istante, abbassò gli occhi sulla mobile distesa azzurra, chiedendosi quanto era profonda e che effetti avesse sulle condizioni del Pianeta dei Ghiacci. Poi si voltò, uscì dall’armatura… era rimasto al suo interno per l’intera durata dell’esperimento, dopo la prima esplosione… e andò a fare rapporto a Drai. Il trafficante lo ascoltò in silenzio. Era ancora scosso dal crollo delle sue radicate convinzioni. Trascorsero alcuni minuti prima che parlasse, e quando lo fece, si limitò a dire: «Riportateci sul Pianeta Uno, Lee. Devo riflettere.» Ken e Feth si guardarono negli occhi, cercando di non mostrare alcuna emozione. 20 «Be, pare proprio che siate riuscito a dargli il colpo di grazia» commentò Feth. Aveva l’aria infelice. «Non capisco» disse Ken. Lo scienziato e il meccanico, in apparenza, erano indaffaratissimi a controllare le variazioni di temperatura dei vivai refrigerati. «Ho faticato per anni ad alimentare in lui questa teoria degli abitanti delle pianure azzurre. Avevo capito anch’io che era solo una delle tante ipotesi possibili, ma a Drai non erano mai arrivate informazioni che potessero contraddirla. E ho fatto quello che ho potuto per tenere al minimo la produzione di tafacco.» «Purché non cessasse mai del tutto…» lo interruppe Ken, con una certa durezza. «Esatto. Voi adesso avete demolito la storia che spaventava Drai e che gli impediva di dedicarsi all’esplorazione del pianeta, e allo stesso tempo gli avete dato la possibilità di procurarsi dagli indigeni, con la forza e con le minacce, quello che gli interessa. Se avevate qualche idea, credo che abbia fatto completamente fiasco.» «Oh, non direi affatto» disse Ken. «Avete capito anche voi cosa pensava Drai quando è sceso dalla nave.» «Certo. Rimpiangeva gli anni sprecati, e i soldi spesi inutilmente in questo periodo, suppongo. Ma non gli durerà ancora per molto; ormai è da diversi giorni che Drai sta rimuginando tra sé la cosa. E quando gli sarà passata… Vedrete.» Ken aveva continuato a riflettere mentre il meccanico si lamentava; ora lo interruppe bruscamente. «A quel punto sarà ormai troppo tardi, e non potrà più fare niente. Feth, voglio che per qualche tempo facciate come vi dico, stando sulla fiducia. Vi prometto che non perderete la vostra dose. Avrò molto da fare nella camera di decompressione: per almeno un paio d’ore, immagino. Lee è ancora a bordo. Voglio che voi lo troviate e che lo teniate occupato in qualche maniera, almeno finché non avrò finito. Non voglio che veda cosa faccio. Voi lo conoscete da più tempo di me, e saprete trovare qualcosa d’interessante per lui. Non ammazzatemelo, però; più avanti avremo bisogno di lui.» Feth studiò per vari secondi la faccia dello scienziato, senza capire. Saggiamente, Ken non disse altro, e lo lasciò a combattere da solo contro quella che era una paura perfettamente naturale. Rimase soddisfatto e non molto sorpreso quando infine il meccanico disse: «Benissimo» e scomparve in direzione della cabina di comando. Ken attese un momento; poi, ragionevolmente sicuro di non essere interrotto, chiuse la porta interna della camera di decompressione, s’infilò una comune tuta spaziale e si dedicò alacremente al lavoro. Gli spiaceva di dovere sacrificare una parte dei suoi campioni vivi, ma si consolò pensando che poteva agevolmente sostituirli in futuro. Comunque, il vivaio da lui usato era quello che conteneva meno piante: il fuoco aveva interrotto i bambini umani prima che riuscissero a fare molti progressi. Si trattava comunque di preveggenza e non di fortuna; aveva deciso Ken quale usare, ancora prima di lasciare il pianeta. Nella cabina di comando, Feth non incontrò grandi difficoltà a svolgere il compito che gli era assegnato. Tra lui e il pilota non c’era mai stata una grande amicizia, ma Feth non aveva mai nutrito nei riguardi di Lee l’odio che nutriva nei confronti del suo padrone. Lee era individuo con pochi scrupoli, e in passato ne aveva dato spesso la dimostrazione, ma Feth non aveva mai avuto gravi motivi per detestarlo. Di conseguenza non c’era niente di strano nel fatto che il meccanico entrasse in cabina di comando a fare quattro chiacchiere. Il pilota, com’era sua abitudine fuori dell’orario di lavoro, stava leggendo; alla domanda su dove si trovasse Ken, il meccanico rispose che stava giocando con i suoi vegetali nella camera di decompressione. «Perché usa sempre come laboratorio la camera pressurizzata?» si lamentò il pilota. «Gli ho già detto che non deve farlo. Ha il suo laboratorio nella base… perché non si porta laggiù i suoi vegetali?» «Credo che sia per questo: pensa che se si ferma il refrigeratore, può svuotare la camera dell’aria che contiene, e riparare il guasto prima che i suoi campioni subiscano dei danni» rispose Feth. «Ma per averne la certezza, dovresti chiederlo a lui. Comunque, non preoccuparti; a bordo ci siamo solo noi tre, e se tu dovessi partire all’improvviso, le casse non sono molto grandi, e facciamo in fretta a portarle via.» Con un brontolio, il pilota tornò a dedicarsi alla lettura; ma di tanto in tanto faceva correre l’occhio alla sua batteria di luci-spia. Notò che Ken svuotava la camera stagna e apriva il portello esterno, ma il fatto, evidentemente, non gli parve meritevole di attenzione. In realtà, neppure Feth sarebbe stato in grado di spiegargli perché Ken l’avesse fatto: a tale proposito, anzi, il meccanico aveva le sue perplessità. Fortunatamente, il pilota era abituato alla sua laconicità e alla sua malinconia, perché, se così non fosse stato, sarebbe potuto sorgere in lui qualche sospetto. Anzi, era proprio per questo che Ken non aveva rivelato al meccanico l’intero suo piano: temeva che Feth sembrasse troppo allegro per essere naturale. La successiva interruzione indusse il pilota a posare il libro e ad alzarsi in piedi. «Cosa combina, adesso, quel pazzo?» domandò a voce alta. «Mi ha fatto dei buchi nello scafo?» Feth poteva capire benissimo l’origine della sua preoccupazione; il portello esterno della camera stagna era stato chiuso, e, poco prima, la pressione era ritornata al livello normale… ma ora la pressione stava rapidamente scendendo, come per una grave falla, e veniva pompata aria nella camera stagna. Il portello esterno rimaneva chiuso. «Può darsi che voglia riempire i serbatoi delle tute» azzardò il meccanico. «E che pompa usa? A bordo non ce n’è nessuna con portata superiore a quella delle bocchette della camera stagna; solo quella del condizionamento centrale. E dalla camera stagna non può collegarsi a essa.» «Mettiti in contatto radio con lui, e chiediglielo. Vedo che anche il portello interno è chiuso; gli verrebbe un colpo, se tu lo aprissi nel bel mezzo del suo lavoro.» «Il colpo» brontolò Lee «verrà a me, se non la smette subito.» Osservò per qualche tempo i quadranti, ma notò che adesso la pressione rimaneva pressoché costante, a circa metà del normale. «Be, se c’è stata una perdita, almeno ha avuto il buon senso di tappare la falla.» Prese il microfono, lo sintonizzò sulla lunghezza d’onda usata per i ricevitori delle tute, e chiamò Ken. Lo scienziato rispose subito, negò di avere fatto dei buchi nello scafo e disse che aveva quasi finito il suo lavoro. Da lui, Lee non riuscì a sapere altro. «Si direbbe quasi che non ti fidi di lui…» scherzò Feth, mentre il pilota posava il microfono. «Visto che non gli credi, potresti anche non credere a me… ma vedo che di me non ti preoccupi molto.» «Forse, quando avrà annusato qualche altra dose, non mi preoccuperò più neanche di lui» rispose Lee. «Ma, ora come ora, a sentire come parla, mi dà l’impressione che non abbia capito bene la sua situazione. Non ho mai sentito nessuno rivolgersi a Drai con tanta sicurezza.» «Io gli ho parlato così… una volta.» «Sì, ma lui l’ha già fatto più di una volta. E Drai la pensa come me. Mi ha detto di non allontanarmi da questa cabina di comando finché siete a bordo voi due. A me, la cosa non sembra molto importante: la chiave l’ho io, e se c’è qualcuno che è capace di dare energia ai motori quando l’alimentazione è chiusa da una serratura di Bern, mi tolgo tanto di cappello davanti a lui. Comunque, un ordine è un ordine.» Prese ancora una volta a leggere il suo libro. Feth tornò alle sue nere riflessioni. «Allora» pensò «si basano soltanto su quello, per tenerci a bada. Come se non lo sapessi. Se almeno Ken trovasse la maniera di arrivare alla cassaforte refrigerata di Drai… io non sono mai riuscito a farlo… però, anche in questo caso, non saremmo in grado di ritornare su Sarr… se solo cercassimo un sole come Rigel e Deneb, che si può riconoscere a migliaia di parsec di distanza, invece di doverci avvicinare fino a individuare i pianeti…» Pensava a ruota libera, e i suoi pensieri cominciavano sempre con dei «se solo…», come ormai gli succedeva da anni. La droga non aveva danneggiato il cervello di Feth, ma il fatto stesso di essere tossicodipendente gli aveva dato da tempo quel suo atteggiamento apatico nei riguardi di ogni tentativo di fuga. Si domandò perché avesse accettato di fare quello che Ken gli aveva chiesto… lo scienziato non poteva certamente mantenere gli impegni che si era assunto. Queste riflessioni vennero interrotte dalla voce di Ken. «Feth, per favore, volete venire ad aiutarmi per un momento? Ho quasi finito; devo solo portare via dalla camera stagna un po di materiale.» Entrambi i sarriani che stavano nella cabina di comando diedero un’occhiata agli indicatori. La pressione, all’interno della camera stagna, stava di nuovo salendo. «Bene, arrivo» disse Feth. «Aprite il portello interno non appena la pressione si è pareggiata.» Si avviò lungo il corridoio, lasciando solo il pilota. Ken aveva trovato le parole giuste per evitare che Lee andasse a curiosare. Non rimase assente per un periodo sufficiente a destare i sospetti del pilota; nel giro di due o tre minuti, Lee sentì che tutt’e due, meccanico e scienziato, ritornavano. Non parlavano, e, al loro avvicinarsi, il pilota s’incuriosì. Fece per alzarsi con l’intenzione di andare a raggiungerli, ma ebbe soltanto il tempo di mettere i piedi a terra prima che i due entrassero nella cabina. Dalla faccia di Feth era sparita l’aria preoccupata, e al suo posto c’era un’espressione alquanto più difficile da decifrare. Lee, comunque, non perse tempo cercando di capirla, perché i suoi occhi corsero immediatamente all’oggetto che i due nuovi venuti trasportavano, e che era contenuto in una sorta di sacca di stoffa. Era un blocco approssimativamente cubico, con un lato di trenta centimetri. Era di colore giallo. Si lasciava dietro una scia nebbiosa, e sulla sua superficie si formavano gocce gialle: gocce di un colore giallo più profondo, gocce color miele, che si raccoglievano tra loro, scivolavano lungo i fianchi del blocco, entravano nella stoffa e poi svanivano nell’aria. Per un istante, Lee, rendendosi conto della natura dell’oggetto, fece la faccia sorpresa; poi spaventata; infine riprese il controllo di sé. «Ecco dove finiva l’aria» commentò. «Quali sarebbero le vostre intenzioni?» Ken, che indossava la tuta spaziale e s’era tolto soltanto l’elmetto, non rispose direttamente alla domanda. Invece, ne rivolse una al pilota. «Voi conoscete le coordinate di Sarr, e potete portarci laggiù, vero?» «Certamente. Ho già fatto il viaggio un sufficiente numero di volte. E allora? Spero che non penserete che ve le dica per evitare un congelamento.» «Che me le diciate o no, non m’interessa. Io voglio che voi pilotiate questa nave. Non intendo affatto farvi toccare questo blocco. Anzi, adesso lo poseremo qui. Potrete prendere la vostra decisione con calma, mentre evapora. Una volta evaporato, saremo noi a prendere la decisione per voi.» Il pilota rise. «Me lo aspettavo» disse. «Dovrei credere che in mezzo a quel blocco c’è del tafacco? L’avete fabbricato pochi minuti fa.» «Vero» disse Ken. «Visto che siete stato voi a parlare della cosa, c’è davvero un cilindro di tafacco all’interno del blocco: ce l’ho messo io stesso… pochi minuti fa, come avete detto voi.» «Suppongo che abbiate scassinato la cassaforte di Laj Drai e l’abbiate preso.» Il pilota era chiaramente incredulo. «No» spiegò Ken. «Tuttavia, il suggerimento che mi ha dato Drai, di fare appello alla riconoscenza degli indigeni del Pianeta Tre è stato davvero ottimo.» «Suppongo che vi abbiano dato cento dosi per ringraziarvi di avere salvato i loro piccoli.» «Tanto per la cronaca, la quantità si aggira sulle duemila. Non sono stato a fare il conto, ma i cilindri sono ben impacchettati; e se la dose di cui parlate è la decima parte di uno dei cilindri preparati dagli indigeni, la cifra è esatta.» Il pilota cominciò a preoccuparsi. «Ma… da quando Drai ha avuto l’idea, non è più sceso nessuno. Non potete averle avute.» «Non offendetemi insinuando che ho dovuto aspettare l’imbeccata di Drai. Ci sono arrivato da solo fin dal primo momento, ma dato che ho una coscienza morale, ho lasciato perdere. E poi, come ho già avuto occasione di far notare, non conosco ancora a sufficienza la loro lingua. La cosa è andata così: l’indigeno che mi insegna la lingua mi ha dato una scatola piena della vostra merce, senza bisogno che gliela chiedessi io. È una brava persona, e a quanto pare conosce il valore che noi diamo al tafacco. Temo però di essermi dimenticato di riferire a Drai questo particolare.» Lee, che cominciava a rendersi conto che la storia poteva essere vera, cominciò ad allarmarsi sul serio. Feth, invece, pareva molto più allegro del solito. Aveva un unico dubbio: che lo scienziato bluffasse? Ma la cosa sembrava impossibile; fare ritorno a Sarr non serviva a niente, se Ken non aveva con sé una scorta della droga, e finora non aveva parlato di indurre Lee ad andarla a prendere dalla cassaforte di Drai. A quanto pareva, queste idee passarono anche nella mente di Lee: guardava con aria atterrita il blocco di solfo, sempre più piccolo. Fece un’ultima obiezione, ma già prima di parlare sapeva che era un’obiezione molto debole. «Non oserete lasciare che il tafacco bruci… Feth è senza tuta, e voi non avete l’elmetto.» «Che importanza può avere per noi?» Mentre Ken così diceva, Lee si gettò all’improvviso, freneticamente, verso il portello. Finì a testa bassa contro Feth, e per alcuni secondi ci fu una confusione di gambe e tentacoli che si agitavano pazzamente. Ken si limitò ad assistere, perché non gli pareva che il suo intervento fosse necessario. A un certo punto, il pilota giunse quasi a sfiorare il quadro di comando, e allungò i tentacoli per azionare il segnale d’allarme; ma qualche istante più tardi, quando si rimise in piedi, non pareva molto desideroso di riprendere la lotta. «Se solo…» mormorò. «Già» disse Feth «sarebbe stato bello se Drai avesse permesso anche ad altri di portare una pistola. Però non l’ha fatto, e tu non hai molto tempo. Cosa decidi?» Per dare maggiore validità alle sue parole, alzò la temperatura della stanza girando il termostato che si trovava a poca distanza da lui. Il pilota si arrese. Se aveva ancora qualche dubbio sulle parole di Ken, non osò rischiare: aveva visto molti drogati, oltre a Feth, e conosceva gli antipatici dettagli. «Va bene!» disse. «Farò quello che volete!» Senza fare commenti, Ken sollevò i lembi del pezzo di stoffa e riportò all’interno della camera stagna il suo fagotto. Ritornò dopo alcuni minuti. «Ce l’ho fatta!» disse. «Temevo che bruciasse prima che arrivassi laggiù… la vostra resistenza, Lee, è stata più lunga del previsto. Comunque, la camera stagna è perfettamente agibile. Aggiungerò solo che quel particolare blocco è il primodall’alto, nel mio piccolo refrigeratore, e che per metterlo in azione basterà poco. Benissimo, ora possiamo fare qualche progetto per l’avvenire. Vorrei arrestare il nostro amico Drai, ma non vedo come si possa fare. Avete qualche idea?» «Arrestare Drai?» Tutt’a un tratto, sulla faccia di Feth comparve un pallido sorriso. «Già» disse Ken. «Temo proprio di essere una sorta di vice investigatore della narcotici, anche se non sono stato io a cercarmi questo incarico. Anzi, potrei arruolare anche voi, Feth… credo di poterlo fare legalmente.» «Non preoccupatevi» disse Feth. «La cosa è già stata fatta diciotto anni fa. A quanto pare, non vi hanno detto che la trovata di prendere un praticone di scienza privo di ogni malizia e di cercare di trasformarlo in poliziotto era già stata sperimentata e senza risultati apprezzabili.» «No, non me l’hanno detto. E dovrò fare un lungo discorso a Rade, quando ritorneremo su Sarr. Se sapeva che…» «Non prendetevela con lui» disse Feth. «Visto come sono andate le cose, sono lieto che abbia riprovato. Non avete fatto un cattivo lavoro, lasciatevelo dire.» «Può darsi, ma il lavoro non è ancora finito. Adesso capisco finalmente alcune cose che mi lasciavano perplesso sul vostro conto. Per quanto mi riguarda, il merito sarà di tutti e due, d’ora in poi. Come possiamo catturare Drai? Suppongo che gli altri della banda abbiano poca importanza.» «Perché non lasciarlo dov’è? Non ci sono altre navi; finché questa sarà in mano nostra, non potrà muoversi, a meno che non voglia viaggiare con una sonda. E dato che in questo sistema non ci sono altri posti dove può vivere, non credo che abbia voglia di farlo. Il mio suggerimento è di partire immediatamente, e di lasciare che sia lui a preoccuparsi di capire cosa è successo finché non ritorneremo con gli agenti.» «Suggerimento accettato… salvo che per un particolare. Prima di partire devo fare una piccola commissione. Feth, tenete d’occhio il nostro amico e pilota, mentre io esco.» E prima che gli altri potessero fargli qualche domanda, sparì in direzione del portello stagno. In effetti la sua assenza si prolungò più del previsto, e furono quelli della nave ad andare a cercarlo. Era in una valle nei pressi della stazione spaziale, alle prese con un problema che non poteva affrontare da solo. Sallman Ken amava pagare i suoi debiti. Nessuno dei Wing, naturalmente, riteneva che lo strano «uomo di fuoco» dovesse loro qualcosa. Anzi, pensavano di essere in debito nei suoi riguardi. Non lo ritenevano colpevole dell’incendio: lui era a terra, ed era occupato a parlare con loro, quando era scoppiato il fuoco a causa della presenza della nave. Prima di sera, comunque, l’incendio era stato spento, grazie anche alla squadra venuta da Clark Fork. L’unica vera preoccupazione della famiglia era se l’extraterrestre intendesse o meno tornare. Era già sera quando si ricordarono che quel giorno doveva arrivare una sonda con un carico di metallo. L’indomani mattina, Don e Roger si recarono al trasmettitore, e trovarono una sonda, ma il vano di carico era chiuso e nessuno rispose ai loro segnali. Si trattava naturalmente della sonda inviata da Drai: con tutto quello che era successo in seguito, il trafficante se n’era dimenticato. Era pilotata a distanza mediante la radio, e non con il trasmettitore acronico, poiché era partita direttamente dalla Karella, e non sarebbe stato possibile cambiare a distanza il tipo di onda da cui era comandata, neanche se il trafficante se ne fosse ricordato. Quanto a Ken, una volta che ebbe portato a bordo della Karella il suo «pagamento», non pensò più alla sonda ferma sul pianeta; l’unica cosa a cui pensò fu che occorreva perfezionare la sua conoscenza del sistema solare prima di allontanarsi da esso. Passò un intero giorno terrestre a esaminare la famiglia di pianeti gelidi orbitanti attorno a Sol, prima che si lasciasse convincere a partire per Sarr… e in realtà Feth non mise molto impegno nel tentativo di convincerlo, perché anche lui era curioso di esaminarli. Alla fine, comunque, tornarono indietro per fare la loro ultima visita al Pianeta Tre. Sul trasmettitore spuntava giusto in quel momento la luce del sole, e questa volta perfino Lee pareva disposto a scendere senza fare storie. A un paio di chilometri al di sopra delle montagne, Ken gli fece cambiare leggermente rotta perché portasse la nave sopra la casa dei Wing. Gli indigeni li avevano visti arrivare; tutt’e sette uscirono di casa e osservarono la nave con emozioni che Ken poteva facilmente indovinare. Indicò a Lee di fermarsi in modo che il portello a tenuta stagna si trovasse sulla zona priva di alberi davanti alla casa, e che il fondo della nave fosse ad almeno una decina di metri dalle cime degli alberi. Poi s’infilò l’armatura, entrò nella camera stagna con il suo «pagamento», e aprì il portello esterno senza preoccuparsi di pompare l’aria. Per un momento, la sua figura fu avvolta dalla nube di fuoco azzurro che scaturì dal portello e che fece emettere agli indigeni un grido di spavento. Fortunatamente, la fiamma di solfo ardente guizzò verso l’alto, e scomparve in un attimo. Poi Ken, indicando agli indigeni di togliersi dalla zona sotto di lui, fece rotolare al di là del bordo del portello il suo «pagamento», che, quando toccò terra, fece un bel buco nel terreno. Infine dalla camera di decompressione uscì un disegno assai accurato, tracciato sul materiale di fluorosilicone che i sarriani usavano come carta; e quando i Wing tornarono a guardare in alto dopo essersi affollati intorno al foglio, la Karella era ormai soltanto un puntino nel cielo, e Ken stava già preparando il suo rapporto per gli ecologi planetari e i ricercatori medici che sarebbero ritornati con lui sul Pianeta dei Ghiacci. Forse si poteva trovare una cura per la droga, ma anche se non era possibile trovarla, lui era in rapporti abbastanza buoni con gli indigeni, e non doveva preoccuparsi. Con questo non voleva dire che il suo interesse per quelle strane creature si limitasse alla droga… Si ricordò perfino di scrivere un breve rapporto per Rade. A terra, per qualche tempo non parlò nessuno. «Papà, non riesco neppure a muoverlo» furono le prime parole che si udirono. Venivano da Roger, che aveva cercato di muovere la massa grigia che aveva toccato terra davanti a loro. «Peserà almeno cento chili» disse Don. «Se è tutto platino…» «Avremo il nostro lavoro per tagliarlo in pezzi abbastanza piccoli da non destare troppa attenzione» terminò il padre. «Ma adesso lasciatemi guardare il disegno.» Era un piccolo schema del sistema solare. Accanto a esso c’era la figura inconfondibile di una nave spaziale come la Karella… che si allontanava. Accanto, c’era un secondo disegno, che rappresentava in scala più grande le orbite dei pianeti interni: su di esso erano indicati gli archi descritti da ciascuno dei pianeti in un periodo di un mese circa; infine c’era un terzo disegno uguale al primo, ma in esso la nave spaziale si dirigeva verso il sistema. Il significato era abbastanza chiaro, e sulla faccia di Wing padre comparve un sorriso. «Penso che continueremo a procurarci il companatico come in passato» disse «e penso che il nostro amico voglia imparare ancora un po di inglese. Ritornerà, niente paura. Per qualche tempo ho temuto che la stecca di sigarette che gli ho regalato avesse fatto un cattivo effetto su di lui. Allora…» si voltò verso i figli e riprese, dopo un attimo: «Don… Roger… andiamo. Se sarà assente per un mese, e se quella navicella è ancora dove l’abbiamo vista, ci sono delle macchine da smontare. Roger, può darsi che quando avrai l’età di tuo fratello maggiore potrai essere tu ai comandi, quando restituiremo la visita al tuo amico dal sangue bollente…» FINE